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Senza memoria non c’è conoscenza

Senza memoria non c’è conoscenza

26 Aprile 2021 Interviste filosofiche
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La percezione di molti è che si stia dedicando poca attenzione ai segnali di allarme, emergenti in modo più meno conscio e consapevole, sugli effetti della tecnologia. Uno di questi segnali nasce dal presentismo corrente che induce a vivere dentro un presente continuo in cui è scomparso il passato e si è liquefatto il futuro. Per alcuni un segnale d'allarme a cui si presta scarsissima attenzione è la sparizione della memoria collettiva, accompagnata da una crescente ignoranza della storia.

L'articolo di Maurizio Chatel qui pubblicato, il cui titolo è "Intelligenza e memoria: da Giordano Bruno a Umberto Eco (passando per Marvin Minsky)", contiene una riflessione approfondita e originale che non dovrebbe dispiacere a coloro che percepiscono i segnali di allarme emergenti e che ad essi vogliono prestare attenzione per comprenderli, anche nella prospettiva tutta umana, di andare oltre verso nuovi scenari futuri. Sicuramente molto tecnologici!

"Apri la mente a quel ch’io ti paleso 
e fermalvi entro; ché non fa scienza, 
sanza lo ritenere, avere inteso." - 
[Dante, Paradiso, V]


L'arte della memoria 

Con il suo clamoroso e straordinario saggio su L’arte della memoria, del 1966, Frances Yates apriva prospettive di conoscenza storica fino ad allora mai esplorate, vaste come praterie o meglio come interi mondi, proiettando il londinese Istituto Warburg ai vertici assoluti degli studi sulla classicità.

Questo testo, che richiede una lettura capillare e minuziosa, senz’altro scopo che il piacere della conoscenza, illustra un modo di essere dell’umanità occidentale dagli albori greci fino alla Rivoluzione scientifica tanto importante quanto sconosciuto: l’uso della memoria come strumento assoluto per la conservazione del sapere, e quindi del mondo.

Dico “assoluto” perché non c’è aggettivo che possa esprimere con più forza la perfetta coincidenza tra mezzo e fine, la perfetta coincidenza dello strumento con il fine per cui esso “è”.

Senza memoria non c’è passato e non c’è neanche futuro, poiché mancherebbe la consapevolezza dei materiali necessari a realizzare un progetto, che sono sempre materiali accumulati nel tempo. Senza memoria non c’è conoscenza, come ben disse Dante.

Il merito della Yates fu di mettere in luce quanta parte ebbe nell’antichità, e fino a pochi secoli or sono, il massacrante impegno di esercitare la memoria, di dotarsi di una tecnica di memorizzazione (mnemotecnica) in grado di conservare integralmente negli spazi interiori della mente ingenti, se non ingentissime, quantità di dati e di conoscenze. Una tecnica da apprendere con la pazienza con cui si apprende un’arte, in anni di sacrifici e di fatica, pena l’irrilevanza di tutto ciò che si sa. 

 

Il Silenzio ermetico nella filosofia di Giordano Bruno 

 

Leggendo quel libro, uscito in Italia nel 1972, mi venne subito in mente quanto insegnavo ai miei allievi: “non potete immaginare cosa sarebbe la nostra vita senza il cotone, di cui quasi nulla si dice nei libri di storia, senza questo tessuto leggero e lavabile diventato prodotto di massa solo dal Settecento; così come non potete immagine cosa sarebbe stata la vita nella Roma antica senza le anfore e l’immenso commercio che ne garantiva la presenza in ogni casa e in ogni capanna. La Storia dell’umanità non è fatta dei soli Giulio Cesare…”, e via di questo passo.

C’è dunque una storia quotidiana di cui siamo totalmente inconsapevoli, la storia di quelle piccole cose talmente pervasive e abituali, che fanno quasi parte della nostra natura, e questo non vale solo per il passato. Storie di cose che hanno sostenuto e sostengono la nostra esistenza, di cui tuttavia non ci occupiamo più di tanto. Una di queste storie è la storia dell’arte della memoria, e diciamo pure della memoria e basta. 

