La narrazione corrente
I professori sono in larga maggioranza contrari, chi non lo è (Paolo Ferri) suggerisce di guardare pragmaticamente ai miliardi che verranno investiti in innovazione tecnologica e formazione degli insegnanti, confrontandoli con quelli cancellati dalla riforma Gelmini. A pochissimi sembra interessare quello che dovrebbe essere il tema centrale, il bisogno di ripensare la formazione nell’era digitale e tecnologica e in un contesto socio-economico che premia la speculazione e la finanza e vede crescere la precarietà del lavoro e l’asservimento della persona alle macchine, al prodotto e al consumo. Chi a questo tema è interessato non ha la forza per portarlo al centro del dibattito ma non trova neppure interlocutori capaci di comprendere le loro ragioni.
La stampa e i media si dilettano a rappresentare il dibattito sulla scuola come lo scontro tra governo e sindacati, tra riformisti e conservatori, tra decisionisti e professionisti burocratizzati che puntano all’autoconservazione. Fanno notizia le centinaia di migliaia di insegnanti in piazza così come le dichiarazioni di politici che sanno poco di formazione ma molto di comunicazione e cinguettii. Poco spazio ottengono anche le riflessioni di studiosi, intellettuali e esperti di formazione che, richiamando tutti a riflettere criticamente e più approfonditamente sul tema, finiscono per essere etichettati tra le varie categorie che i media hanno creato per rendere più semplici le loro narrazioni.
Chi deve ripensare la formazione?
Se il tema è come ripensare la formazione c’è da chiedersi chi lo debba fare e come. Una prima risposta è che l’argomento non è di pertinenza soltanto della scuola o del governo. Tutti devono sentirsi coinvolti in prima persona perché ripensare la formazione significa cambiare il modo con cui si produce nuove conoscenza nelle scuole, nelle aziende e nel tempo libero. Significa ragionare sul ruolo che la formazione ha per il ragazzo, per l’insegnante, per il dirigente e l’operaio così come per il cittadino. Significa ragionare su cosa sia possibile fare per superare l’ignoranza, per acquisire le conoscenze che servono per affrontare un mondo diventato globale, complesso, tecnologico e digitale. Significa preoccuparsi del ruolo che la formazione ha socialmente nella costruzione di nuova conoscenza, nella alfabetizzazione, nella costruzione di cittadini del mondo, nel predisporre strumenti utili alla sperimentazione, all’espressione del dubbio e alla elaborazione di pensiero critico.
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-Tutta la riflessione sulla formazione così come quella contenuta nella legge Labuonascuola non può prescindere dalla rivoluzione tecnologica che dall’avvento del personal computer ha cambiato il modo con cui leggiamo e scriviamo, cataloghiamo e archiviamo, comunichiamo e interagiamo, studiamo e apprendiamo. Lo schermo del PC così come quello dello smartphone e del tablet è diventato lo specchio nel quale tutti ci riflettiamo e lo strumento principe per l’accesso alla informazione e per la produzione di nuova conoscenza.
Grazie alle nuove tecnologie, soprattutto a quelle digitali, di Internet e del Web, il viaggio verso la conoscenza è profondamente mutato. Cambiano le esperienze, le didattiche, i modi di apprendere e i modelli formativi. Non sono cambiamenti dettati da leggi o cinguettii e neppure dalle scelte di presidi più o meno potenti o insegnanti più o meno conservatori o riformisti. Il cambiamento è determinato da un accesso diffuso a maggiore informazione e conoscenza, dall’uso di dispositivi mobili in aula con cui i ragazzi possono sfruttare l’enciclopedia universale del Web per andare oltre le quattro mura dell’aula, verificare la validità di quanto viene narrato dall’insegnante e usare i nuovi strumenti tecnologici per fare ciò che è alla base di ogni vera formazione personale, cercare risposte a domande emergenti che urgono e premono per una risposta.
