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L’abbandono come tradimento. Abbandonare con gentilezza

L’abbandono come tradimento. Abbandonare con gentilezza

17 Novembre 2018 Anna Maria Palma
Anna Maria Palma
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Qualche tempo fa correva nel mondo virtuale una storiellina sui “discepoli”
“In verità vi dico, uno di voi mi tradirà”
Tommaso risponde: “Sono forse io, Signore?”
Pietro: “Sono forse io, Signore”
Marco: “Sono forse io, Signore?”
.....
A un certo punto appare la scritta fatidica che molti di noi conoscono: “Giuda ha abbandonato il gruppo”
Le parole hanno un senso. Quelle nel mondo virtuale più o meno lo stesso. Anzi negli automatismi previsti dagli strumenti tecnologici, creano contusioni emozionali di un certo rilievo.
Arriva una notifica che dice: “Mario Rossi ha lasciato un messaggio per te nella conversazione di gruppo”. Corri a leggerlo. E trovi scritto
“Mario Rossi ha abbandonato il gruppo”.

Aspettativa tradita. Senso reale di tradimento. L’abbandono come tradimento. Ogni gruppo, ogni conversazione in chat, vale anche per ogni persona che li compone. Chi lascia, chi va via, lascia un vuoto. Ma già queste espressioni sono morbide. Chi “abbandona”, ferisce!, Esprime minimo un non interesse per il gruppo, quasi un atteggiamento di esclusione, ai limiti di un disprezzo, di una noia, di una seccatura.

Cosa significa tutto questo? Che siamo forse obbligati a rimanere in un gruppo? No sicuramente.

La questione ha un’origine.

Prima di tutto prima di costituirlo un gruppo, occorrerebbe interpellare singolarmente le persone e chiedere loro se desiderano far parte del gruppo. Poi sicuramente dovrebbero seguire delle regole del tipo:

  • Decidiamo i contenuti di questa chat. Non tutto si può dire o condividere in questo spazio
  • Evitiamo i buongiorno e le buone notti sistematiche, quasi compulsive, magari non le diamo neanche alle persone con cui viviamo o con cui lavoriamo
  • Evitiamo di inoltrare vignette o messaggi in genere, ma se lo facciamo, è un rischio farlo senza pensare, magari ignorando che la stessa vignetta o lo stesso video è appena stata messa da un altro partecipante al gruppo che non si sentirà preso in considerazione
  • Rispondere sempre considerando il precedente messaggio
  • Soprattutto quando il messaggio precedente ha un contenuto di una certa serietà, non far seguire un qualcosa di ilare, una facezia

Ed eccoci a quanto abbiamo trattato, ecco la formula magica, se quanto sopra non è stato seguito, se veramente siamo stati “catapultati” in un gruppo e dopo un po’ ci sentiamo scomodi per il ricorrere di qualunque condizione elencata sopra, la gentilezza potrebbe consistere nel mandare un messaggio al gruppo preannunciando “l’abbandono”, esplicitando che per un qualunque “garbato” motivo, o per qualunque motivo detto garbatamente, preferiamo uscire dal gruppo. Dopo di che la dizione “Mario Rossi ha abbandonato il gruppo” non farà più tanto effetto, avrà solo il senso della frase di default.

CONSIGLIATO PER TE:

La gentilezza vera

Questo è il rischio delle espressioni di default negli scambi digitali. Anche il “mi piace” come segnale di “sono d’accordo”, sotto una notizia dolorosa, o una notizia che denuncia qualche abuso o scorrettezza a qualunque livello, diventa scomodo, a me provoca un certo disagio. Lo stesso che sento quando rispetto ad un film che parla di argomenti dolorosi o impegnativi, mi si chiede “ti è piaciuto”.

Capisco benissimo il senso, ma non riesco a dire sì. Cerco espressioni alternative per rispondere. “Molto interessante, ho trovato che esprime egregiamente il senso..., ho trovato significativo il modo con cui esprime il senso...,ho trovato una regia di qualità, una interpretazione significativamente espressiva...” Non so, ma le parole vanno pensate, quelle gentili soprattutto.

Oppure, come ha scritto Alda Merini, stare attenti a scegliere con cura le parole da non dire.

 

Perché il senso autentico della gentilezza è porre l’attenzione non solo su quegli aspetti che si manifestano esternamente, come il saluto, il sorriso, il cedere il passo, o le parole che scriviamo, le espressioni che usiamo, i simboli di cui ci serviamo, ma avere sempre nella mente, nella mente del cuore, nel cervello della pancia il legame sottile, ma forte, della connessione che esiste fra gli esseri umani. E in questa connessione sentire quanto possiamo ferire un altro essere riservandogli piccoli, grandi maltrattamenti di tanti tipi a tanti livelli.

E’ un piccolo maltrattamento quello che avvertiamo quando leggiamo nel gruppo, magari creato da noi stessi (ma vogliamo pensare ad un noi che ha considerato tutte le buone regole e quindi lo consideriamo preservato da questa sorta di disagio): “Mario Rossi ha abbandonato il gruppo”?

Allora mi rivolgo alle persone inserite “forzatamente” in un gruppo WhatsApp, o comunque a quelle a cui non è stata rivolta una richiesta preventiva è a voi che indirizzo una richiesta gentile. Prima di abbandonare, fate precedere anche una frase semplicissima “Mi scuso, ma devo abbandonare il gruppo”, se non volete aggiungere qualche altra motivazione che faccia prendere anche coscienza agli altri appartenenti al gruppo, come per fortuna mi è capitato di leggere ultimamente. “Scusate, ma non trovo funzionale il modo di condividere questa chat, per cui preferisco uscire dal gruppo”. O qualcosa di simile. Diventa forse, per i più attenti, quelli che almeno leggono, una sorta di stimolo a riflettere a farsi qualche domanda e forse ad evolvere.

Potrebbe allora nascere il pensiero “ma allora è possibile fare qualcosa, si può interagire anche con frasi e simboli di default, si può continuare a pensare con la propria testa e considerare sempre che dietro quel cursore lampeggiante in chat che sta scrivendo c’è una persona come noi che merita tutta la nostra attenzione. E allora è possibile respirare, leggere, presidiare la conversazione, magari sorridere e poi rispondere”.

Con Carlo Mazzucchelli ci siamo occupati di “La gentilezza che cambia le relazioni digitali” perché è sempre più evidente il disagio che molti accusano procurato da risposte disattente, veloci, automatiche, in qualche maniera inconsapevoli...

E allora parafrasando un po’ l’aforisma di Ralph Waldo Emerson “Le buone maniere richiedono tempo, e nulla è più volgare della fretta” vorrei dire che “Le buone relazioni richiedono cura e nulla è più volgare della fretta”.

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