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Va riequilibrato il rapporto tra la nostra vita e la pressione tecnologica (Carlo Infante)

Va riequilibrato il rapporto tra la nostra vita e la pressione tecnologica (Carlo Infante)

05 Ottobre 2017 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
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Il grande frullatore dei social, con facebook in testa a tutti, la pervasività di Google, l’opacità di sistemi d’interaction design come l’Internet delle Cose e, nel prossimo futuro, l’espansione di grandi reti di transazioni post-monetarie come Blockchain, stanno delineando un futuro digitale in cui si rischia di erodere il nostro spazio vitale e senziente. E’ proprio per questo che dobbiamo innalzare il nostro livello di coscienza e proattività proprio sul campo del pensiero-azione nell’uso dei sistemi digitali, cercando di tradurre la tecnologie in linguaggi funzionali alla nostra evoluzione culturale.

Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero? .

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.


 

In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto con Carlo Infante

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo? Lei è il creatore di Urban Experience, un progetto che propone la progettazione culturale attraverso pratiche creative di performing media con l'obiettivo di reinventare gli spazi pubblici tra territorio e web. Urban Experience è anche una associazione di promozione sociale e un protagonista delle nuove culture digitali. Ci può raccontare il suo/vostro progetto, le sue declinazioni in termini di iniziative e sociali e in che modo si inserisce nella cultura digitale italiana suggerendo di tenere i piedi per terra e legati alla realtà della realtà e nel tempo stesso la testa nel cloud e nelle tecnologie mediali oggi disponibili?

Come hai ben colto Urban Experience è un ambito di progettazione culturale per giocare le città attraverso le pratiche creative del performing media: una condizione abilitante perché la creatività sociale delle reti possa reinventare spazio pubblico tra web e territorio.

Gli ambiti su cui opera vanno dall’urbanistica partecipativa all’educazione ambientale, dal turismo esperienziale alla gestione creativa dei conflitti, dalla cittadinanza educativa per l’“apprendimento dappertutto” e la resilienza urbana alla nuova spettacolarità interattiva e mobile degli happening crossmediali.

Il cardine della questione è in quel “viviamo” che poni nella domanda: la tecnologia, la “techne” va intesa come una nostra estensione, una protesi cognitiva, proprio come è stato l’avvento dell’alfabeto 3 millenni fa. Dobbiamo trovare oggi la misura di relazione con l’evoluzione scandita dalle tecnologie digitali. Già Sherry Turkle nel suo saggio “Life on the Screen” (1995) affrontò la problematicità antropologica dell’impatto con i sistemi digitali della simulazione (erano anni in cui si trattava più del virtuale che del web).

Nel 1994, al Salone del Libro di Torino, curai un convegno dal titolo “Navigare nei testi”, insieme a Luciano Gallino. Fu uno dei primi momenti in Italia in cui si affrontò il nodo cognitivo relativo le nuove forme di apprendimento in relazione alle modalità ipertestuali. Eravamo agli albori del web. E’ lungo questo percorso, segnato dal convegno sul Futuro Digitale, nel 1996, che per due decenni mi sono interrogato sulle forme del cambiamento scandito dall’evoluzione delle culture digitali.

Oggi, all’interno di una accelerazione che rischia di far perdere il senso stesso dell’innovazione, mi sto ponendo il problema di come riequilibrare la pressione tecnologica con la nostra vita, per ripristinare quel senso naturale delle cose che stiamo perdendo.

E’ per questo che con Urban Experience mi sono rimesso in cammino, conversando, esplorando, “con i piedi per terra e la testa nel cloud”.

Conversare può significare "girare insieme" ( dal latino "versum", girare, trovarsi, e "cum": insieme) ed è questo che facciamo da tempo con i walkabout che si rivelano sempre di più un ottimo modo per apprendere dappertutto, raccogliendo indizi dai paesaggi sia urbani sia rurali, condividendolo nella trasmissione radiofonica nomade.

L'avevamo capito bene già nel 1977 con le passeggiate psicogeografiche degli indiani metropolitani anche se è nel 1988, a Narni, con Silvio Panini della Koinè che con l'uso di una radio FM "pirata" produciamo il primo atto di performing media combinato con un'esplorazione, quella di un castello medievale da far diventare una "rocca cablata".

Il dato cruciale è nel fatto che i walkabout si rivelano come palestre di resilienza urbana, in un'evoluzione delle pratiche di cittadinanza attiva grazie a quel mix di empatia e creatività che li connota.

