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Ogni tecnologia esercita una certa forma di ipnosi e di torpore ...( Stefano Petruccioli)

Ogni tecnologia esercita una certa forma di ipnosi e di torpore ...( Stefano Petruccioli)

29 Maggio 2017 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
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Due sono gli errori che spesso si compiono quando si parla di tecnologie e didattica: primo, pensare che l’insegnamento possa ancora essere inteso come mera trasmissione di conoscenze, passaggio di contenuti, quando invece la rivoluzione digitale impone un ripensamento dell’impianto didattico della scuola; secondo, pensare che un semplice cambiamento di mezzi e strumenti materiali assunti nella scuola comporti necessariamente un’innovazione didattica.

"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457)."

 

Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero? .

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.

In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto con Stefano Petruccioli, filosofo, blogger e docente di scuola superiore


 

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Sono nato nel 1979 a Roma e lì mi sono laureato in filosofia (2003) con una tesi sulla cultura dell’enigma nella Grecia antica. Su filosofia e fumetti - l’altra mia grande passione - sono autore di Gli X-Men e la filosofia (Mimesis, 2014) e X-Men. Per un’etica indagata in stile mutante (Mimesis, 2015) e ho organizzato i seminari “Marvel’s Philosophy. La meravigliosa filosofia del fumetto” (Roma, 2015) e “PostPop” (Prato, 2017). Ho inoltre pubblicato Filosofare con la katana. Nietzsche reboot (Villaggio Maori, 2016) e I miglioratori del mondo. Utopia e democrazia tra letteratura, fumetto, filosofia (Moretti&Vitali, 2017), oltre a contributi in Immaginare l’infanzia (Anicia, 2007) e Sartre àpres Sartre (Aragno, 2008) e su riviste online come “Lo Sguardo”, “Lo Spazio Bianco” e “Silmarillon”.

Sono un blogger dal 2005 e ora scrivo su www.popfilosofico.blogspot.com.

Ma la mia attività principale, dal 2007, è quella di docente nella scuola superiore, di insegnante di storia e filosofia nei licei di Roma e provincia, prima, e di Prato, ora. Ed è soprattutto in relazione a questa mia effettiva attività di insegnamento che mi interessano le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e una riflessione, che non sia né apocalittica né integrata, su di esse e sulla nuova era che configurano.

In un suo breve e intenso trattato sul non-colore nero (Lo splendore del nero, Ponte alle Grazie, 2017), il filosofo francese Alain Badiou riflette sul nero scolastico della sua infanzia e giovinezza, quello del calamaio e della lavagna, e lamenta il rovesciamento introdotto nella pratica educativa dall’adozione di lavagne bianche su cui si scrive ricorrendo ai colori esotici e spaventosi dei pennarelli rossi, blu, o addirittura gialli e verdi. La policromia dei pennarelli sulla lavagna bianca, sostiene Badiou, pregiudica la trasmissione delle sillabe di un alessandrino o delle radici di un’equazione di secondo grado. Tale policromia, conclude il filosofo, sta al gesso bianco sulla lavagna nera come il fastfood sta alla vera cucina.

Questo esempio e questa riflessione, mi sembra, mettono in luce due errori che spesso si compiono quando si parla di tecnologie e didattica. Primo, che l’insegnamento possa ancora essere inteso come mera trasmissione di conoscenze, passaggio di contenuti, trasmissione di conoscenze, quando invece la rivoluzione digitale impone un ripensamento dell’impianto didattico della scuola - e del resto, però, varrebbe la pena chiedersi se davvero l’insegnamento sia mai stato questo, se possa essere questo, considerando che anche il Platone del Simposio argomenta che la sapienza non è fatta in modo da scorrere, se ci si tocca l’un l’altro, da chi ne è più pieno a chi ne è più vuoto, così come nelle coppe l’acqua scorre attraverso il filo di lana, dalla più piena alla più vuota.

Secondo, che un semplice cambiamento di mezzi e strumenti materiali assunti nella scuola comporti necessariamente un’innovazione didattica. Certo, ci insegna McLuhan, il medium non è neutro, ma se ai mezzi offerti dalle nuove tecnologie non si accompagna anche una rivoluzione nello stile didattico e nell’approccio pedagogico dell’insegnante, le vere possibilità di tali strumenti dell’informazione e della comunicazione rimangono irrealizzate, la loro virtuale forza di rinnovamento resta inattuata, e la loro presenza e il loro utilizzo a scuola risulta pretestuoso e non effettivo.

 

Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Zizek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?

