CANTO

01 Gennaio 2022 Etica e tecnologia
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canto [lat. cantus -us, der. di canĕre «cantare»]. – Movimento ritmico della voce dall’uno all’altro grado della serie dei suoni; espressione vocale della musica, l’atto del cantare. canto [lat. volg. cantus «cerchione; lato, angolo», voce di origine mediterranea come il gr. κανϑός (da cui il lat. canthus) «angolo palpebrale» (cfr. sign. 3)]. Angolo formato da due muri che s’incontrano, sia dalla parte esterna (in questo senso più com. cantone, cantonata).

[càn·to]

... è l’angolo (latino canthus, greco kanthós), l’angolo dell’occhio dove le palpebre s’incontrano. Nel tempo, per estensione di significato, canto oltre ad angolo ha significato anche lato, parte (si dice: d’altro canto, dal canto mio...). Discende da qui incantare, portare nel canthus, ovvero cogliere qualcosa per portarlo a sé, così come in un campo si colgono le spighe dopo averne fatto un fascio (fascinare). Il fascino, infatti, si esercita innanzitutto con gli occhi. Non l’oggetto, ma l’occhio che lo guarda è affascinante (oggi non lo è né l’occhio né l’oggetto, ma l’immagine dell’oggetto: sia che nasca nella nostra mente e corrisponda a una fantasia, sia che nasca fuori dalla nostra mente pur senza corrispondere a un corpo, come succede nel tempo della virtualità).

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Il raccolto affascinato può essere excantato, portato fuori dal canthus del campo, quindi incantato, portato nel proprio canthus, condotto a sé, dunque sedotto. E l’excantàtio dei raccolti, che consisteva nel portare via le messi dal campo mediante un incantesimo, era considerata reato capitale nella legge delle xii tavole .

Si può supporre che il canthus, quello dove risiede lo sguardo, e il cantus, quello generato dalla voce, si siano incontrati nel significato mediati dall’equivalenza di forma e suono? I repertori di etimologia non dicono nulla che autorizzi a supporre una radice comune, ma l’analogia è forte: s’incanta con gli occhi, ma anche con la voce. È il canto vocale delle sirene che incanta i marinai di Ulisse, li rende ebeti e li porta al naufragio, ma non funziona con quelli che sigillano le orecchie con la cera. Anche Seneca, trattando delle questioni naturali, e Ovidio, sugli amori, avevano accostato l’excantàtio dei raccolti all’atto del cantare.

Ci sono parole che nascono da una radice comune, poi nel tempo divergono e, nel mutamento della forma, smarriscono ogni comunanza di significato, forse per non incontrarsi più. Basti pensare, per esempio, a quanto sia difficile oggi riannodare cultura e culto. Ma ci sono anche parole – pare questo il nostro caso – che pare provengano da origini distanti, forse ignare l’una dell’altra, e nel tempo arrivano a coincidere nella forma e nel suono. Come quegli alberi che si toccano, vicendevolmente s’innestano e, indistinguibili da un certo punto in avanti, danno frutto comune e invecchiano come una sola pianta.
In fondo succede proprio questo agli uomini e a cosa vive.

Lo sguardo capace di escantare e incantare era pensato come arto prensile proteso all’esterno, un tentacolo dell’anima capace di afferrare e colpire, di uscire dall’occhio proiettandosi fino a posarsi sulla cosa guardata, fino a toccarla, talvolta fino a ricondurla a sé. Di questa facoltà attiva resta traccia nel deposito delle parole arrivate fino a noi, dentro alcuni modi colloquiali così abituali da sfuggire all’attenzione; si dice, infatti: cogliere un dettaglio, afferrare con lo sguardo, accarezzare/ferire con lo sguardo, prendere visione, posare gli occhi, un colpo d’occhio, uno sguardo penetrante. Ne resta traccia anche nel malocchio, nello sguardo che offende.

Lo sguardo, che chiedeva misura e disciplina, nel tempo divenuto solo attività riflessiva, come pellicola impressa dalla luce, e sempre più sguardo interiore, racconta una fisicità dei sensi oggi sempre più staccati dal mondo, introiettati, rivolti verso l’interno, anch’essi traccia di una strada progressiva votata alla disincarnazione.

Guardare e sguardo, sguardare e guardo: le ultime due parole non si usano, ma avrebbero una loro legittimità. Guardare è più di vedere, è mettere a fuoco; ma poiché la lettera s- posta come prefisso (così come talvolta anche con- e per-) può avere valore intensivo e rinforzare la parola che precede, allora sguardare è guardare con maggiore attenzione, con intenzione. Se per dire l’atto del vedere bastano vista e visione, al guardare può corrispondere il guardo, e allo sguardo lo sguardare 


Autore

Massimo Angelini

Zappo le parole per seminare idee.

Saggista, editore, fabbricante di lunari: ho curato ricerche e scritti dedicati alla storia delle mentalità, ai processi di formazione delle comunità locali fra antico regime ed età contemporanea, alla tradizione rurale, alla cultura della biodiversità, al sacro e alla dimensione dei simboli.

Coltivo la casa editrice Pentàgora: www.blog.pentagora.it

Sono autore di Ecologia della parola (Pentàgora 2020, II edizione)

Ho amato leggere Pavel A. Florenskij, Ivan Illich, James Hillman, Giuseppe Lisi, Christos Yannaras.

 

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