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Mai perdere il difetto umano di pensare, anche sulla tecnologia (Vincenzo Moretti)

Mai perdere il difetto umano di pensare, anche sulla tecnologia (Vincenzo Moretti)

21 Gennaio 2021 Il sociologo digitale
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Le tecnologie riarredano il nostro mondo, ci “costringono” a cambiare le nostre abitudini, a fare i conti non solo con le possibilità ma anche con l’incertezza che ci assale ogni qualvolta il mondo intorno a noi, quello a cui ci eravamo abituati, cambia. A livello sociale gli effetti in taluni casi possono essere paradigmatici, penso per esempio a quello che è successo con l’avvento dell’iPhone e ancora prima dell’iPod, in altri doloroso, in questo caso viene facile il riferimento alle donne e agli uomini che vedono minacciato dalle tecnologie il posto di lavoro, naturalmente con le mille altre possibilità che ci sono in mezzo. In ogni caso non ne possiamo fare a meno: le tecnologie sono parte di quello che pensiamo, di quello che facciamo, di quello che siamo e del mondo che abitiamo. Dopo di che la grande questione che rimane aperta è, a mio avviso, il livello di consapevolezza con cui le utilizziamo, ma su questo immagino che avremo modo di tornarci su.

L’era che viviamo è digitale e molto tecnologica. È mediata tecnologicamente, dominata dai dati, dall’automazione, dalle macchine, dalle piattaforme, dagli assistenti personali e dalle intelligenze artificiali. Una società digitalmente modificata, per essere conosciuta, letta, interpretata e compresa suggerisce il ricorso a nuovi concetti, nuovi metodi investigativi e approcci sociologici, nuove definizioni, con l’obiettivo di investigare con maggiore accuratezza le interazioni tra dati, persone e tecnologie. 

L’analisi dei fenomeni sociali dell’era digitale obbliga a prestare attenzione alla proliferazione delle tecnologie e dei media digitali nella vita delle persone e nei loro comportamenti. Sempre nella consapevolezza che approcci, concetti e categorie usate nelle pratiche sociologiche, oggi come ieri, possano influenzare la ricerca stessa. La sociologia può oggi fornire un grande contributo al dibattito in corso sugli effetti della tecnologia e può fornire una visione alternativa (non tutti i dati possono essere ridotti a dati comportamentali) su come oggi possiamo conoscere la società, anche attraverso i dati e gli strumenti digitali (smartphone, piattaforme, APP, ecc.) che la caratterizzano.

Di tutto questo abbiamo deciso di parlarne con alcuni sociologi (sociologi digitali?), con l’obiettivo di condividere una riflessione ampia e aperta e contribuire alla più ampia discussione in corso. 

In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto con Vincenzo Moretti, sociologo, narratore, founder #lavorobenfatto.


Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica che viviamo? Qual è il suo rapporto con le tecnologie e quale l’uso che ne fa nelle sue attività lavorative (sociologia digitale)? 

Buongiorno a lei. Di tanti uomini che sono, che siamo, come scrive nella sua meravigliosa poesia Pablo Neruda, il primo è sicuramente quello che legge, che studia e che scrive. Le persone, il lavoro, la narrazione e le relazioni sono i muri maestri della mia vita e del mio lavoro.

Sono il fondatore di #lavorobenfatto, che oggi è un movimento culturale, un format, un manifesto, un magazine, un blog su Nòva Il Sole 24 Ore, un approccio che racconto in giro per l’Italia e un libro, Il lavoro ben fatto. Che cos’è, come si fa e perché può cambiare il mondo.

Sono tra i fondatori di Media Civici, sono membro del Comitato Scientifico di Fare Digitale, collaboro con la Cattedra di Comunicazione e Culture Digitali della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Suor Orsola Benincasa. Insegno a pensare, a risolvere problemi, a credere in sé stessi e nelle proprie possibilità, a vedere le opportunità, coglierle e moltiplicarle. Infine, mi piace dire di me che desidero quello che ho e continuo ad avere voglia di cambiare il mondo, ed è vero.

Le tecnologie riarredano il nostro mondo, ci “costringono” a cambiare le nostre abitudini, a fare i conti non solo con le possibilità ma anche con l’incertezza che ci assale ogni qualvolta il mondo intorno a noi, quello a cui ci eravamo abituati, cambia.