Sicuramente ha ragione Žižek nel sostenere a più riprese che l’epoca in cui ci troviamo ci fa sembrare di vivere alla fine dei tempi, o ancora di vivere in tempi interessanti, cioè irrequieti, caratterizzati da guerre, lotte e sofferenze. Ma è lo stesso filosofo sloveno - il filosofo più pericoloso d’Occidente, come lo ha definito la rivista statunitense “New Republic” - che ci sorprende ricordandoci che non siamo affatto davanti a un’apocalisse ma all’avvenire di un nuovo inizio, che la crisi è anche un’opportunità di ripensamento e cambiamento.

Insomma, per Žižek un certo avvenire può già essere qui, una certa utopia può forse già essere scorta nelle pieghe del presente. E, giustamente, questa riflessione sulla società e sull’economia del terzo millennio può essere fatta valere anche per la rivoluzione tecnologica. Ritengo quindi che la riflessione che l’epoca attuale richiede debba mostrare una lucidità critica che però non sia priva di questo paradossale ottimismo di cui dà prova il filosofo sloveno.

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

Ho citato prima il sociologo Marshall McLuhan, le cui teorie non possono non essere ancora oggi alla base di ogni riflessione sulla comunicazione. La sua celebre espressione “il medium è il messaggio” ci insegna che nessun mezzo di comunicazione è neutrale, perché ogni medium organizza la comunicazione in un modo specifico, la struttura secondo criteri propri, suscitando determinati comportamenti e modi di pensare in chi ne fa uso.

Ogni tecnologia, e non solo le nuove tecnologie, esercitano una certa forma di ipnosi e di torpore che porta ad accettare come neutre e naturali quelle che sono, invece, assunzioni intrinseche in tale specifica tecnologia. In ciò la stampa non è diversa dal digitale, la linearità di un libro non è più neutra della reticolarità di un ipertesto e i due diversi medium sono portatori, ad esempio, di due differenti paradigmi del sapere - verticale, gerarchico, trasmissibile il libro; orizzontale, rizomatico, costruttivistico l’ipertesto - dei quali nessuno dei due è neutrale o naturale. Le vecchie tecnologie a cui siamo assuefatti e abituati non sono diverse dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il problema, allora, non è che le nuove tecnologie non sono più neutre - ripeto, le tecnologie non lo sono mai state e mai lo sono -, ma il problema diventa, o anzi rimane, la nostra capacità di utenti di essere consapevoli di tale non neutralità, di comprendere quali sono i principi e le linee di forza che ogni tecnologia possiede ed esercita, di prevedere e controllare i mutamenti che comporta.

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Ovviamente mi è impossibile fare previsioni, tanto più che non sono propriamente un esperto di nuove tecnologie ma solo un insegnante che può e cerca di riflettere sull’impatto che esse hanno e possono avere. Come dicevo prima, mi piace fare mio quel paradossale ottimismo di Žižek, o quella speranza in un avvenire che, ci ricorda il filosofo francese Jacques Derrida, è vertiginoso, irruento, plastico, esplosivo, lacerante, non padroneggiabile, ma che è il tempo che si “vede venire”.

Calando la riflessione sulla dimensione che mi è più propria, posso vedere come in ambito scolastico e didattico le nuove tecnologie stiano facendo emergere la possibilità di stimolare e facilitare negli studenti l’acquisizione e lo sviluppo di competenze anche tradizionali di carattere metodologico e strumentale quali l’autonomia nello studiare e ricercare informazioni e materiali, il pensare in modo creativo e fuori dagli schemi ideando e creando nuove idee, e di carattere relazionale quali il produrre comunicazioni complesse e avvincenti integrando comunicazione verbale e non verbale. Il futuro che didattica e digitale  mi anticipano è un futuro in cui è messo in atto un processo non di trasferimento verticale di conoscenze ma un processo dinamico e distribuito tra soggetti che apprendono l'uno dall'altro, sviluppando anche la capacità di fare squadra, il senso di appartenenza, la richiesta e offerta di aiuto, la condivisione di consigli e metodologie, un futuro di collaborazione e partecipazione. Non è una previsione, ma un ottimistico scenario possibile.

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?

Da quanto ho detto fin qui, mi sembra evidente la mia non appartenenza alla prima categoria, non sono un apocalittico, non ho una visione pessimistica dell’avvenire, non ho paura delle tecnologie, ritengo sciocco pensare di rifiutarle e sabotarle. Un atteggiamento del genere mi ricorda quello della nonna de Le notti bianche di Dostoevskij, che avrebbe voluto che tutto fosse come ai suoi tempi, tempi in cui lei era più giovane, il sole era più caldo e persino la panna non diventava acida così presto. Non credo, invece, che le cose debbano tornare come erano o rimanere come sono, non credo che ieri si stesse meglio di oggi.