Il walkabout è un format di performing media in cui conversazioni peripatetiche si combinano con trasmissioni radiofoniche nomadi e instant blogging via twitter, per un’esplorazione partecipata.

Una suggestione di fondo è in quella parola inglese che rimanda al viaggio rituale che gli australiani aborigeni intraprendono attraversando a piedi le distese dell’outback, le aree interne più remote che si estendono in quelle semi-desertiche del bush.

Urban Experience gioca con questa definizione, rilanciando così le esplorazioni urbane che coniugano cose semplici come passeggiate e conversazioni con le complessità inedite del Performing Media-storytelling in cui la narrazione partecipata è inscritta nell’azione “aumentata” dall’uso dei media radio e web.

Queste conversazioni nomadi caratterizzate dall’ausilio di smartphone e cuffie collegate ad una radioricevente (whisper radio) permettono di ascoltare le voci dei walking-talking heads e repertori audio predisposti, in un flusso radiofonico che viene, spesso, trasmesso in streaming via webradio e georeferenziato.

 

Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?

E’ già emerso nella riposta precedente: va riequilibrato il rapporto tra la nostra vita e la pressione tecnologica che si esprime più che altro per acquiescenza e automatismi psichici.

Il grande frullatore dei social, con facebook in testa a tutti, la pervasività di Google, l’opacità di sistemi d’interaction design come l’Internet delle Cose e, nel prossimo futuro, l’espansione di grandi reti di transazioni post-monetarie come Blockchain, stanno delineando un futuro digitale in cui si rischia di erodere il nostro spazio vitale e senziente.

E’ proprio per questo che dobbiamo innalzare il nostro livello di coscienza e proattività proprio sul campo del pensiero-azione nell’uso dei sistemi digitali, cercando di tradurre la tecnologie in linguaggi funzionali alla nostra evoluzione culturale.

In questi anni, in Italia in particolare, è mancata un’attenzione istituzionale sulle culture digitali, a partire dal sistema universitario che ha registrato un gravissimo ritardo nel contemplare questa radicale trasformazione.

Si è lasciato il campo libero al mercato, giochicchiando con start-up che hanno cavalcato l’onda dei makers con stampanti 3D e quello delle App per il mobile, intercettando solo qualche spinta fatua d’innovazione senza entrare nel merito della questione cruciale: come armonizzare l’evoluzione dei nostri sistemi sociali e culturali con quella delle tecnologie. S’è delegato a tecnici e business-men senza progettare una riconfigurazione dei nostri assetti, a partire da quelli cognitivi afferenti alla formazione delle nuove generazioni.

"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457)."

Lo scrittore William Gibson, alfiere della corrente letteraria del cyberpunk, lo aveva detto (e lo abbiamo rilanciato più volte in questi ultimi decenni): “Il futuro è già qui, è solo mal distribuito”. Non è stata diffusa la conoscenza di ciò che stava per accadere.

Già nei primi anni Novanta parlai del “nuovo paradigma del virtuale” e per il GARR (l’infrastruttura di rete per la ricerca) curai in tal senso degli interventi.

Non ci scoraggiamo di certo, va mantenuto il ritmo evolutivo del pensiero critico e resiliente.

Le tracce le abbiamo lasciate e vanno trovate lungo il percorso di una ricerca creativa che in tutti questi anni ha sperimentato i modi per fare delle tecnologie dei linguaggi capaci interpretare il cambiamento. Vedi il lemma Treccani sulle culture digitali.

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Al di là delle mirabili prospettive dell’intelligenza artificiale e della robotica credo che qualsiasi domanda sul futuro debba basarsi sul buon senso, quello connesso a ciò che definisco il senso naturale delle cose.

Sia chiaro: sono un sostenitore dei cambiamenti, da sempre. Dopotutto uno dei mestieri che svolgo è quello del “changemaker”, ovvero quello teso a dinamizzare processi di co-progettazione sociale e culturale per interpretare l’innovazione come condizione abilitante per le azioni di rigenerazione urbana, le nuove forme di aprrendimento e le diverse espressioni di creatività rivolte a sperimentazioni di nuova socialità, a partire dalla scambio intergerenerazionale.

Uno dei modi migliori per vivere il cambiamento che auspico (oggi più che mai, non se ne può più di questa situazione bloccata) credo proprio debba essere cercato nell’equilibrio che intercorre tra la nostra evoluzione culturale e l’avanzamento tecnologico. È un dato che esiste da sempre, sempre con tecnologie diverse.

