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Crisi: uno sguardo indietro per andare avanti

Crisi: uno sguardo indietro per andare avanti

05 Dicembre 2012 Giovanni Villani
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L’Italia è spesso un paese senza memoria, ma senza un’analisi del come e del perché si è arrivati a questa situazione e una puntuale analisi dell’attuale conformazione del sistema economico, è difficile individuare la strada che ci possa portare “fuori dal tunnel”.

Riguardiamo molto brevemente alle fasi storiche della nostra recente economia. La crescita economica post-bellica fu promossa sia dalla domanda interna sia dalla congiuntura internazionale che favorì gli scambi del sistema economico italiano con l’estero. La ripresa in Italia fu favorita da una grande riserva di forza-lavoro con poche pretese salariali e dalla bassa crescita dei prezzi delle materie prime. Questo contesto permise di avere una forte competitività rispetto agli altri Paesi occidentali. L’Italia allora era “il più povero dei paesi ricchi”.

Un pò di storia breve

A partire dagli anni sessanta/settanta cominciarono a farsi sentire l’esigenza di rinnovamento, dovuto principalmente allo sviluppo di nuove tecnologie, all’influsso del modello americano della grande corporation e all’inasprirsi della concorrenza internazionale per effetto dell’espansione dei mercati. Si avviò allora una fase di riassetto e ristrutturazione delle medie e grandi imprese. La filosofia delle operazioni fu l’aumento e l’ammodernamento del capitale, con riduzione e razionalizzazione dell’impiego delle risorse umane. La grande industria italiana non poteva non insediarsi nelle aree urbane già precedentemente interessate da forti localizzazioni industriali. La concentrazione industriale interessò il famoso “triangolo industriale” e richiamò masse di lavoratori dalle aree più svantaggiate, specie del Mezzogiorno.

Si creò poi la situazione degenere delle holding pubbliche, le cui dimensioni negli anni settanta contavano più di 700000 occupati con 17000 miliardi di lire di fatturato ed assorbiva il 35% delle imprese medio/grandi, ma erano amministrate in maniera burocratica, con risultati di bilancio in rosso che le portarono ad indebitarsi e a ricorrere al denaro pubblico.

Intanto vene meno il ruolo dell’Italia in settori strategici come l’elettronica, con il fallimento dell’Olivetti di Ivrea, mentre il settore chimico non riuscì a razionalizzarsi e coordinarsi per incapacità imprenditoriale e giochi politici. L’Italia rimase specializzata nei settori tradizionali (con poche ma interessanti, eccezioni), non avendo investito nei settori a più alto contenuto tecnologico e di ricerca e sviluppo. La grande impresa, infatti, era cresciuta grazie ad un fattore che ormai si era esaurito (la relativa economicità della forza-lavoro italiana) e non aveva saputo investire nei settori innovativi che le avrebbero conferito nuovi e durevoli benefici.

...ed oggi

Il sistema industriale italiano oggi appare con una struttura e delle caratteristiche del tutto peculiari e diverse dagli altri Paesi occidentali, prima tra tutte il dualismo tra poche grandi imprese e molte piccole e medie. Inoltre, presenta ancora oggi una maggiore distribuzione nelle regioni del Nord, in primo luogo in Lombardia e Piemonte, e più di recente in Veneto ed Emilia-Romagna.

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Venendo alla situazione attuale dell’Italia, in termini di occupazione tra il 2000 e il 2007, il peso dell’industria in senso stretto si è ridotto di quasi 2 punti percentuali (dal 22,5 al 20,7%). Negli anni successivi la crisi ha causato un’ulteriore riduzione dell’occupazione nell’industria, che si è collocata nel 2010-11 al 19,4% del totale.

Il marcato indebolimento della domanda interna nell’ultimo biennio, attribuibile alla contrazione del reddito disponibile delle famiglie (pari a circa il 5% in termini reali nel periodo 2008-11, a fronte della maggior tenuta dei redditi delle famiglie tedesche e francesi, aumentati del 2,4 e 3,1%, rispettivamente) ha inciso soprattutto sulla produzione di beni di consumo.

Dal lato della domanda, in tutte e tre le economie il maggior sostegno all’attività economica è giunto dalla ripresa delle esportazioni. Le esportazioni dell’Italia, nonostante una ripresa comunque apprezzabile, solo dallo scorcio del 2011 sono tornate sui valori precedenti la recessione globale se considerate in valori; in termini di volumi, continuano a rimanere a un livello inferiore a quello pre-crisi. Nel complesso, tra il 1999 e il 2011, l’Italia ha perso quasi il 30%, sia in valore sia in volume, della sua quota di commercio mondiale di beni.

Le difficoltà attuali

L’attuale andamento insoddisfacente dell’economia italiana è il riflesso della sua difficoltà ad adattarsi a tre importanti fattori di cambiamento del contesto economico internazionale:

  • la “globalizzazione”, ovvero l’integrazione mondiale dei mercati reali e finanziari;
  • il processo di integrazione europea, culminato nell’introduzione della moneta unica;
  • il cambiamento del paradigma tecnologico, portato dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Questi tre fattori hanno determinato un forte e repentino aumento della pressione concorrenziale. Ciò è disceso sia dall’entrata massiccia sui mercati mondiali di beni e servizi a basso costo provenienti dai paesi emergenti (che ha riguardato soprattutto le imprese dei settori tradizionali a più alta intensità di lavoro non qualificato), sia dall’allargamento del mercato unico europeo e dall’impossibilità di recuperare competitività di prezzo attraverso il deprezzamento del cambio nominale, sia, infine, dalla difficoltà di tenere il passo delle imprese più pronte a sfruttare i guadagni di efficienza consentiti dalla rivoluzione tecnologica.