Sarebbe una fatica di Sisifo percorrere le pagine di quel saggio, nello stesso tempo erudito e coinvolgente; è tuttavia necessario dare qualche chiarimento su cosa si intende per arte della memoria, al solo scopo, sia chiaro, di illustrare quanto lavoro mentale quest’arte richiedesse. Ma non posso neanche accennare all’argomento, senza citare almeno l’inizio dell’opera, di per sé già illuminante:

«Nel corso di un banchetto offerto da un nobile di Tessaglia di nome Scopa, il poeta Simonide di Ceo cantò un poema in onore del suo ospite. (…) Poco dopo Simonide fu avvisato che fuori lo attendevano due giovani. Si alzò dal banchetto, uscì, ma non trovò nessuno. Durante la sua assenza il tetto della sala del banchetto crollò, schiacciando sotto le rovine Scopa e tutti i suoi ospiti; i loro corpi erano maciullati al punto che i congiunti accorsi a raccoglierli per la sepoltura, non furono in grado di identificarli. Ma Simonide ricordava i posti a cui essi erano seduti a tavola e poté quindi indicare ai parenti quali fossero i corpi dei loro congiunti (…) Proprio questa esperienza suggerì al poeta i principi dell’arte della memoria, di cui si dice che egli sia stato l’inventore. Notando che aveva potuto identificare i corpi degli ospiti mediante il ricordo dei posti a cui erano stati seduti, Simonide si rese conto che una disposizione ordinata è essenziale per una buona memoria[i]» (Yates, cit. pag. 3).

Una disposizione ordinata

Una disposizione ordinata”. Tutti noi possediamo una qualche capacità innata di memorizzare, anche senza dedicarci a coltivarla: chi ricorda facilmente i numeri, chi le immagini o i volti, e così via; ma sappiamo altrettanto bene quanto potrebbe essere utile coltivare la memoria, esercitarsi nel suo uso per potenziarla al di là delle nostre naturali capacità.

Forse è meno noto che da quando c’è Storia, ovvero da quando è nata la scrittura, l’umanità ha predisposto delle tecniche di conservazione del sapere, le più note tra le quali sono certamente i numeri e la poesia: ricordare quanti covoni di grano sono stati immagazzinati, attribuendo a ciascuno di essi un segno su una tavoletta, è l’origine del calcolo; distribuire le parole di una frase secondo una successione ripetitiva di vocali brevi e lunghe, chiamata verso, è “poesia”, ovvero un testo che può essere facilmente mandato a memoria.

Accanto al metodo, cioè al principio d’ordine prescelto – i numeri o i versi – occorrono naturalmente anche i materiali: per essere efficaci, i numeri e i versi devono poter rimanere fissati su un supporto fisico, come la pietra o il papiro. Dunque, si scrive la poesia perché tutti la possano memorizzare, e i numeri perché tutti possano trarre da essi l’informazione che è loro utile. La memoria è una facoltà mentale non solo umana, ma l’uomo ha creato le condizioni perché essa trascenda l’esistenza del singolo individuo, perché si propaghi rendendo disponibili a tutti le conoscenze acquisite da qualcuno.

 

Mnemosine e mnemotecnica

Disporre ciò che sappiamo secondo un metodo d’ordine è dunque sinonimo di “memoria”, e da Simonide (VI/V secolo a.C.) questo metodo è diventato un’arte intesa in senso greco come capacità tecnica: la mnemotecnica. E se vogliamo ancora un esempio di quanto potesse essere diffusa la capacità di memorizzare in quella tarda antichità, è sufficiente citare il celebre dialogo platonico Il simposio, dove l’evento narrato è riferito da chi vi partecipò a un altro, e da questi ad un secondo, e sempre riportato parola per parola, tenendo ovviamente presente che in tutti e tre i casi tutti gli interventi del dialogo furono enunciati una volta sola (certo il testo è un’invenzione e nulla di quello che vi è narrato avvenne realmente, ma quello che conta è considerare come fosse possibile concepire anche solo la possibilità di memorizzare con tanta rapidità, così che il racconto di Platone assumesse alle orecchie dei suoi uditori una totale verosimiglianza). 

