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L’uomo è tecnico, protetico, artificiale fin dai tempi primitivi (Rossella Fabbrichesi)

L’uomo è tecnico, protetico, artificiale fin dai tempi primitivi (Rossella Fabbrichesi)

20 Marzo 2021 Interviste filosofiche
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Dal Protagora platonico all’Orazione sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola, l’uomo è definito come l’essere che non ha strumenti e dotazioni peculiari, ma ha natura indefinita e dunque può divenire quello che vuole, angelo o fiera. La sua natura è ‘naturalmente’ irrobustita con protesi e tecniche avventizie, è estranea, strumentale, dotata di arti (arti-ficiale) e astuzie per sopperire alle proprie deficienze strutturali.

"La filosofia ha sempre avuto un’anima pop, diciamo così. Ha sempre amato più le piazze (oggi virtuali) che le accademie, più l’agorà dello studiolo privato. Socrate camminava nei vicoli della sua Atene, tra i suoi concittadini, interrogandoli, dialogando con loro e traendone spunti per la sua filosofia." - Rossella Fabbrichesi

In questo articolo proponiamo l'intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto nel 2017 con Rossella Fabbrichesi  Docente di Ermeneutica filosofica all'Università degli studi di Milano e autrice del libro Cosa si fa quando si fa filosofia.

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori.

Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero?  .

Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Buongiorno a voi, sono una filosofa ‘teoretica’, cioè interessata ai nodi teorici di rilievo che sono stati via via individuati nella storia della filosofia contemporanea (e non solo).

Vengo da due tradizioni: la prima è quella pragmatista, che si è sviluppata a cavallo tra l’800 e il ‘900 e che ha trovato voce soprattutto grazie alle ricerche pionieristiche di Charles Sanders Peirce, fondatore della semiotica e della logica delle relazioni, e di William James, vivace divulgatore e originale interprete in ambito etico e psicologico delle tesi pragmatiste. La seconda tradizione cui mi richiamo, che fa da sfondo anche ai miei studi sul pragmatismo, è quella genealogica, che parte da Nietzsche e arriva a Foucault, una scuola di pensiero che chiede ragione – per dirla alla buona – di come si diventa ciò che si è, di come i concetti sono mutati e hanno cambiato significato nel volgere dei secoli e di come l’uomo stesso si sia trasformato col mutare dei tempi.

Naturalmente, riferirsi all’uomo “in generale” non ha molto senso in questa prospettiva, perché l’uomo è un risultato, un prodotto di molteplici pratiche che l’hanno via via definito culturalmente in un modo o nell’altro. L’interesse per l’homo technologicus si inquadra per me a partire da questa prospettiva.

Nel suo ultimo bel libro Cosa si fa quando si fa filosofia sembra rivolgersi non tanto ai suoi colleghi quanto a tutti coloro, e in particolare ai giovani, che sentono forte il bisogno di invertire la direzione del pensiero comune dominante, di resistere alla tirannia del tempo reale e del presente, di esercitare la capacità di critica, di interpellare la realtà, interna ed esterna, e di agire per trasformarla. Sembra un messaggio rivolto a una minoranza di persone, ai pochi che resistono alle catene, anche simboliche delle caverne (il riferimento è a Platone ma anche a Saramago) e dei centri commerciali e a quelle tecnologiche degli smartphone e dei social network. Cosa può fare/a cosa serve oggi la filosofia per facilitare l'osservazione e la riflessione critica su una realtà molto tecnologica in modo che possa emergere maggiore consapevolezza e determinazione a rimanere umani?

Proseguendo il discorso che facevo prima, noto subito che “rimanere umani” può essere considerato un presupposto problematico. Si ‘diventa’ umani in svariati modi ‘antropopoietici’, come dice Remotti, cioè nelle mille maniere in cui l’umano viene costruito con sapienza a partire dalle condotte delle forme di vita cui appartiene. Non per forza ‘umano’ va dunque contrapposto a ‘artificiale’ o ‘tecnico’.