Con la diffusione delle reti si sta adesso realizzando quel salto evolutivo paragonabile all’avvento dell’alfabeto prima e a quello della stampa a caratteri mobili, poi: l’affermazione di un medium, la rete, capace di potenziare al miglior grado la cooperazione umana. È qui il punto. Dall’alba dei tempi l’uomo cerca di organizzarsi per vivere meglio e rispondere a domande sempre più complesse di mondo, a partire da: “mangerò o sarò mangiato?”.

Per entrambe le domande la risposta è stata trovata nell’intelligenza, la mobilità e la forza espressa dal gruppo.

Non m’interessa riflettere, ora, su come si siano avvicendate le tante soluzioni organizzative nell’evoluzione umana, ma porre interrogativi progressivi che sondino la potenzialità relazionale dei nuovi media interattivi.

Il gioco è qui, nell’interrelazione tra teorie e pratiche in primo luogo, in una creatività tesa a sondare il rapporto tra realtà e rappresentazione, misurandosi con le nuove opportunità di vita in quel bricolage antropologico che rimette in forma le regole della convivenza. In questa convergenza tra politica e poetica delle reti è possibile individuare il moto dello sviluppo che m’interessa: quello basato sul valore d’uso di una comunicazione capace di fare sistemi complessi, fare mondo.

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

Metto in campo un altro assioma, lo lancio con un interrogativo che suona come una sfida antropologica.

Ogni 18 mesi i computer raddoppiano le loro possibilità. E noi? Quei 18 mesi derivano dalla cosiddetta “legge di Moore” che non è una legge, e tanto meno un principio scientifico. L’affermazione di Gordon Moore (che risale al 1964) era ragionevole: “la velocità dei processori raddoppia ogni 18 mesi”.

Ma alle parole di Moore si sono attribuiti significati diversi . Più che una legge sono per considerarla come una sorta di una leggenda che comunque c’invita a riflettere su come l’avanzamento tecnologico possa creare una doppia velocità: quella di chi la subisce, rimanendo annichilito dalla veemenza di un’offerta di tecnologie che non sa come utilizzare, e quella di chi può interpretarla, traducendola in valore d’uso.  Il fatto che vengano immessi sul mercato computer sempre più evoluti tende regolarmente ad essere assorbito dalla tendenza ad inventare funzioni, spesso inutili, per innescare una corsa alla futile richiesta di continui aggiornamenti di software, cui il sistema Windows (il sistema operativo di una Microsoft emblema della globalizzazione al massimo grado) ci sta abituando, e da cui sarà necessario emanciparsi.

È vero, l’evoluzione digitale può produrre processori sempre più veloci a costi relativamente più bassi, ma questo può comportare un’entropia, una perdita del valore delle cose e della loro percezione. L’idea di dover rincorrere hardware e software sempre più avanzati solo perché esistono sul mercato nuovi prodotti con una potenza superiore è una logica da cui è opportuno sganciarsi, per potere quantomeno riequilibrare le cose. Ciò comporta un’evoluzione dei comportamenti umani e sociali, nonché economici.

Lo sviluppo del software libero, come quello basato sulle piattaforme Linux, ad esempio, fa intravedere una via di sviluppo importante, ed è molto meno di nicchia di quello che si pensi.

Morale della favola? La velocità dell’avanzamento tecnologico va affrontata con una consapevolezza che armonizzi i reali valori d’uso, insieme alla capacità creativa d’inventare soluzioni che il sistema-mercato non prevede. Basti pensare a come si è sviluppato nel mondo, creando sia mercato che società creativa, il software libero. Un successo determinato dalle comunità d’interesse nella Rete, nonostante la Microsoft con i suoi ostinati tentativi di condizionare il Governo statunitense a considerare il fenomeno GPL (Global Public Licence, entro cui è rilasciato Linux in quanto sistema libero da licenze) come qualcosa che avrebbe distrutto l’industria del software. E invece è tutt’altro: pensa solo a quanto la diffusione gratuita di Netscape abbia contribuito alla diffusione di Internet negli anni Novanta. C’è bisogno della massima diffusione del software perché è il linguaggio matrice attraverso cui costruire qualcosa: oggetti e ambienti di nuova potenzialità.