Sono moderatamente entusiasta ma non maniaco rispetto alle nuove tecnologie, consapevole del rischio e della chance insieme che esse rappresentano. L’atteggiamento che suggerisco è quindi, ancora una volta, quello di una consapevolezza lucidamente critica ma non priva di un certo qual ottimismo.

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

Riprendo ancora una volta le idee di McLuhan cui ho già fatto riferimento in precedenza e sostengo che il nostro essere modificati dalla tecnologia non è qualcosa di nuovo e di legato esclusivamente alle nuove tecnologie, che tutte le tecnologie sono sempre state estensioni del nostro corpo e hanno sempre modificato le nostre vite e la nostra percezione della realtà, che il problema della consapevolezza delle lenti che indossiamo e attraverso cui necessariamente interpretiamo il mondo e con esso interagiamo è una questione importante ma valida anche per il passato, legata a ogni forma di tecnologia e non solo alle nuove.

La questione è duplice e antica, perciò antichi saranno i miei due riferimenti. Il primo è all’enigma posto nel mito greco dalla Sfinge a Edipo, quello che ruota intorno a quale sia quell’animale che al mattino cammina su quattro gambe, al pomeriggio su due e alla sera su tre, enigma la cui soluzione è l’uomo. Bisogna prestare attenzione, allora, che nella definizione di uomo proposta da questo enigma e dalla sua soluzione è chiaramente indicato un riferimento alla tecnica: l’uomo è quell’animale che alla fine della sua vita cammina poggiandosi su un bastone, che inforca gli occhiali per vedere, che si veste per coprirsi, che è già da sempre modificato dalla tecnologia, nella cui natura è già da sempre innestata la tecnica.

Il secondo è al filosofo greco Parmenide, che nel V secolo a.C. nel suo poema dottrinale scriveva: “è sempre lo stesso ciò che appunto pensa negli uomini, la costituzionalità degli organi”. Anche pretendendo di prescindere dalla tecnologia, non c’è per l’uomo un modo di interpretare e interagire con il mondo che preveda l’assenza di lenti, già la costituzionalità dei suoi stessi organi media la sua attività di pensiero, così che per lui sarà sempre impossibile raggiungere ciò che il filosofo statunitense Thomas Nagel definisce uno sguardo da nessun luogo, sarà sempre impossibile per il suo occhio essere neutro come l’occhio di Dio.

Quello che le nuove tecnologie fanno, allora, è forse di rendere più evidenti certe questioni, di farci avvertire come più urgente la necessità di una loro consapevolezza.

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Facebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?

Come suggerivo prima, credo che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione rendano più evidenti certe questioni anche classiche della riflessione filosofica e non solo, credo che ci facciano avvertire come più urgente la necessità di affrontare certe questioni e certe tematiche, sicuramente anche perché le rendono più complesse che nel passato. Ma le rendono anche più interessanti.

Continuo a ribadire, insomma, che vedo il rischio possibile ma vedo anche e scommetto sulla chance, sulla attuabilità di un rinnovamento che la rivoluzione tecnologica può suscitare, sulle possibilità di libertà e costruzione, di condivisione e partecipazione che le nuove forme tecnologiche promettono e permettono.

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo  guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?

Social network e pratiche di rete sono esperienze che non possono che contare moltissimo ormai nella costruzione dell’identità. La vita sullo schermo - per citare il titolo di un altro piccolo classico della Turkle -, quella in cui noi siamo produttori, registi e attori dei nostri stessi drammi, in cui interpretiamo le nostre vite virtuali, è vita reale. Sulla superficie dello schermo ci è possibile ritrovare e ricostruire un senso e un’identità, ci è possibile provare il piacere di nuove esperienze e di nuovi incontri, ci è possibile dilettarsi in una pratica di bricolage manipolando, assimilando e concatenando ciò che si trova sparso per la rete. La rete permette interazione e creatività, i mondi virtuali e reali del cyberspazio permettono discussioni, scambi, sperimentazioni di nuove identità personali e di nuovi tipi di comunità. Questi aspetti positivi non sono meno rilevanti del pur reale pericolo di rimanere prigionieri dentro la superficie dello schermo, catturati in pratiche compulsive e addomesticati da nuove convenzioni.

 

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?

Se sia necessario un certo grado di “offuscamento” rispetto alla possibilità di una sorveglianza digitale, utilizzando deliberatamente informazioni fuorvianti, disorientanti, ambigue, confuse, ingannevoli che interferiscano con la raccolta di dati personali, ritengo sia una questione rilevante soprattutto da un punto di vista politico.

