DIFFERENZA

01 Gennaio 2022 Etica e tecnologia
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Ma che cosa significa “differenza”? Il termine risale al latino “differre”, portare qua e là, e all’antico italiano “avere qualcosa di diverso”. Ci sono molti modi di differire: fisicamente (l’uomo dalla donna, a cui possiamo aggiungere l’archetipo onirico dell’ermafrodita – l’uomo-donna – oggi diventato carne grazie alla chirurgia), ma le differenze fisiche si presentano in un numero molto minore rispetto alle differenze culturali e soprattutto psicologiche; la differenza di opinioni, da sola, non è classificabile, né quella dei punti di vista o delle concezioni.

[dif·fe·rèn·za]

In Italia si discute in questi mesi di un disegno di legge contro la transomofobia il cui primo firmatario è il deputato Alessandro Zan. L’argomento non è tale da poter essere recintato in due cartelle Word, come dimostra il fiume d’inchiostro che si sta riversando sui giornali. Vorrei tuttavia estrapolare dal dibattito una frase che, ai miei occhi, riveste un enorme significato etico, superiore, nella scala dei valori, alla problematica contingente e molto emotiva della cosiddetta identità di genere. Mi riferisco a quanto dichiarato da Titti Di Salvo, deputata del Partito Democratico, al quotidiano Il foglio in data odierna (7 maggio 2021). Ecco il testo:

«Io sono nata e cresciuta nella cultura della differenza, per me la lotta contro le discriminazioni ha un senso proprio perché punta a valorizzare ciò che ci rende diversi, non uguali».

L’articolo 3 della Costituzione italiana recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 237 c. 148 c. 151 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 819], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo testo rappresenta solo l’ultima tappa di un lungo cammino che parte dalla Rivoluzione inglese, contempla la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, e sfocia nella successiva solenne “dichiarazione universale dei diritti umani” dell’Assemblea dell’ONU del 1948 (parallela alla nascita della nostra Costituzione). Un cammino lungo e tormentato, attraversato da contraddizioni (i padri fondatori della democrazia americana e della dichiarazione d’indipendenza del 1776, che contemplava anche l’uguaglianza “di tutti gli uomini”, furono, com’è noto, anche proprietari terrieri e quindi schiavisti); e parlo di un cammino nel senso che c’è un punto di partenza al quale possiamo guardare per poter affermare che le cose oggi sono migliori che nel passato, e sono migliori anche grazie alla cultura occidentale, che tale cammino ha segnato.

E tuttavia, il movimentismo dei nostri tempi ha generato un comune sentire slegato da questo cammino, movimentismo che, come afferma l’onorevole Di Salvo, antepone le differenze al principio d’uguaglianza (valorizzare ciò che ci rende diversi, non uguali). Distinguersi è il nuovo imperativo, in un movimento centrifugo che ha come effetto di disperdere la socialità in una galassia di collettività separate e vaganti in una globalità indistinta e senza centro. Non dimentichiamo che la lotta delle suffragette per la parità dei diritti civili delle donne, o quella degli afroamericani all’epoca di Martin Luther King avevano come scopo l’integrazione di tutti i cittadini sotto un principio di partecipazione e di uguaglianza, e di pari dignità, nella cosa pubblica democratica, in una direzione centripeta opposta a quella attuale.

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Ma che cosa significa “differenza”? Il termine risale al latino “differre”, portare qua e là, e all’antico italiano “avere qualcosa di diverso”. Ci sono molti modi di differire: fisicamente (l’uomo dalla donna, a cui possiamo aggiungere l’archetipo onirico dell’ermafrodita – l’uomo-donna – oggi diventato carne grazie alla chirurgia), ma le differenze fisiche si presentano in un numero molto minore rispetto alle differenze culturali e soprattutto psicologiche; la differenza di opinioni, da sola, non è classificabile, né quella dei punti di vista o delle concezioni. Un conto quindi è essere diverso, in modo visibile e indiscutibile, altro è rivendicare una diversità che si fonda esclusivamente su un proprio modo di sentire che non è sindacabile ma neppure certificabile. L’ideale dell’uguaglianza perseguito dalla nostra civiltà, per diventare legge universale, ha dovuto basarsi su alcuni fatti riconoscibili, tali da non dare luogo ad alcun arbitrio interpretativo: prima la diversità di “razza” (mi scuso per il termine), ovvero di colore della pelle, di lingua e di cultura; poi la diversità morfologica di genere. Per poter essere “riconosciuti” malgrado la propria diversità, occorre che prima di tutto tale diversità sia esposta in tutta la sua evidenza, che non sia semplicemente il frutto di un sentimento soggettivo (sono un uomo ma mi sento donna) o di un comportamento privato (la scelta del partner sessuale): in entrambi questi casi, la diversità è un sentimento personale paragonabile a tutti gli altri sentimenti, preferenze, gusti, modi di sentire, atteggiamenti, pulsioni o fobie, desideri e quant’altro. Attenzione: questi “sentimenti” (nel senso originario del termine, come modi di sentire le proprie affezioni) fanno parte dell’umano, non sono disgiungibili dalla nostra personalità e devono poter godere conseguentemente del principio di uguaglianza. Rispetto l’uguaglianza di tutti nel momento in cui rispetto i sentimenti di tutti.

Cosa sta accadendo, allora? Sta accadendo che il principio di uguaglianza è esploso, e ogni “diversità” è uscita dal concetto di humanitas per farsi valore assoluto. Oggi, niger sum, o mulier sum o homosexualis sum (non so se è corretto) viene prima di Homo sum (humani nihil a me alienum puto); la propria “diversità” è un valore superiore alla propria appartenenza al genere umano, come se la comune umanità in qualche modo ferisse la propria autoidentità. Una conseguenza immediata, è ritenere che essere insultato/a “in quanto omosessuale” sia peggio (giuridicamente) che essere insultato/a in quanto persona, col che separa l’”omosessuale” dalla totalità degli esseri umani per farne un soggetto a sé stante. Tutto ciò, a me pare, contrasta con lo spirito della nostra Carta e con l’aspirazione universale all’uguaglianza che ha reso un po’ più accettabile la nostra storia. La cosa disperante, è che a sostenere una tale aberrazione etica sia una parlamentare, rappresentante di quel potere legislativo incaricato di applicare i principi della Costituzione.

 

Autore

Maurizio Chatel

Nel 2008 è entrato nell’associazione Phronesis per la consulenza filosofica.

Come consulente volontario ha lavorato per il Comune di Torino, aprendo uno sportello d’ascolto per i Care Givers a cui si sono rivolte centinaia di persone.

L’iniziativa è poi stata chiusa dal Comune stesso per motivi burocratici mai del tutto chiariti.

 

 

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