Può darsi che la nuova legge in gestazione possa contribuire al gap creatosi nella scuola italiana in termini di investimenti in tecnologia e innovazione. Nel frattempo il BYOD (Bring Your Own Device) che ha caratterizzato la rivoluzione Mobile in azienda, ha interessato anche le scuole. La maggioranza dei ragazzi, nativi digitali e mobili, è dotato di un dispositivo tecnologico che usa in classe come strumento di evasione e di gioco ma anche di apprendimento attraverso l’esperienza concreta fatta di navigazione digitale, ricerca di informazioni, osservazione riflessiva e curiosa e di conoscenza.
Fare i conti con il cambiamento
Chi fosse oggi veramente interessato alla scuola e al suo ruolo formativo dei futuri cittadini e delle future classi dirigenti, dovrebbe fare i conti con quanto è cambiato l’apprendimento e con il ruolo assunto dalla formazione informale e auto-diretta o prodotta, anche attraverso i nuovi strumenti tecnologici. Dopo l’avvento delle nuove tecnologie nessun passo indietro è oggi possibile così come non lo è nessun passo in avanti che non tenga conto delle trasformazioni profonde causate da Internet, dal Web, dai social newtork e dai dispositivi mobili.
Il fatto che se ne parli poco o ancora troppo poco è un problema generazionale. Gli insegnati fanno parte in maggioranza della categoria degli immigrati digitali. In loro compagnia ci sono molte delle persone tecniche o politiche che sono impegnate nella nuova legge sulla scuola. La loro età anagrafica e esperienza professionale impedisce loro di comprendere appieno i cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie. Ne sono spaventati e proprio per questo più propensi a dare risposte conservatrici alla grande richiesta di cambiamento epocale che arriva dalla scuola e dai suoi nuovi cittadini digitali che la frequentano. Invece di impegnarsi ad andare in profondità interrogandosi sulle trasformazioni in atto e sui loro effetti sulla didattica e l’apprendimento ci si ferma superficialmente a esprimere giudizi sulle differenze tra un libro digitale e uno cartaceo, sulla validità della conoscenza contenuta da Wikipedia e sul vuoto relazione e psicologico che caratterizza il social network.
Invece di muoversi su un terreno tradizionale e obsoleto di scontro politico, governo, sindacati e insegnanti dovrebbero unire i loro sforzi per porre l’innovazione tecnologica nella scuola al centro del loro dibattere e scontrarsi. Al centro del dibattito dovrebbe essere posto non tanto il ruolo dell’insegnante ma il modo con cui studenti e insegnanti dovrebbero sperimentare, nell’era digitale e tecnologica, l’accesso alla miriade di informazioni disponibili e il loro utilizzo a scopi cognitivi e di conoscenza. Più che i contenuti della conoscenza, ciò che dovrebbe essere dibattuto è la visione della formazione del futuro e quali approcci usare per facilitare l’adozione di nuovi comportamenti formativi, pedagogici, didattici e di apprendimento. Il web, che ci ha trasformato tutti in esploratori, ci riporta all’esperienza primigenia dell’essere umano composta da mille piste sperimentabili, non tutte perseguibili, sulle quali si è formata la conoscenza, la memoria e la pratica umana.
Non una ma mille...le piste percorribili!
Le piste che si possono percorrere oggi sono più di mille, tutte reali anche se vissute virtualmente in Rete (la rete è diventata per molti ragazzi la vera realtà). Non serve definire programmi e piani di studio rigidi e predefiniti, è inutile prevedere l’intervento gerarchico di un preside superdotato e nelle condizioni di riempire i buchi di organico. Ciò che conta di più è la capacità del sistema a essere flessibile, ad adattarsi alle diversità e alle novità, ad introiettare le trasformazioni tecnologiche e l’indisciplina che da esse può nascere. Grazie alle nuove tecnologie, i ragazzi hanno la possibilità di sperimentare nuove esperienze non previste dal preside e neppure dalla nuova legge sulla scuola. Possono sperimentare nuovi modi di leggere, di scrivere, di memorizzare, di visualizzare, di comunicare, di apprendere in modo collaborativo, di vivere la scuola. Una scuola che perde le sue mura fisiche e i suoi confini territoriali per allargarsi virtualmente alle altre scuole e al mondo e in grado di offrire una esperienza formativa diversa perché innovativa, tecnologica e più corrispondente ai bisogni dei ragazzi e della società digitale nei quali saranno chiamati a esprimere la loro conoscenza, maturità e professionalità.