Possiamo forse dare per condivisa l’idea che sia più che opportuno difendere la nostra privacy tanto dagli hacker quanto da imprese e inserzionisti - questi ultimi ben più invadenti rispetto all’interfaccia che Nicholas Negroponte, nel suo pionieristico Essere digitali, prefigurava quale filtro e facilitatore di informazioni in grado di funzionare unendo in sé una competenza specifica e una conoscenza personale e profonda dell’utente e del suo ambiente, come un maggiordomo inglese ben addestrato o una cognata digitale. Ma per quanto riguarda le autorità politiche?

La cybersorveglianza corre il rischio di minare il diritto al dissenso, alla libertà d'espressione e di movimento, e ciò non dovrebbe certamente essere in una democrazia, e del resto, però, oggi più che mai sembra essere la sicurezza il bene fondamentale della democrazia. La questione dell’antinomia tra libertà e sicurezza è decisamente aperta.

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Mi piace lasciare un piccolo suggerimento di lettura, un romanzo di uno dei miei scrittori contemporanei preferiti, lo statunitense Dave Eggers, un romanzo che racconta e indaga le contemporanee e futuristiche tecnologie digitali e della rete, un romanzo che ha anche avuto una recentissima trasposizione cinematografica, un romanzo di cui tratto anche nel mio ultimo testo su utopia e democrazia: Il Cerchio.

Il Cerchio è una società, un’azienda, che non solo cavalca ma spinge avanti in modi radicali ed estremi la rivoluzione digitale e informatica. Non è solo un luogo di lavoro, ma si presenta come una comunità integrale: al Cerchio ogni cosa è perfetta perché le persone migliori hanno creato i sistemi migliori e i sistemi migliori hanno permesso di raccogliere i fondi, fondi illimitati, che rendono possibile tutto ciò. Ed è naturale che sia così: chi può creare l’utopia se non degli utopisti? Questi utopisti, guidati da uno “zio prediletto” e premuroso, hanno tra i loro generosi progetti quello di documentare e testimoniare, attraverso miliardi di telecamere, tutto quello che succede nel mondo, affinché tutti possano conoscerlo: tutto deve essere visto e conosciuto da tutti, la privacy è un furto e tutti gli esseri umani devono essere onniveggenti e onniscienti, avere “gli occhi di Dio”, sotto il cui sguardo tutte le cose sono nude e aperte. 99 punti su 100 è  quasi perfetto, certo, ma questo punto in meno disturba quelli del Cerchio. il cerchio deve essere chiuso, completato, in maniera tale che, eliminata quella cappa di invisibilità - la certezza di non essere visti in ogni attimo della propria vita - che induce gli uomini all’ingiustizia, si sia costretti a essere la versione migliore di se stessi: in un mondo dove le brutte strade non sono più un’opzione, non si ha altra scelta che essere buoni; se non si ha altra scelta che la strada giusta, la strada migliore, ciò sarà per tutti una specie di estremo sollievo. E allora chi può voler ostacolare l’incontestabile miglioramento del mondo, questo “secondo Illuminismo”?

Chi può voler ancora vivere in un mondo dove ci sono persone senza casa, odori aggressivi, macchine che non funzionano, sedili e pavimenti non puliti, caos e disordine dappertutto, inutile conflittualità, inutili errori e inefficienze? Eppure qualcuno crede che servano attimi di tregua dall’innaturale perfezione, che il Cerchio stia creando un mondo di luce sempre accesa che finirà per bruciare vivi tutti quanti perché non ci sarà tempo per riflettere, dormire, raffreddarsi; qualcuno ritiene che il Cerchio sia uno squalo che divora il mondo, portando avanti il progetto di una totalitaria e pan-ottica utopia. Quelli del Cerchio sono “miglioratori del mondo”, “illuminati” che desiderano una rivoluzione finale e definitiva, ma la rivoluzione, nella misura in cui dimentica il senso del limite e nella misura in cui vuole chiudere per sempre il cerchio e sottrarre l’uomo alle sue contraddizioni,
annichilisce la rivolta, la scelta, la libertà.

Ecco, forse questa lettura completa e integra anche qualcuna delle risposte precedenti.

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Mi ha fatto molto piacere partecipare a questa intervista, rispondere a queste interessanti domande, perché riflettere sulle nuove tecnologie, sulla rivoluzione digitale, ritengo sia una sfida irrecusabile per chiunque, e a maggior ragione per chi si occupa di filosofia e per chi è impegnato nel mondo della scuola.

L’opportunità di riflettere su certe tematiche è perciò preziosa e meritorio è l’impegno e lo sforzo da voi profuso nello spingere ognuno a tale riflessione, così come nell’allargare il dibattito e nel favorire lo scambio e la circolazione di idee.

Perciò, grazie davvero.

 

* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Alta via Camuna, Islanda)

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