A livello sociale gli effetti in taluni casi possono essere paradigmatici, penso per esempio a quello che è successo con l’avvento dell’iPhone e ancora prima dell’iPod, in altri doloroso, in questo caso viene facile il riferimento alle donne e agli uomini che vedono minacciato dalle tecnologie il posto di lavoro, naturalmente con le mille altre possibilità che ci sono in mezzo.

In ogni caso non ne possiamo fare a meno: le tecnologie sono parte di quello che pensiamo, di quello che facciamo, di quello che siamo e del mondo che abitiamo. Dopo di che la grande questione che rimane aperta è, a mio avviso, il livello di consapevolezza con cui le utilizziamo, ma su questo immagino che avremo modo di tornarci su.

 

La tecnologia accelera in ogni ambito della vita sociale, produce cambiamenti dirompenti (disruptive) nelle vite delle persone. Ne condiziona i comportamenti e i modi di percepire, conoscere e interagire con le molteplici realtà (fattuale, virtuale, digitale, ecc.) esperienziali individuali e sociali. Tutto ciò rappresenta una grande sfida per le pratiche sociologiche e la sociologia come disciplina. Lei cosa ne pensa? Come descriverebbe una realtà nella quale il web e i media sociali sono diventati un’infrastruttura sociale (mobilità, auto senza autista, Internet degli oggetti, intelligenze artificiali, ecc.) diffusa come lo sono da tempo l’elettricità e i media tradizionali? Non crede che per comprendere le trasformazioni in atto servano nuovi approcci, nuove metodologie e pratiche? 

Qui partirei dai una cosa che vale per la sociologia, vale per la filosofia e vale un po’ per tutte le discipline e gli ambiti di ricerca: bisogna usare le parole nel modo giusto.

Il riferimento non è solo al grande Ludwig Wittgenstein quando scrive, nelle prime pagine delle sue “Ricerche filosofiche”, che “[…] ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola. È l’oggetto per il quale la parola sta”,  penso anche a Eduardo De Filippo quando dice “c’è la parola giusta, usiamola, sennò mi confondo”, o a Rama che in Matrix Revolution spiega a Neo che “amore” non è un’emozione umana ma una parola e poi aggiunge che “l’importante è l’interazione che la parola comporta”. Tutto questo anche per dire che la parola “nuovo” mi crea sempre più spesso un certo disagio, nell’uso quotidiano sembra quasi che basta aggiungere “nuovo” a una cosa vecchia perché questa diventi per ciò stessa “nuova”.

Nel corso della mia attività di studio e di ricerca a un certo punto sono arrivato alla conclusione, semplice ma forse non banale, che le tecnologie, tutte le tecnologie, non sono né buone e né cattive, né giuste e né sbagliate, dipende da come le usiamo. Ho combinato questo piccolo pensiero con il lavoro ben fatto ed ho ideato “A scuola di lavoro ben fatto, di tecnologia e di consapevolezza”, una metodologia, un progetto e una pratica educativa che è adottata da oltre 10 anni in un po’ di scuole di ogni ordine e grado in diverse città d'Italia. La pratica, i docenti, i ragazzi, le famiglie testimoniano che funziona: tanti contenuti differenti e un’unica metodologia, dalla prima elementare all’università.

Per tornare all’uso consapevole delle tecnologie, l’esempio che mi piace fare è quello che riguarda il coltello e la rete, che è diventato anche il titolo di un libro uscito a fine 2015 con un sottotitolo che dice un mondo, Per un uso civico delle tecnologie digitali.

Vede, un coltello lo possiamo usare per tagliare il pane, che è un atto meraviglioso, o per uccidere una persona, che è un atto orrendo, oltre che criminale. E lo stesso si può dire della rete, grazie alla quale possiamo comunicare, studiare, lavorare a distanza, informarci, creare campagne di solidarietà, fare impresa, e per colpa della quale possiamo ritrovarci alla mercé di fake news, di stalker di ogni tipo, di un abbassamento pauroso della nostra capacità di attenzione,  persino di un aumento dell’aggressività e di alcune forme di estremismo che Cass Sunstein aveva messo in luce in un bellissimo libro arrivato in Italia nel 2003, Republic.com e che nelle recentissime vicende che hanno portato all’assalto del Congresso negli Stati Uniti sono tornate come mai prima alla ribalta.

