Il libro di Deleuze e Guattari su Kafka si apre con una domanda: «Come entrare in un’opera che è un rizoma, una tana?» (Deleuze, Guattari 1996, p. 7). Con questa interrogazione i due autori ci mettono in guardia su almeno due ordini di discorso della produzione letteraria di Kafka: una disposizione ad affrontare una grande quantità di generi letterari e, contemporaneamente, una paranoia architettonica, capace di generare una fitta rete di cunicoli sotterranei impenetrabili al nemico. Un’idea, quest’ultima, che ci pone di fronte a ulteriori questioni: da cosa o da chi scappava Kafka? Che forma aveva questa sua fuga? Verso cosa si dirigeva? Di fronte a una simile moltiplicazione di istanze, sarà necessario scegliere un ingresso che possa introdurci nella tana, pur allontanandoci da Kafka.
Prima di affrontare questa scelta, tuttavia, bisognerà chiarire ancora alcuni presupposti del discorso, utili a illustrare la distribuzione della tana in quanto luogo della fuga. Innanzitutto la tana non è un nascondiglio, o non soltanto, così chi vi risiede non vi è necessariamente giunto dall’esterno. Si tratta di un luogo famigliare e familiare, nel doppio senso di luogo d’appartenenza della famiglia e di conosciuto attraverso una pratica costante. Chi abita la tana può essere colui che vi è nato, circondato dall’affetto famigliare. D’altra parte questo affetto iniziale può volgersi, sin da subito, in un sentimento d’oppressione: nella tana manca l’aria, così l’abitante non può che scavare cunicoli per fuggire. Luogo della famiglia e del consueto, la tana è anche il topos della ripetizione e della monotonia dove origina l’arbitrarietà delle regole di condotta.
Per dirlo altrimenti, la tana si presenta sin da subito come lo spazio territorializzato di un vivente, dove trovano vigenza tutte quelle norme tramandate da una tradizione tanto familiare quanto estranea. Da questa frizione iniziale, articolata tra accordo e disaccordo, la fuga comincia a svolgersi nelle direzioni più disparate.
A una fuga dalla tana del familiare assomiglia anche l’opera di Mark Fisher, la quale trova il suo mezzo d’articolazione primario nella frammentarietà del blog k-punk.