L’uomo è tecnico, protetico, artificiale fin dai tempi primitivi. Già usare un aratro per dissodare un campo lega tecnicità e naturalità, già usare il linguaggio è utilizzare una protesi con cui si cerca di governare il mondo. L’uomo oggi è però senza dubbio sempre più supportato dalle tecnologie e ibridato dalle protesi del nuovo millennio, che mutano con i loro artifici i confini stessi del nostro definirci ‘umani’. Ma l’inclinazione più propria dell’umanità, la ‘natura’ umana è d sempre una natura “avventizia”, come scriveva già Pico della Mirandola.

Dal Protagora platonico all’Orazione sulla dignità dell’uomo di Pico, l’uomo è definito come l’essere che non ha strumenti e dotazioni peculiari, ma ha natura indefinita e dunque può divenire quello che vuole, angelo o fiera, come dice sempre Pico. La sua natura è ‘naturalmente’ irrobustita con protesi e tecniche avventizie, è estranea, strumentale, dotata di arti (arti-ficiale) e astuzie per sopperire alle proprie deficienze strutturali.

L’umanizzazione, lungi dal condurre al luogo più proprio, appare dunque nutrita da ciò che ne espropria la presunta naturalità. Il linguaggio, come prima tecnica, e poi via via ogni ulteriore artefatto del quale l’uomo si serve nel suo essere-nel-mondo, sono eminentemente pubblici, sociali, artificiali, sono la storia delle alterazioni subite e degli scambi operati con gli altri, che ci impongono un livellamento d’operazioni e di pratiche pubbliche, un’omologazione al corpo comune e sociale, che è evidente fin dalle posture e dalle maniere dei nostri corpi individuali.

Questo non è bene, né male. Come direbbe Nietzsche è al di là del bene e del male. Per la filosofia, e per la filosofia delle pratiche come io la intendo (seguendo in questo le indicazioni magistrali di Carlo Sini), si tratta di non irridere, né detestare, ma solo di comprendere. Comprendere come è avvenuto che siamo diventati umani. E si ricordi (nel mio libro ne parlo a lungo) che Foucault era dell’idea che l’uomo fosse un’invenzione recente e presto destinata a scomparire.

 

Secondo il filosofo Slavoj Zizek viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone? Se a prevalere sono le esperienze sociali e i sensi comuni dei mondi digitali dei social network, per liberarsi è sufficiente tapparsi gli occhi e staccare la spina o vivere il presente dotandosi di nuovi concetti e categorie utili a resistere, alimentare la capacità autocritica e cercare nuove alternative?

Il ruolo del filosofo è quello di vigilare criticamente, di comprendere, come dicevo prima, ma anche di non demonizzare, di non erigere veti, non condannare. Certamente si tratta di ‘restare desti’ e di testimoniare una via possibile di interpretazione e quindi di trasformazione e cambiamento futuri. Per quanto riguarda l’uso delle nuove tecnologie, ripeterei qui ciò che ho scritto in apertura del mio libro In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario (Mimesis): la coscienza oggi sta divenendo del tutto superflua.

Si sta rivelando una funzione di cui non si sente più il bisogno e che, proprio perciò, sta cadendo rapidamente in disuso, per utilizzare metafore evoluzionistiche. Non ne sente il bisogno il giovane frequentatore del web, né il compulsivo utilizzatore di cellulare telefonico, né, tanto meno, l’attore spregiudicato di ‘reality’. I loro pensieri sono più fuori che ‘dentro’: non si custodiscono in un luogo privato, ma godono da subito della luce accecante dello sguardo pubblico, che, per il solo fatto di metterli in rete, li invera.  E se la coscienza è, tutt’al più, una formazione di contraccolpo, sorta, come scrive Nietzsche, dal bisogno di comunicazione, il corpo che ne dovrebbe custodire l’intimità non è più il corpo-ostrica dell’immaginario platonico, ma il corpo comune delle interpretazioni pubbliche. Il guscio si è aperto, e i materiali si sono sparsi tutt’intorno. Dov’è dentro, dov’è fuori? Cos’è pubblico, cos’è privato?