Ancora una volta semplicemente ma non banalmente: possiamo ragionevolmente affermare che è merito del coltello se taglia il pane e che la colpa è sua se uccidiamo una persona? Non possiamo, eppure nel lessico comune quante volte sentiamo ripetere che un determinato social fa male, che è colpa di internet, che l’intelligenza artificiale è pericolosa, che le macchine domineranno gli uomini? E sia chiaro che non sto dicendo che in assoluto in tutto o in parte alcune di queste cose non possano accadere, sto dicendo solo che dipende da noi, dall’uso che facciamo del coltello, della rete, delle macchine e dell’intelligenza artificiale. Per ora è così, e anche quello che succederà dopo dipenderà sempre da noi umani. 

 

Come è cambiato l’ambito della sua attività nell’era digitale? La tecnologia ha cambiato mente e corpo, quest’ultimo trasformato da protesi e tecnologie indossabili, ma anche in termini simbolici fino alla sua negazione. La realtà si è fatta multipla, fatta di realtà virtuali e parallele, tanti nonluoghi (M. Augè) nei quali si vive un continuo presente (hic et nunc), spesso superficialmente, attraverso superfici di uno schermo, e in velocità. Ne deriva un affanno esistenziale fatto di solitudine, individuale e sociale, di perdita di senso. Lei cosa ne pensa? Cosa serve oggi per alimentare una presa di coscienza sulla contemporaneità e una lettura critica delle nuove realtà digitali? Che funzione ha in tutto questo la sociologia? Ha senso una sociologia digitale e in cosa si distinguerebbe dalla sociologia classica? 

La sua domanda tocca a mio avviso un aspetto fondante del nostro rapporto con la contemporaneità.

Vincenzo Moretti)Al tempo di internet e della blockchain, della IoT e dell’intelligenza artificiale se, come specie umana, vogliamo mantenere un ruolo da protagonisti, non possiamo fare a meno di ripensare al nostro rapporto con la tecnologia, di cambiare paradigma, di mettere in discussione modi di essere e di fare che fino ad oggi ci sono sembrati inevitabili. Mi viene in mente una poesia di Bertolt Brecht, Generale, l’ultima strofa recita così: “Generale, l’uomo fa di tutto. Può volare e può uccidere. Ma ha un difetto: può pensare”. Ecco, a questo proposito, il mio piccolo messaggio nella bottiglia riguarda la necessità di non perdere mai il “difetto” di pensare. E aggiungo che quando leggo che la nostra soglia di attenzione media, 8 secondi, è più bassa di quella dei pesciolini rossi, mi sembra molto meno scontato di quanto sembri, e lo stesso accade quando penso a quelli che mettono like a un contenuto senza leggerlo, ascoltarlo o guardarlo, o a quelli che prendono posizione o assumono un punto di vista che non ammette repliche sulla base di una fake news, che, come sa, sono tanti. 

È probabile che ci sarà un diverso equilibrio dei poteri tra gli umani e le macchine, ma tra il futuro di Matrix e quello di Takumi io preferisco il secondo, senza contare che in mezzo, nella zona di confine tanto cara a Jean Baudrillard, ci stanno tante possibilità.

Come sappiamo anche grazie a Richard Sennett e al suo “L’uomo artigiano”, c’è una connessione forte, intima, tra fare e pensare; come ho raccontato nel corso del progetto “Da 99 a cento”, facendo si fa teoria, e pensando si fa pratica, non vale solo per i filosofi o i sociologi, vale anche se decidi di imparare a fare la pizza, come è capitato a me. E tutto questo ha a propria volta a che fare con la nostra cassetta degli attrezzi, con la destrezza, la maestria, la cura con cui maneggiamo i nostri ferri del mestiere.

