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Il Vincolo €sterno

Il Vincolo €sterno

20 Luglio 2015 Antonio Fiorella
Antonio Fiorella
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“L’euro non è una moneta, ma un metodo di governo”. Il frame rispecchia il “gold standard”*: di “aureo” conserva la carica abbagliante della ricchezza convogliata nei forzieri di quei pochi, sempre di meno, che più contano. Il progressivo accumulo, a detrimento della maggioranza, non promette nulla di buono se non la prospettiva della rivolta, esplosiva, di coloro che alla fine non hanno nient’altro da perdere. Sembra un retaggio antico, come una maledizione che si perpetua. Invece era un disegno preordinato alla soppressione delle conquiste sociali e di riallineamento alle regole della corrente egemone.

“Che la flessibilità del cambio fosse un elemento necessario per un ordinato processo di integrazione europea era chiaro già a James Meade nel 1957 (insignito del Nobel vent’anni dopo) […] e a chi progettò il sistema monetario post bellico nella conferenza di Bretton Woods,” sostiene Alberto Bagnai nel suo libro L’Italia può farcela.

Come l’autore aveva già ampiamente dimostrato nel libro precedente “Il tramonto dell’euro” (qui trovate una sintesi), avvalorato dal protrarsi dei fatti, da errate premesse si è giunti alla fallimentare gestione corredata da rigidità di bilancio, e da politiche e posizioni contrapposte.

Difendere la moneta unica, l’euro, contro qualsiasi logica equivale a deprimere ancora di più l’economia europea. La politica mercantilistica di matrice tedesca sta distruggendo l’Europa. Ne sfalda la coesione. La patologia in cui è immersa l’eurozona è curabile ristabilendo la flessibilità dei cambi tra le valute nazionali. Sono dello stesso avviso un nutrito manipolo di economisti, tra cui i premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz. 

Tra il 1929 e il 1934 l’Italia registrò una perdita di Pil di circa il 5%. Dal 2007 al 2013 la perdita è stata del 9%, quasi il doppio. Il che si profila come la recessione più grave mai sperimentata prima dal nostro paese.

I mali endemici che ci vengono additati e i correttivi somministrati (le cosiddette riforme) non affrontano il problema alla radice. E comunque veicolano il solito messaggio che “ci meritiamo quanto sta accadendo”.

D’accordo sul fatto che la corruzione vada combattuta; in tutte le sue pratiche è una malapianta da estirpare; vero che queste deprimono il corretto funzionamento del mercato. Ma i fenomeni di corruttela non spiegano l’origine della crisi. E soprattutto non portano alla soluzione.

Intanto è da rigettare ogni atteggiamento autolesionista: nel calderone degli scandali ci sono tutti i paesi. E un po’ dappertutto si scopre il medesimo andazzo. Ecco alcuni numeri recenti, corposi e ben evidenziati, già nei titoli e sottotitoli dei media.

2015: Scandalo Libor, le banche pagheranno 5,6 mld di dollari. Gli istituti coinvolti sono Citi, Jp Morgan, Barclays, Royal Bank of Scotland, BofA e Ubs. L'accusa è di aver manipolato a proprio vantaggio le oscillazione del tasso di cambio. Deutsche Bank, multa da 2,5 miliardi per lo scandalo Libor.

2008: La Siemens, Germania, patteggia una multa di 2,5 mld di euro (temendo di pagarne 5 di miliardi), dichiarandosi colpevole di corruzione per accaparrarsi concessioni nel settore delle telecomunicazioni e dell’energia. La corruzione è così diffusa che un sito giornalistico tiene aggiornato il “mappamondo degli scandali Siemmens” (ProPublica, 2014). https://www.propublica.org/

Marco Cobianchi (2014), su Panorama, ha riportato le stime di Friedrich Schneider: il malaffare in Germania raggiungerebbe i 250 mld, superiore al giro del malaffare italiano che secondo alcune fonti equivarrebbe al 12% del Pil (190 miliardi). Considerato che a dirlo è un tedesco, c’è da confidare nell’accuratezza teutonica della ricerca.

La distorsione della percezione, che vede l’Italia come il paese più corrotto d’Europa, può essere spiegata da motivi storici, sociologici, e persino diventare oggetto di studio. Ma come sorvolare l’aspetto strutturale, che in Germania, (così pure in Francia, per citare due paesi nel cuore del Vecchio Continente) la magistratura è dipendente dall’esecutivo? E secondo Marco Cobianchi esistono forti indizi che inchieste particolarmente “dannose” per l’interesse nazionale siano state insabbiate.

Insomma il problema della corruzione può essere “visto” sotto mille sfaccettature, ivi compreso quello di trovarselo ingentilito nei termini, ridefinito lobbying, e istituzionalizzato. Leggere in proposito le rassegne di Baranes (2010, 2014) sul potere di lobbying che le grandi aziende e i grandi gruppi finanziari esercitano nei pressi di Bruxelles: 1700 addetti per un fatturato di 120 miliardi.

