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Senza il nostro apporto concreto, i processi tecnologici non possono trovare sviluppo.

Senza il nostro apporto concreto, i processi tecnologici non possono trovare sviluppo.

15 Marzo 2017 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
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L’uso degli strumenti tecnologici cambia certamente il modo in cui facciamo esperienza e il contesto delle nostre relazioni. Rispetto a ciò è anzitutto necessaria una riflessione. Non bisogna semplicemente accogliere e applicare ciò che ci viene proposto o imposto da questi strumenti, ma bisogna interrogarsi sulle conseguenze del loro uso.

Carlo Mazzucchelli intervista Adriano Fabris, Full Professor of Moral Philosophy at the University of Pisa


Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero? .

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.


 

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Da tempo (elenco delle pubblicazioni), nell’ambito delle mie ricerche sull’etica della comunicazione, ho approfondito alcune questioni relative all’etica delle tecnologie emergenti in ambito informativo e comunicativo (le cosiddette ICTs).

Sull’argomento ho pubblicato alcune ricerche specifiche: Etica delle nuove tecnologie (La Scuola, Brescia 2012); Ethical Issues in Internet Communication (in Lorenzo Cantoni e Holger A. Dobrowski, Eds., Communication and Technology, Handbook of Communication Science, De Gruyter Mouton, Berlin-Boston 2015); Twitter e la filosofia (Edizioni ETS, Pisa 2015).

Ora sto lavorando a un volume su Ethics of Information and Communication Technologies che sarà pubblicato da Springer. 

 

 

Secondo il filosofo Slavoj Zizek viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?

L’uso degli strumenti tecnologici cambia certamente il modo in cui facciamo esperienza e il contesto delle nostre relazioni. Rispetto a ciò credo che sia anzitutto necessaria, appunto, una riflessione. Vale a dire: non bisogna semplicemente accogliere e applicare ciò che ci viene proposto o imposto da questi strumenti, ma dobbiamo interrogarci sulle conseguenze del loro uso. Questo, in realtà, viene fatto molto poco. In particolare le giovani generazioni, che pure utilizzano massicciamente alcuni dispositivi tecnologici, sembrano in buona parte del tutto inconsapevoli delle conseguenze tale uso ciò comporta nelle vite loro e in quelle dei loro coetanei.

Dopo questa presa di coscienza, poi, credo sia necessaria un’effettiva assunzione di responsabilità. Troppo spesso si sente dire che non siamo responsabili di processi che sono, certamente, più grandi di noi. Ma questo comporta l’accettazione di ciò che già in passato veniva definita una “servitù volontaria”. Invece dobbiamo sempre tenere presente che, senza l’apporto concreto di ciascuno di noi, determinati processi tecnologici non possono trovare sviluppo. Siamo quindi, in concreto, responsabili di alcuni dei loro effetti: anche nei limiti del parziale controllo che di essi possiamo avere. Solo se accettiamo questa responsabilità, d’altronde, possiamo riconoscerci non solo rotelle di un complicato ingranaggio ma, propriamente, esseri umani.

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

In realtà la tecnologia non è mai stata neutrale. Il suo uso ci ha fatto certamente acquisire nuove capacità, ma ci ha anche costretti a un effettivo adattamento. Basti pensare a quando compriamo un nuovo smartphone: non è questo device che si adatta alle nostre esigenze, ma siamo noi che dobbiamo adattarci alle modalità del suo funzionamento.

Quanto alle categorie che richiedono effettivamente una trasformazione in epoca tecnologica, la prima è proprio la categoria di “etica”. Oggi infatti ad agire non è solo il soggetto umano, ma lo fanno anche le macchine (ad esempio i computer, i robot, ecc.). Queste macchine, cioè, sono sempre più in grado d’interagire con il loro ambiente e di “imparare” da tali interazioni.

Di conseguenza è necessario un vero e proprio allargamento della nozione di “etica”. Se con questo termine s’intende la riflessione sui criteri e i principi dell’agire, e se questo agire non è più solamente l’agire umano, è necessario allora elaborare una vera e propria “etica delle tecnologie”, intendendo il genitivo come genitivo soggettivo (riferendosi cioè a quell’etica che regolamenta l’agire degli apparati tecnologici).