Perché  tutto questo possa essere compreso fino in fondo, bisogna focalizzare le caratteristiche proprie dei nuovi media, aspetto che oggi sembra per alcuno scontato e per tanti altri inedito. Per farlo sono sufficienti tre parole; anche se potranno sembrare scontate per alcuni, credo siano utili comunque per individuare con determinazione, e sintesi, i principi base del nuovo paradigma cognitivo determinato dall’avvento del digitale. Eccole: interattività, ipermedialità, connettività.

L’interattività riguarda principalmente il corpo in azione nell’ambiente digitale attraverso l’uso di interfacce. L’interfaccia è ciò che ci permette di svolgere quelle azioni: è sia lo strumento per intervenire in questo ambiente con estensioni fisiche (le cosiddette “periferiche”, come il mouse), sia la soglia da attraversare per entrare in relazione percettiva e cognitiva con lo schermo del computer o di uno smart-phone.

Questa ultima è l’interfaccia grafica, che può essere individuata in tante forme di cui due sostanziali: simbolica (quando è composta principalmente da parole e icone da decodificare nelle loro funzioni ) e immersiva (quando ricrea un ambiente, possibilmente tridimensionale, in cui si è invitati ad “entrare”).

Altra parola chiave è ipermedialità, intesa come articolazione dell’ipertesto con più media, quella che sottende le forme non lineari del linguaggio e che sostiene il principio associativo sul quale si basa la nostra memoria. Costruire artefatti cognitivi è il compito di chi esercita il linguaggio utilizzando le diverse tecnologie a disposizione, dal libro al cinema e ora al web e la sua superfetazione, i Big Data.

Nell’ambito informatico, con i software ipermediali, il linguaggio trova finalmente la sua forma più espansa, simile alla complessità psichica della mente sollecitata continuamente da libere associazioni e rimandi analogici, secondo l’azione combinatoria dei link e integrando la dimensione alfabetica con quella audiovisiva. In questo senso, l’ipermedia si apre alla mutazione delle sensibilità che, in un futuro sempre più digitale, riscopriranno il valore originario della comunicazione totale e sinestesica.

La sinestesia, intesa infatti come compresenza di più linguaggi e di conseguenza di più approcci percettivi, libera le potenzialità del discorso, lo apre alla dinamicità dello sguardo e del senso.

Altra, fondamentale, parola chiave è connettività, il valore che determina la condivisione nell’interrelazione comunicativa.

Il principio basilare su cui si sviluppa la nostra intelligenza è quello, interno, della connettività neuronale attraverso le sinapsi del nostro cervello.

Il fatto che la Rete  possa essere concepita come un isomorfismo della mente ci sostiene nella considerazione di un’emergente intelligenza connettiva.

Rispetto a questa complessità di comunicazione diventa decisivo capire bene quale sarà il processo evolutivo del cittadino-utente-consumatore in grado di emanciparsi, conquistando la funzione attiva del prosumer (producer-consumer), il produttore-consumatore d’informazione.

Un termine coniato da Alvin Toffler (in La Terza Ondata, Sperling e Kupfer 1980), anche se già qualche anno prima McLuhan aveva centrato l’obiettivo.

Quel neologismo viene anche speso per la contrazione professional-consumer che acquista altra valenza, meno interessante in questo contesto. Le peculiarità del prosumer le troviamo nel momento in cui, compilando alcune form (le schede predefinite nel web) si ottengono gratuitamente servizi.

Cosa si dà in cambio? Pezzi di privacy, note personali e descrizioni dei propri interessi che rivelano il proprio profilo di consumatore.

Questo circuito di input e output d’informazioni è destinato ad evolversi nei Big Data e a concepire, sotto il segno della convergenza dei media, dei progetti editoriali sempre più aperti e basati su strategie di fidelizzazione: la disponibilità a far parte di una community e a far proprie delle procedure, fidandosi.

È di una negoziazione delle proprie informazioni che si tratta, corretta solo se si basa su un principio di trasparenza e consapevolezza, altrimenti sarebbe un abuso della fiducia, un valore da considerare come “ricchezza informazionale”, come la definisce Castells.

Su questi aspetti dell’interazione tra cittadini e sistemi informativi pubblici c’è ancora molto da fare e i sistemi d’allerta sugli automatismi dei cookies va in quella direzione.

Nonostante vent’anni e più d’infervorati dibattiti i nodi ora sembrano giungere, finalmente, al pettine.

Urge una straordinaria autonomia degli utenti, finalmente autori a tutti gli effetti dello scambio sociale on line.