Per me è così che ricostruiamo senso e significato, tenendo assieme fare e pensare, facendo bene quello che dobbiamo fare, qualunque cosa dobbiamo fare, non perché dobbiamo avere un premio ma perché è così che si fa, avendo un rapporto consapevole con le tecnologie, tutte le tecnologie, quelle analogiche e quelle digitali, sapendo che se usiamo in maniera sbagliata il coltello ci possiamo tagliare, e con il martello ci possiamo ammaccare un dito, ma se usiamo in maniera sbagliata l’intelligenza artificiale possiamo ritrovarci schiavi, degli algoritmi e dei loro padroni, e naturalmente non è la stessa cosa.

Sì, direi che per me il futuro passa necessariamente anche da qui, dal sapere e dal saper fare, dalla capacità di mettere la testa, le mani e il cuore in quello che pensiamo e facciamo, dalla consapevolezza che non possiamo smettere di pensare, fare, comunicare, partecipare.

Sul resto, immagino che a questo punto lei se lo aspetti, le rispondo che no, secondo me non serve una sociologia digitale, basta e avanza la sociologia, sono per approccio interdisciplinare alla conoscenza, un convinto assertore delle connessioni e delle interdipendenze. Nessuna disciplina è un’isola, mi verrebbe da dire giocando con la splendida poesia di Donne, l’ultima cosa di cui avverto il bisogno è l’iper-specializzazione. 

 

Viviamo tempi alla fine dei tempi, siamo testimoni di un salto paradigmatico verso scenari futuri imprevedibili, che per alcuni potrebbero essere distopici. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sui loro effetti. Qual è la sua visione dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe, secondo lei, essere fatta, da parte di sociologi, antropologi, filosofi e scienziati, ma anche di singole persone? 

Secondo me se per cominciare sociologi, antropologi, filosofi, scienziati e persone comuni facessero propria l’idea di Edgar Morin che la testa ben fatta è meglio della testa ben piena sarebbe già un bel passo avanti.

E poi c’è questa ossessione della velocità che secondo me dovrebbe essere sottoposta a un’attività di decostruzione degna del grande Derrida. Provo a dirlo in maniera sintetica e per forza di cose incompleta: secondo me al tempo della società 4.0, dell’intelligenza artificiale e della blockchain il concetto di velocità ha esaurito la propria spinta propulsiva, ha perso il suo valore generale, è diventato più un problema che una risposta, ci rende vulnerabili nei confronti delle macchine, toglie significato, svuota e decontestualizza il nostro tempo invece di liberarlo.
Quello che intendo dire è che il passaggio dall’internet dell’informazione all’internet del valore non può riguardare soltanto un po’ di giganti del pensiero, della finanza e della tecnologia insieme a un po’ di vassalli, valvassini e valvassori, mentre tutti gli altri fanno la parte dei servi della gleba, incapaci di pensare, con i pollici superveloci, l’attenzione media di 8 secondi di cui abbiamo già parlato, le frasi smozzicate e sgrammaticate pubblicate sui social e la speranza di diventare famosi come Chiara Ferragni.

Come lei stesso sembra suggerire con la sua domanda, non possiamo rassegnarci a vivere un tempo senza tempo, per questo abbiamo bisogno di teste ben fatte, di lavoro ben fatto, di consapevolezza, di socialità, di profondità.
La società orizzontale senza profondità è soprattutto una grande mistificazione. Se posso dirlo così, in definitiva la mia è una tesi a sostegno della possibilità di combattere il declino verso l’uomo senza tempo e senza qualità a cominciare dalle piccole cose su su fino alle grandi.

È venuto il momento di ripensare al nostro rapporto con il tempo, con la velocità, anche con il consumo, anche se cui non abbiamo il tempo, per l’appunto, di approfondire quest’ultimo aspetto. Bisogna ripensarci su nel senso caro a Herbert Butterfield, secondo il quale “di tutte le forme di attività mentale la più difficile da indurre […] è l’arte di adoperare la stessa manciata di dati di prima, ma situarli in un nuovo sistema di relazioni reciproche fornendo loro una diversa struttura portante; il che significa praticamente ripensarci su”. A partire, lo voglio ripetere, anche per alleggerire un po’ la mia risposta, dalle piccole cose, penso per esempio a quella che in più occasioni ho definito la sindrome del chirurgo in sala operatoria, quello che ci fa comportare come se fossimo convinti che se non leggiamo e non rispondiamo immediatamente a un sms, un tweet, un whatsapp c’è un paziente che muore, non ne parliamo se dimentichiamo a casa il nostro smartphone. Nella vita vera non funziona affatto così, nella vita vera ci sono i danni che possiamo causare a noi stessi e agli altri quando per esempio chattiamo mentre guidiamo l’automobile. 

