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COME LA LOGICA CONFUTA LO SCETTICISMO: LA CONSEQUENTIA MIRABILIS

COME LA LOGICA CONFUTA LO SCETTICISMO: LA CONSEQUENTIA MIRABILIS

22 Marzo 2021 Biblioteca Filosofica Firenze
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Lo scetticismo svolge un ruolo determinante nello sviluppo della filosofia, perché pone in modo chiaro gli interrogativi che sono alla base del problema filosofico della conoscenza (o gnoseologia), e perché lancia una sfida. Infatti i filosofi, confrontandosi con i dubbi scettici, si trovano di fronte a un bivio: o ammettere che non esiste la certezza, o confutare le obiezioni scettiche.

di Andrea Sani 

Lo scetticismo è la posizione di chi sostiene che non possiamo conoscere nulla con certezza, e che c’è sempre qualche motivo per dubitare anche delle nostre credenze fondamentali sul mondo. In effetti, i sensi qualche volta ci ingannano, e quando lo fanno noi non ce ne accorgiamo. Proprio per questo, gli scettici concludono che essi potrebbero ingannarci sempre. Al dubbio non si sottraggono neppure le argomentazioni della ragione. Non ci accade spesso, anche nei ragionamenti, di commettere qualche errore senza avvedercene? Ne consegue che nessun giudizio è certo in maniera definitiva.

Lo scetticismo svolge un ruolo determinante nello sviluppo della filosofia, perché pone in modo chiaro gli interrogativi che sono alla base del problema filosofico della conoscenza (o gnoseologia), e perché lancia una sfida. Infatti i filosofi, confrontandosi con i dubbi scettici, si trovano di fronte a un bivio: o ammettere che non esiste la certezza, o confutare le obiezioni scettiche. Ci sono davvero conoscenze che si sottraggono al dubbio? Il problema gnoseologico per eccellenza è proprio questo e con esso si sono cimentati grandi filosofi, da Agostino d’Ippona a Cartesio.

 

 

 

In realtà, uno scetticismo radicale che nega l’esistenza della verità può essere confutato sul piano logico, e cioè in base a considerazioni puramente formali. La legge logica che mette fuori gioco la teoria scettica è evidenziata da Agostino nella sua prima opera filosofica, Contro gli Accademici (III, 11, 25). Il suo ragionamento contro la posizione degli scettici sarà poi ripreso nel Medioevo da Tommaso d’Aquino e da Bonaventura da Bagnoregio e verrà sintetizzato nella seguente formula in lingua latina: 

Si veritas non est, verum est veritatem non esse; ergo, si veritas non est, veritas est. 

Il che vuol dire: 

Se [secondo quanto dicono gli scettici] non esiste la verità, allora è vero almeno questo: che la verità non esiste; dunque, se non c’è la verità, c’è già una verità! 

Questa formula è un esempio di una celebre regola della logica classica, la cosiddetta “consequentia mirabilis” (“conseguenza ammirevole”), che permette di affermare la validità di una proposizione dal fatto che essa si deduce dalla propria negazione. Tale regola si può esprimere nel seguente modo: 

1. Se non A, allora A

2. Dunque A 

In sostanza, la formula di matrice agostiniana citata sopra esemplifica la consequentia mirabilis, perché afferma: “Ammettiamo che non esista la verità” (cioè ammettiamo non A). Ma questa affermazione implica che essa stessa sia una verità (ossia implica l’ammettere A). Quindi la verità esiste (cioè vale A).

La consequentia mirabilis è un ragionamento simile al principio della reductio ad absurdum, e cioè al ragionamento per assurdo, usato da Zenone di Elea nel celebre paradosso di Achille e la tartaruga contro l’esistenza del movimento, e dai Pitagorici nella dimostrazione dell’incommensurabilità della diagonale con il lato del quadrato. Il ragionamento per assurdo si esprime nel seguente modo: 

1. Se A, allora B

2. Se A, allora non B

3. Dunque non A 

Se una proposizione A implica una contraddizione, cioè se implica B e implica anche non B, allora tale proposizione A è confutata, e quindi vale la proposizione opposta non A. La consequentia mirabilis è simile a questo ragionamento; tuttavia, non deduce la confutazione di una premessa, come nel caso della reductio ad absurdum, ma afferma che se una proposizione A segue dalla sua negazione non A, allora essa è vera.

Si tratta di un ragionamento strano, simile a un trucco di magia, perché consente di dimostrare una proposizione senza riferirsi a nient’altro che a se stessa. Stando alla testimonianza di Sesto Empirico, già gli stoici, con Crisippo di Soli, enunciano la consequentia mirabilis e se ne servono per respingere la tesi degli scettici che “niente si può dimostrare”. Infatti, il tentativo di dimostrare che non esiste alcuna dimostrazione attesta, appunto, che almeno una dimostrazione esiste. In questo modo, la logica formale di origine stoica offre il suo contributo alla gnoseologia, fornendo un argomento contro l’ipotesi dello scetticismo. Non sembra, dunque, sostenibile l’opinione di Bertrand Russell contenuta nei Problemi della filosofia del 1912, secondo la quale “contro lo scetticismo assoluto non si può avanzare alcun argomento logico” (B. Russell, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano 1965, p. 178).

Ma come reagiscono gli scettici di fronte alla critica espressa dalla regola della consequentia mirabilis?

Un tentativo di superare l’impasse al riguardo è proposto in età moderna dallo scettico Michel de Montaigne, che evita la tesi teoretica secondo la quale tutte le asserzioni sono false. Per esprimere l’atteggiamento della sospensione del giudizio e della continua ricerca (o skèpsis), Montaigne si limita a formulare l’interrogativo “Che cosa so io?” (“Que sais-je?”). Infatti, se egli sostenesse “Io non so nulla”, farebbe scattare la trappola della consequentia mirabilis, e dovrebbe comunque ammettere di conoscere almeno una verità: quella di non sapere.  

 

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