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Non sono purtroppo un indovino.

Credo comunque che già ora emerga una specie di paradosso che caratterizza l’uso della tecnologia. Più aumenta questo uso, ai fini di ottenere un sempre maggiore controllo dei processi presenti e futuri, più la capacità di avere realmente questo controllo diminuisce, e si accrescono invece gli effetti collaterali. Basti vedere ciò che accade per quanto riguarda tutta una serie di questioni d’interesse ecologico. Credo dunque che, in futuro, aumenterà tale specie di alea, in maniera direttamente proporzionale all’aumento dell’uso degli apparati tecnologici.

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?

Credo di avere già risposto a questa domanda. Comunque, anche se in quest’epoca è di moda ragionare secondo contrapposizioni estreme, la storia c’insegna che tra gli “apocalittici” e gli “integrati” nessuno dei due, alla fine, vince, ma si ripropone piuttosto l’adattabilità umana, con la necessaria mediazione che essa comporta. Quando apparvero le prime automobili c’era chi sosteneva che l’esposizione alla velocità avrebbe provocato danni permanenti nei guidatori…

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

Penso che dobbiamo certamente vigilare e accrescere il nostro senso critico. Penso inoltre che, comunque, molti dei processi in cui siamo inseriti dipendono per il loro funzionamento proprio da noi. Se leggessimo le condizioni di utilizzo di Facebook, con la cessione di parti importanti della nostra privacy, prima di completare l’iscrizione, e decidessimo che non ci stanno bene, potremmo appunto evitare che un certo numero di dati che ci riguardano fossero usati da altri.

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Facebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?

Penso che è appunto una questione di democrazia. Nella nostra epoca le regole non sono più stabilite e controllate unicamente, quanto alla loro applicazione, da un’autorità statuale, e neppure sono definite solo sulla base di interessi economici e a vantaggio soprattutto di una parte. Oggi le regole sono stabilite da meccanismi che incidono in maniera capillare sulle nostre forme di relazione. Di più: che ci convincono che le vere forme di relazione sono quelle che si sviluppano proprio grazie a questi meccanismi.

Per salvare spazi di democrazia dobbiamo allora recuperare una pluralità di atteggiamenti. Ad esempio, se la democrazia si basa sulla partecipazione di ciascuno a un processo decisionale, bisogna rendersi conto che un like, una condivisione, non è affatto un esempio di partecipazione. Ma mi rendo conto che, nell’epoca dei populismi, chiedere questo è forse troppo…

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo  guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?

Anche qui è bene applicare il principio dell’apertura di possibilità, al quale più volte mi sono riferito in precedenza. Se sostituiamo ogni tipo di relazione interumana con l’unica forma di relazione che possiamo avere sui Social, è chiaro che ne abbiamo un danno. Di più: che ci consideriamo meno quello che siamo, cioè esseri umani, appunto perché sfruttiamo le nostre potenzialità solo in un’unica direzione. Se affianchiamo invece le possibilità offerte dalle nuove tecnologie alle altre che provengono dalle molteplici forme di esperienza che c’interessano, allora anche stare su un Social può comportare un arricchimento.

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?

Sì, conosco il libro. Ed è certamente utile. In ogni caso, al di là di esso, ciascuno sa che di fronte a un apparato tecnico o tecnologico c’è sempre un’ultima possibilità: spegnerlo.

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Direi che è un’ottima occasione per riflettere in rete sulla rete stessa. A me interessa molto sviluppare una riflessione che non sia solo distaccata, ma di fatto coinvolta in ciò che uno sta facendo e capace d’incidere sull’ambiente in cui costui sta operando. È ciò che gli studiosi definiscono l’aspetto performativo di un linguaggio e, più in generale, di un’azione.

Credo che il vostro progetto si muova molto bene in questa direzione.

 

* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Deserto di Atacama in Cile e Bhutan)

 

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