 

Per molti di noi, cresciuti nell’era definita della postmodernità, il pensiero di Zygmunt Bauman è diventato un punto di riferimento solido e costante. Chi non ha riflettuto sulla modernità liquida, sul bisogno di comunità e sulla solitudine del cittadino postmoderno? Le sue riflessioni hanno obbligato a interrogarci anche sulle tecnologie e le loro rivoluzioni, sul loro ruolo nella contemporaneità e i loro effetti. In una realtà nella quale siamo sempre più online, prigionieri dentro mondi paralleli e virtuali è forse arrivato il momento di interrogarsi criticamente sul concetto di liquidità. La realtà attuale, anche per effetto del coronavirus, sembra essere diventata pesante. La realtà fattuale ha preso l’avvento su quella virtuale, si è solidificata facendo emergere tutto ciò che di reale esiste: precarietà, povertà, disuguaglianze, solitudine, emarginazione, ansia e malattie psichiche. Lei cosa ne pensa? Sono ancora valide le categorie di Bauman o non dovremmo forse rileggerle e modificarle alla luce della nuova realtà pandemica? 

Il contributo di Bauman alla sociologia e alla comprensione dell’età contemporanea è stato davvero immenso, ricordo che quando nei primi anni di questo millennio arrivò nelle librerie “La società sotto assedio” lo divorai, a mio avviso quel libro rimane ancora oggi una delle sue opere più belle e visionarie. Senza nulla togliere a Bauman e alla feconda originalità del suo pensiero, ma solo per ritornare sull’importanze delle connessioni che collegano le idee, le visioni e le possibilità - almeno in un senso “siamo tutti nani sulle spalle dei giganti” - mi piace ricordare che già Marx ed Engels, nel loro famoso Manifesto, scrivevano che a un certo stadio del processo capitalistico “tutto ciò che è solido svanisce nell’aria”, concetto che ha dato il titolo al saggio più famoso di Marshall Berman e che attraverso lui è arrivato a Bauman.

Nel corso delle mie conversazioni con un giovane e visionario design thinker e narratore, Giuseppe Jepis Rivello, ho ricordato proprio Marshall Berman quando parla di “un mondo in vertiginosa accelerazione, che però è sempre sul punto di distruggere tutto ciò che amiamo”. Un mondo nel quale, ho aggiunto, tutte le strutture, le organizzazioni, le agenzie formative tradizionali - penso alla Chiesa, allo Stato, ai partiti, ai sindacati, alla famiglia - vivono processi di trasformazione e di crisi senza precedenti, sembrano smarrire i propri riferimenti culturali e sociali.

Penso che il passaggio dal mondo degli atomi a quello dei bit sia anche questo, la dissoluzione della solidità delle strutture, non a caso Baumann ha definito questa società “liquida”.

Nel tempo in cui ciò che è solido si scioglie nell’aria, come dice Berman, o della società liquida, come sostiene Baumann, a mio avviso quella che Rivello ha definito “comunità sociale” potrebbe essere lo spazio in cui rimettere insieme le persone, le idee, le possibilità, il cambiamento, nell’ambito della dimensione politica. La comunità come contesto in cui ridefinire e ricostruire la dimensione sociale, la dimensione politica, la dimensione del fare e del pensare condiviso.

Sta qui a mio avviso almeno una parte della risposta alla sua domanda, nella costruzione di comunità più consapevoli, di luoghi fatto di donne e uomini differenti da molteplici punti di vista che però condividono una visione sociale, politica nel senso più proprio di “ciò che attiene alla polis”.

Il volume nel quale abbiamo pubblicato queste nostre chiacchiere di bottega lo abbiamo intitolato “Parole Forgiate” e mi dà lo spunto per un’ulteriore considerazione sul bisogno di tornare a forgiare le nostre parole, perché, come dice nel libro Giuseppe, “le parole le puoi forgiare veramente solo se puoi spendere la tua vita con quelle parole, battendoci sopra, modellandole, aggiustandole di volta in volta, accendendo il fuoco e mettendoci le mani sopra”. 