Quanto di tutto questo faccia parte oggi della nuova legge in discussione è difficile dirlo. Lo è anche a partire dalle informazioni disponibili in Rete e sui media. E’ come se la formazione sia tema troppo noioso e da eletti per essere affrontata in profondità e con conoscenze adeguate. Molte righe utilizzate per citare i vari cinguettii che testimoniano con loro brevità la superficialità del dibattito in corso, potrebbero essere usate per parlare delle necessità di fare formazione come strumento per la costruzione di nuova conoscenza in un’epoca nella quale la conoscenza si è fatta reticolare e dinamica, mai consolidata ma sempre frutto della curiosità o volontà di scoprire e percorrere nuovi sentieri e sperimentare nuovi viaggi.
La nuova legge: alcune considerazioni finali
Uno dei problemi sollevati dagli insegnanti è la caratteristica classista della nuova legge e la sua carica distruttiva di prassi consolidate che facevano della scuola italiana una buona scuola, perché pubblica, interclassista e di qualità. Forse è però più importante riflettere sui cambiamenti anche sociali indotti dalla tecnologia e da un’economia capitalistico-finanziaria che su di essa ha fondato il successo attuale. Nel nuovo contesto la scuola ha perso il suo peso specifico. Ci si forma in classe ma anche sul Web e nelle molte ‘smart mobs’ e comunità online che nascono dall’uso sociale dello smartphone. Si apprende attraverso un insegnante ma anche grazie alla propria auto-formazione e alla condivisione-collaborazione con amici e compagni di scuola. Si acquisiscono nuovi stili di vita e si adottano nuovi comportamenti non perché suggeriti da un insegnante ma perché capaci di trasformare i propri bisogni in azioni e le proprie visioni in progetti e realizzazioni. Si instaurano nuove relazioni tra studenti e insegnanti che vanno ben oltre l’insegnamento frontale o collaborativo per dare forma a nuove modalità di acquisizione delle conoscenze, a nuovi ruoli nel processo formativo e a nuovi modi di fare formazione.
In una realtà molto tecnologica e digitale, nella quale la formazione non può più essere quella di prima, il ruolo dell’insegnante, e tantomeno quello del preside, non è più definibile in modo burocratico per legge.
L’insegnante sarà obbligato a imporre la sua autorevolezza sul campo, giorno dopo giorno, e riuscirà a farlo tanto più e tanto meglio quanto maggiore sarà la sua capacità nel comprendere i cambiamenti in atto e la sua disponibilità a mettere in discussione in continuazione il suo ruolo.
Il preside la sua autorevolezza non la troverà nel gesto gerarchico o autoritario ma nella capacità di comprendere le istanze di insegnanti che stanno sperimentando la rivoluzione tecnologica in atto in tutte le sua ricadute sulla formazione e i bisogni di ragazzi digitali non più legati alla scuola per la loro formazione personale. Insegnanti e presidi dovranno fare i conti con la mobilità tipica della nuova era tecnologica e con i nuovi bisogni legati alla necessità pragmatica di tradurre conoscenza in progetti e azioni, all’esistenza di conoscenze e saperi diversi, all’urgenza di continuare a formarsi nell’intero arco della vita e alla capacità di sfruttare al meglio tutte le nuove tecnologie che arriveranno.
La nuova legge potrà permettere di ammodernare aule scolastiche e riparare i tetti delle scuole, potrà semplificare i processi decisionali e assumere i precari ma se non riuscirà a facilitare l’emergere di una riflessione diffusa capace di cambiare la formazione scolastica attuale e di dotarla degli strumenti necessari per farlo, sarà un’altra delle tante leggi italiane sulla scuola capaci di scatenare una miriade di conflitti e scontri ideologici ma incapaci di trasformare realmente la scuola e di preparare la rinascita della scuola italiana in modo da permettere ai ragazzi di oggi di affrontare e dare forma al loro futuro.
CM