Sottodimensionata appare in Italia la spesa totale in Ricerca e sviluppo (R&S). Essa era pari all’1,3% del PIL nel 2010, un valore inferiore alla media dell’UE (2,0%): ultimo tra i paesi dell’UE15. Il dato italiano risulta molto distante da quelli dei paesi scandinavi più innovativi (Finlandia e Svezia con 3,9 e 3,4%, rispettivamente) e della Germania (2,8%). La spesa in R&S in Italia è certamente ben lontana dall’obiettivo del 3%, enunciato nella strategia UE2020. Va tuttavia notato che, a fronte di una spesa pubblica in R&S solo lievemente inferiore rispetto agli altri principali paesi europei, in Italia molto bassa è soprattutto quella dei privati, che è pari allo 0,7% del PIL contro l’1,2 della media dell’UE, l’1,4 della Francia e l’1,9 della Germania.

Realtà delle imprese e innovazione

Tra le caratteristiche delle imprese che tendono a frenare oggi più che in passato la capacità di innovare i prodotti e i processi produttivi, di recepire le nuove tecnologie, di accrescere l’efficienza, un fattore sicuramente importante è rappresentato dalla dimensione d’impresa. In Italia la dimensione media aziendale, pari a 4 addetti, è inferiore del 40% a quella media dell’area dell’euro. Secondo i dati Istat relativi al 2009, su 4,5 milioni di imprese attive, il 95% ha meno di 10 dipendenti. All’altra estremità della distribuzione, le imprese con più di 250 addetti sono solo 3718.

La piccola dimensione delle imprese continua a dare al sistema produttivo una certa flessibilità, ma, più piccola è la dimensione, più difficoltoso è tuttavia sostenere gli elevati costi fissi connessi con l’attività di R&S, l’innovazione e l’accesso ai mercati esteri. In pratica, la carenza di imprese grandi e medie si ripercuote negativamente, più che in passato, sulla capacità competitiva dell’economia italiana.

Per molti anni un’efficiente divisione del lavoro tra piccole imprese specializzate in singole lavorazioni e la loro concentrazione territoriale hanno consentito di recuperare a livello dell’intera filiera i vantaggi competitivi goduti solo da imprese di maggiori dimensioni. Analisi recenti condotte dalla Banca d’Italia mostrano come questa configurazione produttiva, tipica dei distretti industriali, caratterizzi ancora l’Italia in misura nettamente più accentuata di quanto accada negli altri principali paesi europei. Tuttavia, non è certo che i distretti, pur restano un punto di forza del sistema produttivo italiano, possano sopperire come in passato ai problemi determinati dalle dimensioni modeste della gran parte delle imprese italiane.

A limitare la capacità innovativa delle imprese italiane contribuiscono, nel confronto con gli altri principali paesi europei, anche una classe imprenditoriale mediamente più anziana e una forza lavoro meno istruita. L’Italia è in ritardo rispetto ai principali paesi avanzati, sia nei tassi di scolarità e di istruzione universitaria, sia nel livello delle competenze dei giovani e della popolazione adulta. Secondo le più recenti statistiche dell’OCSE del 2009, per le classi di età tra 25 e 34 anni, la quota dei diplomati italiani è del 70%, ma si confronta con una media OCSE dell’81%. Il divario è preoccupante anche quando si guarda all’istruzione universitaria: sempre nel 2009, la quota di laureati tra i più giovani con età tra i 25 e i 34 anni, supera il 20%, ma si confronta con una media OCSE pari a circa il 37%.

I fattori esterni al sistema economico, che ne frenano la produttività e la competitività, possono essere individuati nella fragilità della finanza pubblica e nel peso del suo enorme debito, nella limitata concorrenza in alcuni settori, nella scarsa efficienza della Pubblica amministrazione, nelle inadeguatezze del sistema di istruzione, in un mercato del lavoro segmentato, iniquo e inefficiente e nei persistenti divari regionali.

Conclusione

In conclusione, dalla mappa delle crisi aziendali e industriali emerge la natura sempre più strutturale delle difficoltà del sistema industriale italiano. Non basta confidare nella ripresa dell’economia nazionale ed internazionale, fattore di per sé positivo ed utile. Senza adeguati interventi di politica industriale sui singoli settori che sostengano gli investimenti in innovazione, qualità, ricerca applicata, sia sui prodotti che sui processi, non ci saranno effetti positivi per l’industria italiana.

Per questo motivo, e per tutte le necessarie azioni di contesto (si pensi all’incidenza del costo energetico e delle carenze infrastrutturali), è più che mai urgente una politica economica orientata a determinare tutte le condizioni che facciano ripartire lo sviluppo e la crescita in Italia.

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