 

 

Secondo Franco Ferrarotti la pandemia non ha solo dimostrato la sua forza ma anche che il futuro non è della tecnologia. Quest’ultima ha favorito la globalizzazione ma ad averla realmente attuata è stata il coronavirus. L’incertezza che ne è derivata, su scala mondiale, non può trovare risposte nella tecnologia ma solo in una umanità capace di riconoscere i propri limiti. Grazie alla pandemia oggi c’è la possibilità di ripensare il futuro a misura d’uomo per rifondarlo su categorie nuove, non necessariamente quelle emerse in questa era digitale fatta di volontà di potenza, funzionalismo, narcisismo esagerato, visibilità ma anche servitù e complicità con le macchine sulle quali abbiamo fatto eccessivo affidamento fino a diventarne dipendenti. Oggi più che mai serve ciò che le macchine non hanno: progettualità, volontà, responsabilità, consapevolezza, empatia, solidarietà, senso della comunità e iniziativa umana. Lei cosa ne pensa. Che riflessioni le suggeriscono queste idee di Ferrarotti? Cosa fare per un futuro diverso? 

Sul fatto che il futuro non sia della tecnologia sono assolutamente d’accordo. Il punto è che come specie umana lasciamo spesso a desiderare, e questo non gioca a nostro favore. Io sono convinto che c’è sempre la possibilità di migliorare e di cambiare, però per farlo dobbiamo essere ancora una volta consapevoli e rigorosi. Secondo me, la definizione più utile di noi umani in questo contesto resta quella dell’agente Smith in Matrix: “[…] Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce”. Nel film, l’agente macchina conclude che noi umani siamo una piaga, come i virus, e che le macchine sono la cura.

Ora come può immaginare personalmente non penso che le macchine siano la cura, ma è vero che spesso ci comportiamo come i virus, talvolta anche  virus bugiardi, per esempio quando facciamo promesse che sappiamo che non manterremo, come quando siamo presi dalla paura del covid e cominciamo a dire che “il cambiamento sarà epocale”, che “niente sarà più come prima”, salvo fare peggio quando la paura è passata.

Fare bene le cose è anche la capacità di avere un rapporto diverso con il mondo che abitiamo e nel quale viviamo, che non è nostro, non ci appartiene. E questa capacità è direttamente collegata alla nostra consapevolezza - vede che torniamo sempre lì - alla nostra cultura, perché per essere umani nel senso pieno della parola abbiamo bisogno di cultura, di bellezza, di lavoro ben fatto, tutte cose che non stanno in natura,  perché lì si ritorna all’homo homini lupus di Plauto e Hobbes.
Cultura, bellezza e lavoro ben fatto che chiamano in causa educazione, fatica e impegno. In questo senso non c’è scampo, non è un lavoro che ciascuno può fare per sé.

Nel libro l’ho scritto così: “Bisogna unire i puntini, perché da soli non si va da nessuna parte. Bisogna pensare e fare, con pazienza e lavoro, collegando nodi e reti fatti di persone, di organizzazioni, di comunità, scambiando saperi e buone pratiche.” E più avanti: “Ci vuole un cambio di paradigma, per questo dobbiamo mettere insieme tutti i mattoncini possibili e immaginabili, da quello di una giovane ragazza come Greta a quelli di due grandi vecchi come Noam Chomsky e Pepe Mujica.”
Non è facile da fare, ma io nel mio piccolo cerco di stare sul punto, per esempio immaginando la blockchain del lavoro ben fatto, che per ora è una suggestione rimasta sul terreno delle idee, che come sa se restano tali, se non si tramutano in azioni, in fatti, sono soltanto un segnaposto, lasciano poca traccia di sé. Sto pensando anche di lanciare nei prossimi mesi un HackForSense per costruire a più teste e più mani queste possibilità, ma anche lì c’è parecchio lavoro da fare.

