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Il digitale e la cultura della differenza

Il digitale e la cultura della differenza

18 Settembre 2017 Tecnologia e religione
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La polemica che ha coinvolto l'ingegnere James Damore, autore di un documento sessista (Googles Ideological Echo Chamber) al cui interno, tra le tante cose, si può leggere che le differenze genetiche rendono le donne meno adatte a ruoli di responsabilità nell’industria del tech, ha riaperto la discussione sulle pari opportunità, sulla pari dignità e sulla necessità della cultura della differenza. Siamo differenti ma paritetici. Il digitale, liberando dalla pesantezza del fisico, sembra eliminare la difficoltà: non ti vedo, non posso pensarti differente da quello che sei. Questa operazione, però, è una reductio ad unum che annulla le specificità personali grazie all'identica proiezione digitale: diecimila like nascondono le sfumature di pensiero in un unico "sono d'accordo" e centomila followers non rilevano quanti veramente ricevono le nostre notifiche accumunando il fan con l'occasionale. Come può il digitale a creare una cultura della differenza?

Dopo secoli di organizzazione sociale e del lavoro su base sessista, confidiamo nel digitale affinché acceleri il processo di riconoscimento delle pari dignità ed opportunità.

Il digitale, infatti, disgrega nelle sue relazioni il corpo degli interlocutori avvolgendoli in un'aurea di uguaglianza umana. Le diversità si assottigliano, i contorni si sfumano e rimane la persona per quello che è. Sembrerebbe la risposta definitiva al problema ma non tutti ne sono convinti.

 

La cavalleria un retaggio sessista?

Un nodo di tensione delle forze sessiste è individuabile nella cavalleria, l'insieme di gentilezza e premura che gli uomini riservano alle donne.

Il termine stesso indica l'origine. L'ideale cavalleresco esalta la nobiltà d'animo, ritenuta superiore a quella esteriore e di nascita. I valori cavallereschi si aggiungono alle virtù civili e la donna dipinta nell'amor cortese diventa l'emblema della nuova idealità. Ci si è lamentati spesso della scomparsa di questi valori eppure molti ne hanno festeggiato la scomparsa celebrandola come il segno della fine delle ineguaglianze.

La cavalleria, è l'accusa, si basa sul presupposto della superiorità maschile. La donna è un fragile bene da proteggere a causa della sua natura gentile, spesso intesa come incapacità di comprendere problematiche complesse, e della costituzione minuta, che la rende indifesa e bisognosa di salvezza.

Entrare per primi in un ristorante è un retaggio di quando le locande erano luoghi malfamati ed era necessario controllare l'interno prima di introdurvi una donna, si cede il passo perché le porte erano pesanti da manovrare, si apre lo sportello perché scendere dalle carrozze era scomodo e complesso con i vestiti di allora.

Tutte queste necessità si sono perse e dovremmo chiederci perché le conserviamo ancora.

 

Sessismo come convenzione sociale

Una ricerca degli anni '90 a cura di Eagly, Mladinic e Otto evidenziava come la donna fosse ancora percepita più positiva a causa del women are wonderful effect, quella sorta di angelicamento materno contraltare alla durezza maschile.

In presenza di un'aperta discriminazione sessista è facile riconoscere un atteggiamento deprecabile e odioso, definibile come sessismo ostile. Al contrario, tutti gli atteggiamenti positivi di protezione, idealizzazione ed affezione rivolti alla donna in quanto donna, in quanto portatrice di valori positivi, nascondono un sessismo benevolo perché confina e limita la donna, per il solo fenomeno di "accadimento di essere donna", in un ruolo sociale che, se accettato, è ricompensato con privilegi sociali come la cavalleria.

Nel 2001 uno studio di Glick e Fiske rilevava l'inclinazione di chi fa sessismo benevolo a scadere nel sessismo ostile verso le donne che rifiutavano il loro ruolo sociale.

Il sessismo di questi comportamenti è così radicato nelle convenzioni sociali che gli uomini e le donne ne sono ugualmente vittime.

Al primo appuntamento chi paga la cena? Probabilmente lui si sentirà in obbligo e lei ne nutrirà l'aspettativa. Se succedesse il contrario? Fareste pagare alla donna? Che cosa pensereste di un uomo che non paga?

 

Il digitale è sessista?

La pari opportunità è un cammino difficile e complesso. Più di tutto è contradditorio. Un evento, un atteggiamento può essere sessista o meno a seconda dell'ottica da cui lo guardiamo.

All'International Women's Day 2016 Accenture, multinazionale di consulenza direzionale e di tecnologia, presentò la ricerca Getting to Equal: How Digital is Helping Close to Gender Gap of Work dove si evidenziavano come le competenze digitali aiutassero le donne a ridurre il divario di genere nel mondo del lavoro, tanto che si sarebbero potuto dimezzare i tempi di arrivo alla piena parità.