Possedere una tale capacità richiede ovviamente esercizio, e tanto.

E un tale esercizio deve seguire regole estremamente complesse, poiché quello che va memorizzato non sono “numeri” o “quantità”, ma successioni sofisticate di parole… e quanti significati può portare con sé ogni parola?

La natura in qualche modo “spettacolare” che possono sortire gli effetti di questo esercizio, se chi lo padroneggia può ripetere in un istante ciò che ha appena ascoltato in un discorso, induce la Yates e rifiutare il termine di tecnica (o mnemotecnica), a favore di quello di arte, come ben dice il titolo del suo saggio; e come ogni arte, anche questa è fatta di livelli di apprendimento. Il primo passo consisteva «nell’imprimere nella memoria una serie di loci o luoghi. Il più comune benché non il solo tipo di sistema mnemonico di luoghi fu il tipo architettonico»[ii]. Immaginate allora un palazzo, vuoto, con le sue finestre, le sue sale di piano in piano; fissatolo saldamente nella memoria come immagine, concentratevi a collocare su ogni finestra, e poi, di scala in scala, in ogni stanza, un qualche preciso oggetto simbolico: statue che rappresentino Dei o altri personaggi mitologici, o animali, oppure oggetti a voi estremamente familiari.

Occorre che per un tempo ragionevolmente lungo voi vi esercitiate a percorrere la facciata di quel palazzo, e tutti i suoi angoli, con l’occhio della mente, fino a farlo diventare la vostra dimora abituale, nota in ogni minimo particolare. Edificato e ammobiliato questo edificio mentale, potete ora cominciare ad utilizzarlo: leggete un capitolo di un romanzo, e man mano che procedete nella lettura associate ogni sua immagine, ogni sua parola significativa, a una finestra o a una stanza del palazzo, quella in cui si trova il simbolo che meglio si può associare, per analogia o sinonimia, a quanto state leggendo. Terminata la lettura, concentratevi e ripercorrete dentro di voi il cammino appena compiuto, rivisitando i luoghi che avete associato al discorso: ne rinascerà il brano appena letto, e più il vostro palazzo è ricco ed ampio, più la fedeltà all’originale sarà stupefacente. 

È facile capire quanto, pur nella sua complessità, quest’arte potesse risultare indispensabile, per le professioni intellettuali, in un mondo senza carta per prendere appunti, o strumenti di scrittura rapidi, non parliamo poi di registratori e computer; un mondo, dunque, che si estende storicamente a tutto il XVI secolo, quello di Giulio Camillo e di Giordano Bruno, gli ultimi ma anche i più noti tra i grandi Maestri di mnemotecnica. I Teatri della memoria furono l’esito rinascimentale e neoplatonico della grande tradizione mnemonica occidentale; concepiti con gli stessi principi formali già noti nell’età di Cicerone, essi divennero un concentrato visionario di simboli, allegorie, assimilazioni tecnico-filosofiche e astrologiche, probabilmente inutilizzabili per la loro complessità, ma capaci di colpire l’interesse , lo stupore e l’ammirazione delle maggiori corti europee e delle loro assemblee di cortigiani.

Per Giordano Bruno, «l’arte della memoria è un’arte inventiva. Ma per comprendere come si possa intendere la memoria in senso inventivo e non solo ripetitivo, chiediamoci: cosa chiede di rammemorare un’arte della memoria, in senso profondo? Si tratta di ri-trovare, di trarre fuori le diverse (infinite?) figure, immagini vive congelate nella fredda materialità dei corpi. Perché, se è vero, secondo un assunto comune alle filosofie naturalistiche rinascimentali, che la parte contiene il tutto che la comprende, allora quello che appare come un corpo solo, una forma sola, in realtà, ne contiene altre. Un intero cosmo di immagini è contenuto là dove ci sembra di aver a che fare solo con una singola immagine, con un singolo volto, con un singolo corpo materiale»[iii]. Una finalità che assurge a cammino iniziatico, alla fuoriuscita dai limiti fisici del sistema tolemaico per abbracciare l’infinità dell’anima mundi.