Sì, direi che la strada che abbiamo da fare per cambiare sul serio è decisamente impervia, in certi momenti più che una strada mi sembra un sentiero, però non abbiamo alternative, come direbbe il maestro Yoda “fare o non fare, non c’è provare”. Quello che è certo è che questa volta da sola, la nottata non passa. Bisogna che ci mettiamo in cammino. 

 

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Quali strumenti interpretativi e mappe sono necessari per comprendere il nostro essere sempre più online (in Rete)? In che modo la sociologia può oggi aiutare nel cogliere le nuove composizioni sociali (reti, comunità, tribù, gruppi, ecc.), nel cogliere le somiglianze e le differenze da esse emergenti, nell’interpretare le relazioni fattuali e quelle virtuali e come esse siano condizionate dal mezzo tecnologico? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale? 

La tecnologia non è mai stata neutrale, il suo possesso e il suo controllo ha da sempre contribuito a determinare i rapporti di potere nelle diverse società. Possiamo andare alla notte dei tempi e alla tecnica di scheggiatura mediante pressione inventata nella grotta di Blombos, in Sudafrica, almeno 75.000 anni fa, che permetteva di creare coltelli di pietra e punte di lancia molto più affilate, oppure pensare all’importanza delle tecnologie nella rivoluzione del neolitico, ma insomma anche senza andare così lontano, basta pensare a quello che ha significato possedere fucili quando i “nemici” erano minuti di archi e frecce, e poi alle mitragliatrici e ai cannoni fino alla bomba atomica.

Quello che voglio dire insomma è che questa storia non comincia con gli algoritmi, con internet e con l’intelligenza artificiale, quello che cambia, come lei ha giustamente messo in risalto, è il livello di pervasività con cui il potere e il controllo della tecnologia si esercita, che non riguarda più soltanto il corpo, ma la mente e il daimon, il codice dell’anima, come direbbe Hillman.

È un cambiamento di fase importante, se posso usare un’espressione forte e volutamente un po’ retorica direi che il potere tecnologici non ci vuole più morti, ci vuole servi, non ci vuole più cittadini, ci vuole consumatori; anche nell’ambito della sfera pubblica, sul terreno della politica, e qui ritorna la profezia di Sunstein, vuole che consumiamo un prodotto non che esercitiamo un diritto.

Quando ho deciso di aggiungere nella mia bio che “insegno a pensare” ho voluto sottolineare proprio questo bisogno di difendere questa capacità molto umana e molto in pericolo, il bisogno di educare e la sua condivisione, perché quando capita di incontrare un ragazzo e una ragazza seduti di fianco su un muretto alla fermata del bus che smanettano con lo smartphone, e di chiedere a lui perché invece di parlare con la ragazza sta con i pollici sulla tastiera e lui risponde “prof., ma io è con lei che sto parlando” significa che c’è un problema. E qui torniamo alla storia della soglia di attenzione, al pesciolino rosso, alla sindrome della sala operatoria, al bisogno imprescindibile di profondità e di consapevolezza. Il rischio è di vivere nel 2021 come nel 1984, quello di Orwell, e quello che è peggio di farlo senza neanche accorgercene.

Credo sia chiaro ma mi permetta di ribadire che tutto questo non ha niente a che fare con il rifiuto delle tecnologie; personalmente, senza i miei ferri del mestiere digitali mi sentirei finito, scrivo, comunico, insegno, scopro, leggo e faccio tante altre cose grazie ai bit e agli algoritmi. Il punto è sempre quello: sapere quello che si fa, avere con le tecnologie un approccio consapevole.

Mi permetta un’ultima considerazione a questo proposito. La mia esperienza sul campo dimostra che quando parliamo di tecnologia con i più giovani abbiamo persino un problema di lessico. Ho provato più volte a chiedere loro, parlo di platee di un centinaio di ragazzi in diverse città italiane, del Nord, del Centro e del Sud, di alzare la mano se associavano la parola tecnologia prima con parole come smartphone, come tablet, come computer e poi con parole come martello, come ago e come coltello; nel primo caso su 100 hanno alzato la mano  95 - 100 di loro, nel secondo 2 o 3. Altro esempio. A una ragazza, sempre di scuola media, nell’ambito di una esercitazione in cui avevo chiesto di scrivere su un foglietto tutte le tecnologie che vengono usate in famiglia, ho chiesto se lei quando si lavava i capelli se li asciugava con lo smartphone, e naturalmente mi ha risposto “no, prof.”; quando le ho domandato perché non ha scritto “asciugacapelli” mi ha risposto “lei ci ha chiesto di scrivere le tecnologie, quello è l’asciugacapelli”. Credo non ci sia bisogno di tornare a Wittgenstein e all’idea che le parole sono arnesi per renderci conto che abbiamo un problema. 