Al contrario, l'ITU, agenzia Onu specializzata nell'IT, nel presentare l'ICT Fact and Figure 2016 manifestava preoccupazione per il divario di presenza in internet fra uomini e donne (circa 250 milioni a svantaggio delle donne) aggravato dal gap nell'acceso alla Rete cresciuto dell'11% che raggiungeva il 31% se conteggiati i paesi non sviluppati. Insomma sempre meno donne nel digitale e sempre più sotto il controllo maschile.

A peggiorare la situazione 1,7 miliardi di donne non hanno il cellulare e solo una percentuale di minoranza ricopre ruoli dirigenziali o manageriali nell'ICT.

Il digitale non è così liberale come pensiamo.

 

Il digitale riconosce le pari opportunità e dignità?

Questo è uno dei pochi campi dove il digitale svolge un ruolo negativo.

La parità non significa uguaglianza, mortificatrice delle specificità maschili e femminili, ma cultura della differenza. La differenza, a sua volta, si evidenzia solo in una comunità di differenti, dove i diversi modi di essere e pensare, di credere e dubitare si incontrano e si armonizzano in un riconoscimento reciproco in nome di un «bene comune», tipicamente la convivenza civile, la società.

Qui si evidenziano tutti i limiti del digitale: non sa riconoscere un uomo da una donna, anzi una persona morta da una viva, peggio una persona da un fantasma.

Eduardo Martins era un falso fotografo pagato dall'ONU, Miquela Sousa una modella che non si sa se esista davvero, il ristorante Oscar, nella cittadina di Brixham, campione di recensioni su TripAdvisor era inventato, l'account di mia madre su Facebook è ancora attivo ed usato anche se lei non c'è più e Anubis7 o PennePazze 10 (due nickname presi dal sito Quag) non si capisce se siano uomini o donne.

Se il digitale non sa riconoscere la materialità fisica di una persona come possiamo, attraverso la mediazione dello stesso mezzo, riconoscerne le specificità ed attuare le convenzioni sociali? Tutto rimane confuso in un amalgama vischiosa che uniforma a denominatore comune, normalmente il livello più basso raggiungibile da tutti. Un livello così basso che la maggioranza non si riconosce nelle convenzioni sociali predette rivendicando, piuttosto, l'uso di toni beceri del bullismo o degli insulti mediatici.

Il digitale, come insegna Eli Pariser ne Il filtro, rinchiude in una bolla di interessi nascondendo l'altro e le differenze in un processo di isolamento. La società umana, anche nel digitale, non sfocia automaticamente verso la comunione delle persone. Le miriadi di community, gruppo, forum e blog mono-tematici settorizzano gli interessi delle persone, dividono l'uomo dall'uomo, fanno sentire l'altro un avversario, altro appunto.

Esiste un modo digitale di essere differenti e paritetici?

 

Privare la differenza del giudizio di valore

Anche la cultura della differenza ha in sé elementi di contraddizione.

La differenza porta inscritto un giudizio di valore: solo localizzandosi su un metro si può rilevare una diversità ma, scoprendosi in luoghi diversi, si sperimenta uno scarto, un deficit valoriale.

La differenza rimanda alla diversità e finché assegneremo un giudizio di valore all'altro non faremo mai un salto di livello e nessun problema può essere risolto allo stesso livello di coscienza che l'ha creato.

Il digitale non toglie il giudizio di valore ma elimina artificiosamente la differenza. L'inganno risiede nell'ipotizzare l'esistenza di uno spazio digitale coeso intorno a valori identitari condivisi. La scoperta del pluralismo spinge alla difesa della propria identità in una specie di lotta di sopravvivenza e tanto più si avverte il pericolo tanto più si usa la violenza verbale, l'unica possibile nel digitale, per la propria difesa.

Il livello di coscienza cui si dovrebbe aspirare deve avere una capacità di inclusione nello stesso spazio valoriale, eliminando così il deficit all'origine del giudizio. Può essere, a mio avviso, la scoperta di comune origine, una discendenza in cui riconoscersi. Per i cristiani è l'essere figli di Dio, figli di un solo Padre e quindi fratelli, differenti ma paritetici. Questo è un valore irriducibile al digitale. Qualcuno può pensare a Darwin, ma in questo caso sarebbe una evoluzione anziché una discendenza cioè un processo reticolare di miglioramento che ammette differenze e che alimenta l'inganno digitale.

Quale altro valore possiamo indicare per costruire una cultura della differenza anche nel digitale?

Finché non saremo in gradi di accettare che l'altro usi nei nostri riguardi delle gentilezze perché animato dalla sola bontà d'animo, non faremo mai un passo in avanti dal mito del Principe Azzurro: un soldato corrazzato che giustificava le sue battaglie con qualche opera di bene.

 

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