Un fiume di denaro destinato a “orientare” le scelte di politica economica! Dalla loggia massonica Grande Oriente d'Italia siamo passati a dimensioni continentali.

Pertanto la domanda chiave diventa piuttosto: quanto è connaturale l’atteggiamento autodenigratorio degli italiani, e quanto invece viene “provocato ad arte da élite disposte a tutto pur di consolidare il proprio potere”?

Perché siamo più o meno gli unici in Europa a non aver ancora nazionalizzato alcuna banca (MPS a parte, quella più vicina ai “padri nobili” dell’eurismo)?

A fronte degli 80 miliardi che inizialmente sarebbero stati sufficienti a salvare la Grecia, ne sono stati erogati 4285 mld , tra il 2008 e il 2010, per sostenere gli istituti di credito del Nord, con UK e Germania in testa. (Cerretelli, 2011)

La Banca d’Italia (2014) quantifica in 60 miliardi i soldi pubblici elargiti dal nostro governo per il salvataggio di altri paesi dell’eurozona. Gli Stati del Sud si sono indebitati per salvare le banche del Nord attraverso i fondi “salvastati”. Finanziare, ad esempio, lo Stato spagnolo, finalizzato a salvare le sue banche, significa permettere a queste ultime di restituire dei soldi alle banche creditrici del Nord. Come a dire: “l’IMU è andata in Germania, passando per la Spagna”.

Secondo l’economista Giuseppe Travaglini (2009), Univ. Di Urbino, il basso costo del lavoro avrebbe agito da disincentivo per le imprese ad accrescere l’efficienza, rendendo profittevoli attività a basso valore aggiunto. “La moderazione salariale, quindi, oltre a deprimere le retribuzioni e i consumi, favorendo l’indebitamento, ha depresso l’investimento di qualità […] e la crescita della ricchezza nazionale”.

Ma notate cosa ci viene detto papale papale, incastonato come un diamante di verità nella lingua elisabettiana, da Kevin Featherstone (2001) della London School of Economics. “The Political Dynamics of the Vincolo Esterno: the emergency of Emu and the challenge to the European Social Model”. Questo il titolo dell’articolo. E quanto segue, in sintesi, il suo contenuto: “La ricomparsa dell’Uem nell’agenda politica europea alla fine degli anni  ’80, a seguito del modello di deregolamentazione proposto dal Mercato unico europeo, ha destato la diffusa preoccupazione che l’ Uem potesse servire da cavallo di Troia per orientare la politica in senso neoliberale all’interno degli Stati nazionali dell’Ue”. L’analisi dell’economista inglese smaschera la fonte dell’ideologia autoritaria e perdente del vincolo esterno, che ha origine nel nostro paese. Significativo il fatto che venga denominato in italiano in un articolo che riguarda l’intero continente.

D’altronde la testimonianza di Kevin Featherstone, nel racconto, si spinge oltre. Nel caso dell’Italia “un piccolo gruppo di tecnocrati distribuiti fra Tesoro, Banca  d’Italia, presidenza del Consiglio […] orientò il proprio mandato di negoziatore nel senso di accettare un paradigma che avrebbe rafforzato i poteri dei funzionari della banca centrale […] I perdenti di questo processo dovevano essere i leader della partitocrazia”. Eccoci serviti da una classe politica che sentendosi inadeguata ad affrontare i problemi, non ha trovato di meglio che delegare il governo dell’economia ad istituzioni malferme, poco coese, e ancor meno solidali.

“L’Unione instaura un mercato interno,” recita l’art. 3, terzo comma, del Trattato dell’Unione europea. “Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale”. Peccato che le cifre della disoccupazione, nei paesi periferici, dimostrino il contrario.

L’Europa sta per andare in pezzi per mancanza di un accordo sulla politica monetaria, paventa Paul Krugman. Il pericolo è che diventi “giapponese”, cioè che “scivoli inesorabilmente nella deflazione”.

Prodi, al Financial Times, 5/12/2001: “Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica […] E’ politicamente impossibile proporli oggi. Ma un giorno ci sarà una crisi e questi nuovi strumenti saranno creati”. (Barber e Norman, 2001) E quale pungolo più persuasivo può esserci di quello subìto in stato di necessità?

I cantautori del refrain “più Europa”, per superare una crisi divenuta cronica a causa una gestione maldestra oltre che prevista, dovrebbero essere perseguiti per dolo.

A ben osservare l’andamento dei salari per rapporto alla produttività, durante l’intero arco dell’ultimo secolo, si scopre la vera essenza del capitalismo, nonché l’origine delle sue crisi più profonde. Nel periodo 1919-29 i salari reali crebbero in media del 2% l’anno, mentre la produttività fu superiore di tre punti. Il decennio si concluse con il crollo di Wall Street e la ormai storica grande depressione.

