MANUTENZIONE

01 Gennaio 2022 Etica e tecnologia
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Dal latino medievale manutentio -onis, derivazione della locuzione manu tenere. “Il mantenere in buono stato; in particolare, insieme di operazioni che vanno effettuate per tenere sempre nella dovuta efficienza funzionale, in rispondenza agli scopi per cui sono stati costruiti, un edificio, una strada, una nave, una macchina, un impianto, ecc. Nel linguaggio giuridico, il mantenere o ristabilire nella piena efficienza il possesso di un immobile o di un diritto reale su un immobile altrui.”
Nel suo significato comune, “manutenzione” è una parola che descrive l’azione di un soggetto su un oggetto. Un rapporto sicuramente di cura, volta a prolungare la vita dell’oggetto cui è indirizzata, ma di una cura subita passivamente e inscindibile dal possesso.

[ma·nu·ten·zió·ne]

Nella sua etimologia, però, “manutenzione” rimanda al verbo “mantenere”, cioè tenere con la mano. Come una parola-matrioska, è capace di contenere al suo interno più significati: da “mantenere”, cioè reggere o sorreggere, ma anche fermare o restare in equilibrio, a “tenere”, nel senso di conservare, custodire, avere a cuore, avere con sé; fino a “mano” che, spostandosi dagli oggetti alle persone, diventa il cuore di una particolare manutenzione “artigianale”, quella del “fatto a mano” dove le mani diventano due perché ci si tiene per mano, in un intreccio che allo stesso tempo annulla e ridefinisce i confini tra il sé e l’altro: quando teniamo qualcuno per mano, dopo un po’, sentiamo la sua mano come fosse nostra, anche se sappiamo che non lo è.

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É la manutenzione degli affetti, il luogo dell’ “aver cura” – diverso dal possesso del “prendersi cura”, come ci ha insegnato Heidegger – che lascia l’altro indipendente e capace di aver cura di sé nella relazione. Ma è anche il luogo in cui ci si deve mantenere continuamente in equilibrio, tra responsabilità, bisogni e desideri, propri e dell’altro; un equilibrio fatto di reciprocità, di partecipazione condivisa. In questo tipo di manutenzione, tenere con la mano significa anche tenere a cuore e tenere a mente, misurando il trattenere e il trattenersi, perché farsi tenere per mano da qualcuno è diverso dal mettersi nelle sue mani.

Ogni manutenzione ha i suoi tempi, ma in quella degli affetti il tempo è scandito dal “mano a mano”, che segna e disegna un percorso da fare un passo dopo l’altro. In questo cammino fatto di soste per riprendere fiato, compromessi, ritmi da trovare, andature da coordinare, incontreremo sentieri interrotti, ed è proprio lì che nella parola “manutenzione” scopriamo un lato b – meno secondario di quanto pensiamo – che ne traccia la direzione contromano ma senza trasgredire nessuna regola. Quella degli affetti è una manutenzione che non usa pezzi di ricambio in vista di una dovuta efficienza e va contro il senso comune di quel “mantenere in buono stato”, perché si rivolge al soggetto, guarda all’altro che tengo per mano sapendo che non appartiene a me.

Prendere per mano e tenere quella mano equivale a costruire un ponte: a volte toccherà a noi attraversarlo fino in fondo, in direzione dell’altro; ma altre volte dovremo imparare ad aspettare chi lo attraverserà fino a noi. Su quel ponte poi succederà che ci incontreremo a metà strada, sfidando quel senso di vertigine che ogni attesa o sguardo sul vuoto porta con sé. Un ponte, però, non è solo un passaggio che unisce un di qua e un di là. È anche la misura di una distanza, qualche volta necessaria o semplicemente “geografica”.Esiste una “giusta” distanza? 

Ce lo siamo chiesto non sapendo quanto forte stringere quella mano, in bilico tra il tenere che diventa “trattenere” e il lasciarla del tutto, rischiando di abbattere per sempre quel ponte. La risposta in un certo senso ce l’ha suggerita Wittgenstein mostrandoci il lato ludico del linguaggio: il “mantenere” non può pensarsi senza il “manutenere”, e così, quando qualcosa si inceppa, non sembra funzionare – come è normale che accada nelle relazioni che sono incontri di differenze – se invece di sostituire un pezzo ne aggiungiamo uno in più, quella distanza che proviamo a mantenere cercando di renderla “giusta”, diventa una distanza da “manutenere”, che ha in sé il tempo del “mano a mano” e il tenere insieme del “tenerci”, di ciò che è importante.Il lato b della manutenzione ne alza la temperatura: da azione “fredda” sull’oggetto da riparare, mantenere efficiente, e comunque destinato, in una società consumistica come la nostra, ad essere prima o poi sostituito da uno nuovo e più performante, se rivolta alle persone, alle relazioni, diventa manutenzione erotica, una dedizione capace di alimentare il desiderio di ciò che, pur facendo in qualche modo parte di noi, non sarà mai un nostro possesso definitivo.

É quel desiderio durevole che appartiene alla passio

ne e non si arrende alla nostra condizione di esseri finiti. Un desiderio in cui ritroviamo l’eco di ogni gesto di cura volto a far durare le cose un po’ di più, a non gettare via quello che si può ancora aggiustare, che può ancora funzionare. Nel tempo dell’ “usa e getta”, del desiderio indotto, privo di soggetto desiderante – perché è il desiderio di tutti e quindi di nessuno – dedicarsi alla manutenzione degli affetti ha qualcosa di rivoluzionario, dal momento che mantenere un legame, qualunque sia la sua natura, è di gran lunga più difficile che iniziarlo o mettergli fine. Siamo attratti dal nuovo, da tutto ciò che è privo di imperfezioni, di segni del tempo. Il nuovo ci sorprende, ma ha sempre una scadenza. La manutenzione, invece, mette il nuovo in qualcosa cui ci siamo abituati, perché è un’arte della scoperta: di chi siamo noi e di chi è l’altro per noi.

La manutenzione che facciamo su noi stessi spesso è molto più simile a quella che facciamo sugli oggetti, lasciando fuori il dentro. Non sappiamo tenere noi stessi per mano. Ecco perché l’altro è fondamentale: ci ricorda l’importanza della manutenzione. E ce lo ricorda facendo combaciare la sua mano con la nostra.

Autrice

Maria Luisa Petruccelli

Amo le parole (e il loro lato b) per la capacità che hanno di integrare i miei pensieri.

La mia nostalgia ha un suo posto che è il posto delle fragole.

Laureata in filosofia alla Statale di Milano e specializzata in counseling filosofico e pratiche filosofiche, sempre a Milano, progetto, realizzo e conduco corsi e laboratori di pratiche filosofiche in diversi contesti, e di Philosophy for Children nelle scuole.

Sono co-autrice del libro “Le Pecore Filosofe: dove sono io?” (Esperidi 2015), e di “Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi” (Feltrinelli, 2019, a cura di U. Galimberti).

Curo la rubrica di filosofia “La posta del Cigno Nero” su Gli Stati Generali.

 

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