L’idea di “corpo comunitario”, sulla quale lavoro in quel libro, mi ha aiutato a comprendere alcuni fenomeni dell’attuale società della comunicazione che necessitano, credo, di un’attenzione filosofica. Oggi la realtà sociale testimonia innegabilmente questa trasformazione del corpo nella direzione della costituzione di grandi ‘corporazioni’, fondate sull’ ascoltare, vedere e fare in comune (ma questa è un’idea che ritroviamo anche nella Repubblica platonica), un fare che, mentre esalta l’individuo e la sua unicità, lo sopprime del tutto come soggetto critico e autonomo. Si pensi alla diffusa estensione pensante (nel vero senso di una res cogitans che si fa extensa) che domina la partecipazione umana ai nuovi spazi dello scambio culturale; si pensi a ciò che identifica oggi maggiormente il nobile e rivoluzionario termine ‘comune’, e cioè la rete, con le sue communities, quella società dell’omologazione del Si, dove si dice e si fa ciò che conviene dire e fare (nel senso del Si heideggeriano). E’ un sapere cui siamo tutti, chi più, chi meno, assoggettati: il che significa, in via di divenire nuovi soggetti, nuovi uomini portatori di un nuovo sapere e insieme soggiogati da nuovi meccanismi di potere (Foucault ci ricorda che potere e sapere sono sempre collegati). Non vi è da lottare polemicamente contro questo stato di cose; se mai, c’è da seguirlo con attenzione, descriverlo, comprenderne la genealogia e la natura.

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

Ho sempre pensato, proprio in base alle mie letture foucaultiane, ma potrei aggiungere gli studi di Baudrillard, e oggi soprattutto di Sloterdijk, che la tecnologia non possa essere neutrale. Ma per la ragione che dicevo prima: perché è connaturata all’uomo, non disumana. Forse, come voleva Nietzsche, stiamo andando verso un oltreuomo, che avrà certo tratti diversi dall’uomo vagheggiato dall’umanismo rinascimentale.

Se cerchiamo di capire qual è il tipo di sapere in cui oggi siamo immersi vediamo che si tratta di un sapere frammentario ma enciclopedicamente esteso, impersonale e insieme singolarissimo, in cui le ‘facce’ sono iscritte in primo piano (face-book), ma sono anche totalmente indifferenti, e si presentano sempre tutte-assieme, con gli amici, nelle nuove ‘communities’ che via via si formano.

L’Ipad, l’Iphone, oggetti simbolici per antonomasia di questo nuovo millennio, hanno già interamente sotterrato, in realtà, il pronome personale I (Io), per farlo diventare il qualunque senza nome della nostra società priva di appartenenze specifiche. Ancor più del comune, regna il connesso, il continuo, il congiunto, l’immensa costellazione umana, costituita da vari ammassi stellari, che si uniscono e si sciolgono a seconda dei bisogni. Vista con il telescopio questa comunità formicola come un gruppo di formiche taglia-foglie, vista a occhio nudo – molarmente – appare come un’unità pluriversa, ma coerente, che avanza come un unico corpo. Ma in tal modo la nuova comunità ‘connessa’ degli uomini che si sta formando incarna un fenomeno che si può ben definire super-umano, o super-organico, cioè, come voleva Nietzsche, oltre-umano (un fenomeno, per altro, già benissimo identificato dalla mitologia, come ha notato Marino Niola, con il centauro Nesso, che era considerato più che un uomo, e meno che un animale). E’ così che si invera e assume fisionomia un’altra umanità.

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Credo che l’effetto più macroscopico cui assisteremo sarà proprio lo sfaldarsi della coscienza, dell’interiorità, del senso di privatezza dei sentimenti, dei pensieri custoditi nel foro interno. D’altronde, di nuovo, la cosa non mi scandalizza né mi fa disperare. Se si leggono i versi immortali di Omero (anche di questo parlo nel mio libro In comune) si nota che la parola ‘psiche’ ha pochissime occorrenze, la parola Ego, Io, è frutto probabilmente di interpolazioni successive e ogni fenomeno ‘interiore’, come noi lo intendiamo, è descritto attraverso i termini della pulsionalità fisiologica e corporea: Omero parla di thymos, il respiro, di cuore, di polmoni, di precordi, quando vuole riferirsi al vibrare di un’emozione o all’accendersi di un pensiero.