 

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo o guadagnando da una interazione umana con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici? 

R8. Le confesso che non ho letto i libri di Sherry Turkle e dunque la ringrazio, perché adesso potrò rimediare, cosa che farò molto presto. Detto ciò, aggiungo che anche qui l’esempio dei ragazzini sul muretto mi sembra assai calzante, però non so se associarlo al concetto di solitudine, o comunque a una solitudine consapevole, penso che le chat e le community siano solo due degli esempi di piazze digitali che abbiamo a disposizione per non sentirci soli.

Nel libro Parole Forgiate, che ho già ricordato, a un certo punto Giuseppe Jepis Rivello parla del bisogno di avere “meno community e più comunità” e lo motiva in questo modo: “Perché le comunità contengono al loro interno il senso stesso dell’esistenza delle persone, ci sono comunità che vivono delle vite delle persone e viceversa. La comunità è un luogo fatto di tempo e di spazio, l’insieme di spiriti e di visioni che vivono in quel posto e che rappresentano il suo vissuto”.

Ecco, personalmente aggiungerei che nel gioco tra Gemeinschaft (Comunità) e Gesellschaft (Società), iniziato da Ferdinand Tönnies e poi continuato da Max Weber e da tanti altri, ricordo per tutti Eric Hobsbawm, in questa fase il concetto di comunità torna ad avere un ruolo fondamentale. Una comunità aperta naturalmente, una comunità con un piede nella propria terra, un piede nel mondo e la testa nella rete, come racconta ancora Rivello. Una comunità come quella che racconta Cesare Pavese ne “La luna e i falò”, la comunità di Anguilla quando  dice che  “un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Ecco, per ora direi che la comunità raccontata da Rivello e da Pavese potrebbe essere una risposta alla solitudine di cui parla la Turkle, poi quando avrò letto i suoi libri potrò avere un pensiero più preciso. Per quanto riguarda inquietudine, capacità cognitiva e tutto il resto penso di aver già detto abbastanza. 

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a? Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Per quanto riguarda la lettura mi piace suggerire quattro autori che adoro e che per certi versi mi hanno cambiato la vita, niente sociologia, la mia disciplina è fuori gara, due narratori e due filosofi,  in ordine alfabetico sono Borges, Calvino, Hillman e Jullien, tra le loro opere si può pescare liberamente, io ci ho trovato un’infinita bellezza e profondità di pensiero.

Per quanto riguarda i temi assieme a questo del rapporto con le tecnologie mi sta molto a cuore la costruzione delle reti umani e sociali. Me lo faccia ridire come l’ho scritto ne Il lavoro ben fatto, la domanda è come facciamo a unire i puntini, come facciamo a collegare nodi e reti fatti di persone, di organizzazioni, di comunità, a scambiare saperi e buone pratiche, a tenere assieme tecnologia, consapevolezza e umanità.  Ecco su questo punto mi piacerebbe si allargasse il fronte, e una voce come la vostra sarebbe molto importante. In un mondo in cui i “cattivi” vincono troppo spesso sui “buoni”, perché hanno una capacità di fare sistema che i buoni non hanno, questa attività di costruzione delle reti umane e sociali mi sembra indispensabile. Io nel mio libro l’ho definita “Campo del lavoro ben fatto”, un po’ come il “campo” di Dirac, ma la possiamo chiamare come vogliamo, l’importante è fare, il resto viene dopo. Tutto questo mi aiuta a dire senza timore di essere frainteso che considero il vostro progetto molto importante; l’idea che lo muove, la profondità che lo caratterizza, la “fatica” che ho dovuto fare per rispondere alle sue domande mi fanno dire che mi piace molto. Sì, mi piace molto, e spero che ci siano altre occasioni per interagire. 

 

 

 

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