A far parte di quelle informazioni siamo noi stessi con il nostro feedback.

È in questo interagire degli elettroni del computer con quelli della nostra mente, che si gioca tutta la qualità della questione: la nostra evoluzione è direttamente proporzionale a quella delle tecnologie. Da sempre, da quando siamo passati dal crudo al cotto, grazie al fuoco.

È una condizione che è appropriato definire psicotecnologica, come suggerì più di quindici anni fa Derrick de Kerckhove in questo passaggio tratto da L’architettura dell’intelligenza (Testo&Immagine, 2001):

Quando navigo in Rete, la dimensione tattile del cliccare e penetrare strati e strati di informazioni è molto simile al processo multisensoriale del pensare. Accarezzo le immagini sullo schermo così come accarezzo i pensieri nella mia mente, passando da uno all’altro, concentrandomi qui, cancellando là. I link funzionano come associazioni e sono infatti associazioni, sia in senso puramente tecnico, e anche come risultato di uno strumento di associazione web- assisted in senso psico-tecnologico, dal momento che le associazioni mentali sostenute da ciò che appare sullo schermo ispirano i collegamenti che scelgo di seguire”.

I software, le simulazioni, la scrittura connettiva sono artefatti che espandono la nuova creatività umana in relazione con le tecnologie digitali, come per secoli hanno fatto la pittura o la musica utilizzando altre tecnologie.

Una buona parola d’ordine può quindi essere: “Esplorare la mente, accendere la percezione, ordire strutture di elettroni” come ci suggerisce Timothy Leary, profeta della Beat Generation e il più abile di quella generazione a comprendere le potenzialità del virtuale.

E io rilancerei, sotto il segno dei Greci: “conosci te stesso” e poni domande al mondo.

Nel futuro digitale lo “spazio antropologico”, come lo definisce Pierre Levy, viene costantemente de-territorializzato da queste nostre domande che corrispondono, di fatto, all’insorgere di un nuovo nomadismo culturale.

La definizione stessa di antropologia viene così a mutare in un mondo in cui l’uomo non può più candidarsi come centro del mondo, perché al centro del mondo c’è il mondo stesso, nella complessità del suo ecosistema basato su informazioni, biologiche, sociali e digitali, e non solo astratte interpretazioni.

 

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Rilancerei un concetto su cui sto operando, un ambito ideale per mettere a misura proprio il valore della condivisione, mettendosi in gioco, con “i piedi per terra e la testa nel cloud”. Un modo per stabilire quell’equilibrio tra il senso naturale delle cose e le dinamiche dell’innovazione digitale che ha senso solo se è direttamente proporzionale alle nostre domande di mondo. E’ cio che definisco il performing media storytelling.

C’è una frase di Tolstoj che può ben definire il principio attivo che sta a monte dei processi del performing media storytelling: “Se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero”. È netta, precisa ed evocativa. Fa capire quanto sia importante essere consapevoli della propria identità e allo stesso tempo cercare di misurarci con il mondo tutto, senza rimanere prigionieri nella propria memoria, per liberare un’energia d’innovazione culturale decisamente glocal.

La differenza dallo storytelling di cui tanto ormai si parla è nell’ibridazione narrazione-azione, facendo  direttamente “parlare” i territori, creando le condizioni abilitanti, ludiche e partecipative, per mettersi in sintonia con il genius loci mentre lo si esplora o lo si assaggia (vedi i cibi parlanti), operando su format di performing media (vedi il lemma Treccani) che vanno oltre il dato di rilevazione delle storie per bensì rivelarle nelle geografie che si abitano, sia stabilmente sia in via temporanea.

È questo uno dei temi caldi per quella ricerca d’innovazione territoriale che attraverso i format di performing media  trova il suo fulcro nei walkabout, le “conversazioni nomadi” che grazie ai sistemi whisper-radio permettono di sollecitare un confronto “connettivo” mentre si passeggia, in un flusso peripatetico espanso in una diffusione radiofonica partecipativa (diffusa, spesso, in streaming su web-radio) in giro per le città e i territori. Sciamando per strade e sentieri si cerca la sintonia giusta con le piccole storie delle comunità, in un rapporto fisico, performativo e connettivo, attivando una partecipazione senziente, ludica e sodale: resiliente.

 

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Si, più oralità (magari ascoltando qualche traccia vocale, connessa agli interventi scritti).

* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Vietnam, Cile)

 

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