Dal 1971 al 2008, la crescita della produttività ha superato l’andamento dei salari di tre punti. Ancora una volta la depressione, in seguito alla bancarotta della Lehman Brothers, si è caratterizzata per dimensione e virulenza, fuori dall’ordinario.

Perché, (domanda retorica di Bagnai), quando si è più produttivi si finisce, invariabilmente, con una crisi? Perché, (risposta), “una produzione di massa richiede necessariamente un consumo di massa”. Il singolo lavoratore produce sempre di più, ma riceve sempre lo stesso potere d’acquisto, e la domanda deve essere finanziata attraverso l’indebitamento. Col tempo però la situazione debitoria si rivela non più sostenibile.

I media mainstream danno della finanza pubblica una “rappresentazione caricaturale […]: la spesa pubblica in deficit è comunque reddito privato”.

Lo storico americano Daniel Boorstin, negli anni ’60, dopo aver analizzato la relazione tra società, media e tecnologia, concluse lapidario: “Non è un’esagerazione dire che lo stile di vita americano è stato comprato a rate”.

Studio del 2004 della Federal Reserve Bank of Boston sulla General Motors: l’approccio fordista, secondo cui i propri operai sono anche clienti, fu sostituito da quello secondo il quale, se li paghi meno, diventano anche tuoi debitori. E ci guadagni il doppio.

“E’ la tragedia dell’avidità e dell’idiozia, che in termini più asettici potremmo definire fallimento del mercato […] Le uniche, vere, riforme, le sole che possono metterci in sicurezza, sono quelle che ci consentono di passare da un’economia guidata dal debito a un’economia guidata dai salari”.

A cominciare dagli anni ‘80 il capitalismo, progressivamente, ha trasformato il lavoratore dipendente da cliente in debitore, e poi lo Stato, da “finanziatore della cui generosità approfittare in capro espiatorio e ostacolo da rimuovere per evolvere verso il Far West del libberismo senza regole”.

Nel 1985 Augusto Graziani (prof di Scienze economiche, Univ. La Sapienza) così scriveva: “Si parla molto del disavanzo nel settore pubblico… Si osserva che con un’offerta di titoli pubblici a tassi d’interesse così vantaggiosi, le imprese industriali si sarebbero trovate nell’impossibilità di competere […] Sarà anche vero, ma è irrilevante, perché con l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario”.

Da più di 30 anni le retribuzioni si sono mantenute al di sotto dell’effettivo contributo alla crescita del paese. In un primo periodo la domanda aggregata è stata finanziata prevalentemente con debito pubblico; successivamente il debito privato ha preso il sopravvento. Finché l’ammontare dei debiti è diventato insostenibile.

Per un paese sovrano le modalità per uscirne sono essenzialmente: rifiutare di pagare (default), intraprendere la strada dell’iperinflazione, incentivare la crescita, o un mix delle tre soluzioni.

Il Piano Marsall non fu una scelta altruistica; rispondeva all’esigenza di rimettere in piedi le economie dei paesi europei, creando le premesse per lo sbocco della produzione degli Stati Uniti.

Keynes a Bretton Woods, per prevenire guerre commerciali e squilibri persistenti, proponeva di articolare il sistema di pagamenti internazionali in base a un “meccanismo automatico di dissuasione dall’accumulo” (Bancor). Il Bancor sarebbe stato gestito da una banca mondiale; avrebbe funzionato da camera di compensazione degli scambi; avrebbe contabilizzato le posizioni di debito e credito dei singoli paesi. Dettaglio tutt’altro che trascurabile: i paesi avrebbero pagato un tasso di interesse anche sulle proprie posizioni creditorie.

Ebbe la meglio la potenza vincitrice, gli Stati Uniti, e la sua moneta il dollaro. Ma l’alternativa c’era già; era rappresentata dal riallineamento del cambio, come preconizzava il laburista Meade (1957). L’aggiustamento del cambio di fatto corregge gli squilibri commerciali, perché “se i beni di un paese sono molto domandati, lo è altrettanto la sua valuta, che quindi si apprezza all’istante deprimendo le esportazioni del paese in surplus”.

Laddove invece non s’interviene sul cambio, occorre adeguarsi al sistema sociale imposto dal paese dominante.

“Il presupposto logico di ogni sogno è il sonno: nel caso del sogno europeo è stato il sonno della ragione”. Liberato da vincoli esterni, rivelatisi fallimentari, il nostro paese potrà risorgere, ammonisce e sprona l’autore.

Sempre che si riesca ad eludere il disegno hayekiano che, svuotato gli Stati nazionali dei poteri monetari e fiscali, e privati i cittadini del loro terreno naturale di confronto (con la classe politica nazionale), ridurrebbe l’ambito delle lotte alle sole libertà civili.

AF

 


L’Italia può farcela, Albert Bagnai, Il Saggiatore

 

* “A grand political project increasingly resembles the interwar gold standard: a mechanism for increasing social suffering and hobbling the economy.” (Yanis Varoufakis)

 


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