Con Giulio Camillo ci affacciamo invece su un terreno decisamente più classico, di una classicità però rivisitata dallo spirito razionalista del Rinascimento architettonico: il teatro immaginato da Camillo era un progetto architettonico concreto, concepito per essere edificato e popolato dagli studiosi, come una sorta di infinita biblioteca senza testi. 

Il Teatro di Giulio Camillo, coi suoi settori e sottosettori mnemonici, in una tavola dell’epoca. 

Memorizzare è una facoltà vitale

Questo excursus storico ci mostra con evidenza come da sempre l’uomo sia consapevole del fatto che memorizzare, ritenere ciò che abbiamo appreso, è una facoltà vitale, uno strumento indispensabile alla nostra sopravvivenza in quanto esseri senzienti. Il linguaggio non è banale comunicazione, esso trasmette, e ciò che viene trasmesso dev’essere conservato, immagazzinato per i momenti in cui sarà necessario utilizzarlo, come il grano nei silos. Ma perché allora l‘arte della memoria è andata perduta?

Perché “insegnare le poesie a memoria” è oggi considerato pedagogicamente irrilevante se non nocivo? Perché non ci preoccupiamo più se “perdiamo la memoria”, facendoci al massimo una battuta sopra? Domande retoriche, a cui sappiamo bene come rispondere: perché abbiamo predisposto una parte rilevante della tecnologia proprio allo scopo di conservare i dati per averli a disposizione in qualunque momento e in qualunque luogo. Conservarli non più “dentro” di noi, ma fuori, in ambienti fisici accessibili e manipolabili con rapidità, e soprattutto sempre più “capaci” in termini di spazio.

Non solo. La tecnologia informatica ha superato il concetto stesso di spazio fisico, almeno nel suo significato originario di supporto. Ho citato prima la pietra e il papiro, come arcaici contenitori di informazioni; ma sappiamo bene quanta strada abbia fatto la tecnica in questo campo: dal papiro alla pergamena, dalla pietra al bronzo, e poi dalla pergamena alla carta, fino alla cruciale scoperta dell’utilità del magnetismo in questo settore, prima coi nastri magnetici e poi coi microchips, e siamo al dunque. Il microchip, infatti, ovvero il supporto siliceo, rappresenta la quantità minima di spazio mai utilizzata per conservare masse di dati inimmaginabili in qualunque altro momento della storia.

Memoria artificiale, memoria collettiva

La capacità di utilizzare prolungamenti artificiali dei nostri arti per modificare il mondo è un’altra delle grandi tappe evolutive dell’umanità, fin dall’uso del bastone per raccogliere i frutti dagli alberi (capacità che d’altronde non è ignota agli stessi primati maggiori); anche questa “scoperta” oggi si manifesta nella più avanzata delle tecnologie, quella cibernetica, con il moltiplicarsi non solo di arti artificiali che permettono di sostituire interi organi umani, ma con la costruzione di robot capaci di imitare il lavoro umano. Ma occorre riflettere sul fatto che anche la mente è un organo, se pur atipico e indefinibile, e che ogni tipo di memoria artificiale è di per sé un prolungamento delle nostre facoltà mentali, un organo supplementare che ha cambiato la nostra stessa natura in quanto esseri viventi e non solo pensanti.

Simonide intuì che la disposizione ordinata delle conoscenze è l’elemento strategico per l’utilizzo del sapere, è questo rappresenta l’elemento di continuità più rilevante nello scorrere dell’evoluzione umana. Il criterio attuale che sottostà alla conservazione dei dati segue infatti una logica, che gli esperti identificano nell’architettura dei Database; i loro tre elementi costitutivi, infatti, rappresentati dalla componente fisica, quella logica e dall’interfaccia-utente, rappresentano il metodo che fa da base intelligente al loro funzionamento. Veniamo allora al senso di tutto ciò. 