Che uomo era quello di Omero? Non certo un’unità statica costituita da psiche e soma, ma una molteplicità rizomatica, risonante e insieme dissonante, composta da fremiti, intensità, vibrazioni, accensioni corporee e psichiche insieme.

Che uomo sarà l’”oltreuomo” che diventeremo, alla fine della fine dei tempi? Non so dirlo, certamente sarà qualcosa di molto diverso dall’armonioso e centratissimo uomo vitruviano, o dal pensoso uomo cartesiano. D’altronde, noi ci pensiamo e siamo molto diversi dall’uomo omerico, pur essendo figli di quella tradizione. Non c’è da coltivare né paure, né spasmodiche o apocalittiche attese.

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?

Mi situo sul piano della sua ultima affermazione. In questo sono spinoziana: non irridere, non piangere, non disprezzare, non adirarsi….

Come filosofi, questo in fondo ci è richiesto: aprire una via alla comprensione, e quindi alla trasformazione di noi stessi, senza giudicare. Non essere soggetti a ciò che accade, così come esso ciecamente accade, ma risoggettivarci tentando di divenire soggetti delle pratiche che frequentiamo. Direi che in questo la lezione dell’ultimo Foucault, che per altro ha poco riflettuto sul piano della tecnologia, è fondamentale. Guardate alle pratiche, egli diceva, cercate di delinearne i contenuti, i dispositivi in atto, le prese che producono sui soggetti. La libertà si configura sempre come libertà da qualcosa, e là dove c’è potere, cioè ovunque, c’è sempre possibilità di libertà.

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

La penso come Lei, e ripeto quel che dicevo prima, rimandando alle celebri analisi di Foucault. Le tecnologie non sono meri strumenti che l’uomo utilizza dominandole e orientandole come desidera. Le tecniche sono dispositivi di potere che configurano il nostro modo di essere al mondo e dunque la nostra soggettività. Che, situando determinati oggetti e la loro configurazione strumentale, dispongono anche noi stessi che li usiamo come soggetti di un certo genere. Agamben scrive che pure il telefono cellulare è un dispositivo, come l’istituzione carceraria. Si tratta di un dispositivo di potere che incatena e insieme produce costantemente, perfezionandone i tratti, un certo uomo con un certo corpo e una certa mente.

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?

I dispositivi di controllo oggi sono pervasivi. Ma siamo sicuri che in passato ci fossero maggiori spazi di autonomia o libertà individuale?

Il problema è stato sempre schivare la presa del potere: sia che il potere fosse carnale e repressivo, sia che fosse permissivo e anzi produttivo di godimento. Oggi il potere ci permette di fare moltissime cose (apparentemente): ci seduce, ci conduce al piacere (al consumo, al divertimento, all’uso pervasivo dei dispositivi digitali che fanno tutto, che ci permettono di sentirci quasi onnipotenti, che non ci fanno sentire mai soli). Si tratta di una forma molto più pericolosa di potere, che incide sulla vita, che produce vita e godimento e non più morte e terrore. Ma non è così meno paurosa. Siamo drogati e ebbri del piacere che offrono le nuove tecnologie, che infatti danno dipendenza.

 

In un'epoca di false-verità, facilitate dalla struttura di potere della fase attuale del capitalismo e dai media ma soprattutto dalla connettività di Internet (luogo di grandi opportunità ma anche discarica di molta spazzatura -Data Trash) e dalla pervasività dei dispositivi tecnologici, quale ruolo può giocare la filosofia? Se, come ha scritto nel suo libro, la filosofia serve a selezionare, separare e a prendere la distanza, in che modo potrebbe essere praticata per far emergere il vero nella sua rilevanza? Cosa possono fare i filosofi per rompere l'assuefazione alle non-verità e a evidenziare le conseguenze della complicità con chi le produce?