Intanto: la capacità di creare memoria è ancora un’arte? Dipende. Possiamo considerare la tecnica come un mero saper fare, una manipolazione dei materiali che non richiede una competenza scientifica profonda, come già supponeva Platone classificando la techne al di sotto dell’episteme, della scienza con la esse maiuscola. Ma questo è riduttivo, se non teniamo conto del fatto che ogni tecnica richiede un progetto, un’ideazione di mezzi per determinati fini, e che questa ideazione è frutto di ricerca e sperimentazione, e quindi di scienza. La progettazione e l’implementazione delle banche dati, e delle unità di memoria, è ovviamente il frutto di una sapienza che non può essere disgiunta dall’intuizione e dalla creatività, che può essere considerata a modo suo un’arte. Uno dei punti d’incontro odierni tra scienza e filosofia ci rende sempre più edotti del fatto che non c’è molta differenza tra una bella poesia e una formula fisico-matematica efficace, come sempre più sostengono gli stessi fisici teorici, affascinati dalla bellezza  di una equazione prima ancora che dalla sua “verità”. I sistemi logici si creano e si inventano, non si scoprono. Quello che facevano i Simonide o i Cicerone duemila anni fa oggi lo fanno gli ingegneri elettronici, con un chiaro valore aggiunto: che le loro invenzioni non servono solamente ai retori e ai professionisti della parola, ma a tutti, in tutti i campi.

Ancora più rilevante mi sembra poi un altro fatto: l’arte della memoria di un Simonide o di un Giordano Bruno, nella sua stupefacente produttività, era uno strumento meramente individuale, un esercizio (greco: askesis, da cui “ascesi”) di natura pratica, insegnabile ma non “condivisibile”; nessuno poteva ricordare al posto di un altro, e la “mia” memoria rimaneva una proprietà inattingibile per chiunque. A prescindere dall’utilizzo dei supporti, che comunque erano riproducibili in misura molto limitata, e che anche nella loro forma più moderna (quelli cartacei e magnetici) sono sì disponibili, purché si trovino “a portata di mano”, le forme più attuali di conservazione dei dati, i cosiddetti clouds, hanno oltrepassato i limiti dello spazio, proiettando la memoria in quella che Yuri Lotman chiamava la semiosfera: un sistema sinaptico planetario che ricorda, filosoficamente, l’anima mundi dei neoplatonici.

L’importanza di questa rivoluzione (copernicana? Einsteiniana?) consiste, forse è bene esserne consapevoli, nel fatto che la “nostra” facoltà memorizzante è sempre meno “nostra” e sempre più collettiva. La memoria virtuale delle nuvole informatiche non è più solo il silos delle conoscenze, ma si avvicina di molto al modello della mente in quanto tale: essa è produttiva, non solo più conservativa. Insomma: siamo ai Diagrammi ermetici di Bruno, alla memoria come invenzione, come scoperta, come processo creativo “infinito”. 

La memoria informatica non fornisce semplicemente dati e informazioni, ma indirizza alla ricerca e facilita le associazioni, moltiplica i riferimenti (nel senso logico-linguistico del termine) creando simultaneamente reti di senso che ampliano “ciberneticamente” le nostre facoltà intellettuali, come il bastone di tre milioni di anni fa. Nel 2003 Umberto Eco disse, con uno dei suoi classici aforismi tra lo spiazzante e il divertito: “Per me l’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma colui che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve, e in due minuti.”

Bene: questo è già superato.

Oggi non abbiamo più bisogno di sapere dove cercare l’informazione, ma dobbiamo riflettere attentamente su un’altra questione: che uso ne faremo, tra gli indefiniti possibili?

 

 


 

 

[i] Il racconto è tratto dal De oratore di Cicerone, dove tratta della memoria come delle cinque parti della retorica, ovvero dell’arte oratoria.

[ii] Yates, cit., pag. 4

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