Io credo che non si possa distinguere tra verità vere e verità false (o costruite ad arte). La verità è pubblica, diceva Peirce, cioè è in cammino e non è la corrispondenza al dato, lì fuori. La verità non può mai essere di uno solo, non è mai ‘idiosincratica’ – ecco, questa se mai è una verità falsa - ma è pubblica, appartiene al pensiero della comunità nel suo svolgersi. Si distingue il vero, perché esso è ciò che produce effetti di rilievo, nelle pratiche diffuse. Vero è ciò che diventa vero, all’interno di pratiche condivise.

Per fare solo un esempio (lo traggo sempre da un testo di Foucault, L’ordine del discorso), Mendel diceva “il vero”, ma non era “nel vero”, perché – nota Foucault – prima di poter essere considerata vera o falsa, una disciplina, con gli oggetti che essa pone, deve rientrare nelle possibilità del vero, della verid-azione, deve rientrare cioè nella forma di vita propria del tempo cui appartiene, col suo corredo di metodi, strumenti, dispositivi atti a produrre sapere. Mendel con i suoi caratteri ereditari si situava fuori dal circolo ermeneutico delle interpretazioni predisposte dalla propria epoca per comprendere l’evoluzione biologica.

Non si tratta dunque di cercare la corrispondenza al vero delle proposizioni che diciamo, ma di costruire degli ordini di discorso che pubblicamente possano essere recepiti come veridici, che si identifichino con il pensiero della comunità di chi fa ricerca. Oggi il creazionismo non ha verità, nel senso pubblico che dicevo, mentre l’evoluzionismo lo possiede. Ma sappiamo bene che anche l’evoluzionismo potrà essere modificato, col progredire delle ricerche, come sono state modificate molte teorie scientifiche. Il vero si fa vero, non è la scoperta di un dato di fatto. E dire “Così stanno le cose” per un filosofo è insensato, perché le cose non ‘stanno’, ma si producono in contesti di verità e in pratiche costitutive del vero, appunto.

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo/guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?

Direi che stiamo perdendo il governo su noi stessi, l’enkrateia, nei termini greci, la padronanza, ma chissà, forse ne guadagniamo capacità relazionale e di scambio.

Non credo che si debba essere nostalgici di una forma d’uomo che sta evidentemente disparendo. L’essere-nel-mondo può prendere svariate forme. Non si tratta di insistere testardamente nel tenersi stretta quella a cui siamo abituati, ma di sperimentare nuove modalità di ‘territorializzazione’, come scriveva Deleuze, nuove forme pubbliche di verità, come dicevo prima.

 

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?

Sì, credo che delle tecniche per esercitarsi a mantenere il controllo su di sé siano opportune.

Il problema dei nuovi dispositivi è la dipendenza. Cosa ci spinge a non togliere gli occhi dallo schermo dello smartphone, a cercare continuamente un segno, una notizia, a non poter stare senza connessione? Probabilmente si tratta della ricerca dello stimolo di piacere che proviene dal sentirsi cercati, appellati, connessi. Non è di per sé un ‘male’, ma lo diviene se la sua assenza produce sofferenza. Bisogna cercare di guadagnare enkrateia, come dicevo prima, liberarsi dalla cattura, come da ogni altra cattura, fare di quel potere un potere che in qualche modo può essere da noi governato, trarre forza dalla sua forza.

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Suggerirei la lettura del mio testo che ricordavo prima, In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario (Mimesis Edizioni, 2012), e poi l’opera di Sloterdijk, da Non siamo ancora stati salvati a Devi cambiare la tua vita (Cortina Editore).

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Penso che iniziative come la vostra, che uniscono riflessioni di natura sociologica e culturale, in senso vasto, all’attenzione per temi filosofici siano encomiabili.

La filosofia ha per altro sempre avuto un’anima pop, diciamo così. Ha sempre amato più le piazze (oggi virtuali) che le accademie, più l’agorà dello studiolo privato. Socrate camminava nei vicoli della sua Atene, tra i suoi concittadini, interrogandoli, dialogando con loro e traendone spunti per la sua filosofia.

Intervenire all’interno di spazi pubblici come il vostro ha per me lo stesso significato.

Grazie.

 

* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Islanda)

** La fotografia della testata e della coda dell'articolo è un'opera di dell'artista francese Gaby Kretz

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