Un articolo pubblicato sulla rivista PERSONE E CONOSCENZE diretta da Francesco Varanini e edita da Edizioni ESTE.
Il dibattito sulla tecnologia coinvolge tutti ma è caratterizzato da narrazioni conformiste e omologanti, politicamente corrette, nei confronti dei padroni delle piattaforme tecnologiche e asservite ai loro modelli di business, alle loro visioni del mondo, filosofie e metafore, ai loro obiettivi estrattivi e di sfruttamento del plusvalore generato dalle interazioni digitali e sulle piattaforme social. Ne deriva una celebrazione delle “magnifiche sorti e progressive” di un “secol superbo e sciocco” che sembra avere delegato alla tecnologia il futuro dell’umanità dentro un’utopia di progresso illimitato.
Siamo dentro una servitù volontaria, allegramente inconsapevole e acritica nei confronti di una tecnologia che neutra non è, forse non lo è mai stata. Non lo è perché ogni tecnologia ha inscritto nel suo codice genetico la logica di fondo (sviluppata da altri da noi) che ne determina l’utilizzo, l’algoritmo potente che oggi lascia scarsi margini di scelta e minori spazi di manovra, anche a chi continua, ingannandosi, a illudersi di poterlo dominare e piegare alle sue volontà.
Le tecnologie attuali si sono fatte piattaforma diffusa, infrastruttura complessa e globalizzata, macchina da guerra marketing finalizzata nella trasformazione di ogni tipo di scambio in merce. In questo contesto si confrontano oggi due visioni del mondo, una legata all’ideologia sciamanica della Silicon Valley che costruisce utopie antiumanistiche, si racconta alla ricerca di continui miglioramenti per l’essere umano ma in realtà lavora al suo oltrepassamento, verso un transumanesimo nel quale a rimanere in disparte non è la componente macchinica ma quella umana. La seconda visione è antropologica, legata alla difesa dell’umanesimo, di esseri umani liberi e responsabili, incarnati, dominati dall’asimmetria e dall’incertezza, dal dubbio e dalla paura di sbagliare, attori morali, capaci di intervenire sui fatti del mondo sulla base dei loro giudizi di valore ed etici, che si fanno guidare da emozioni, passioni, sentimenti, sogni, utopie e credenze (anche false), che non accettano di essere ridotti a meri meccanismi digitali, modellabili e orientabili e come tali controllabili, monitorabili e prevedibili, ma vogliono continuare a comprendere cosa stia cambiando e cosa è già cambiato nell’era dell’Antropocene.
Le storie che ci raccontiamo!
Nell’epoca dello storytelling non ci sono più storie ma solo varianti di un’unica monolitica narrazione tossica. Quella nella quale milioni di persone sono impegnate ogni giorno per rendere interessante la vita dei propri profili digitali, veri e propri simulacri con cui si raccontano online di essere ancora vivi. Senza accorgersi che, mentre il loro io è plurale, intenzionale, incoerente perché umano, pieno di sfumature, produttore di significati e di senso, dominato dalla temporalità biologica (Giuseppe Longo), strettamente legato alle interrelazioni sociali e con gli altri, quello digitale è senza interiorità, semplice rappresentazione e recitazione, pura fiction, accettazione passiva di una prigione (acquario, voliera) dorata e felicitaria nella quale si è rinunciato alla propria sfera privata e riservatezza, e ogni gesto umano è ridotto a ripetitività, serialità, abitudini, socialità ingannevoli, reazioni binarie (azione-reazione) e funzionali non dissimili da quelle di una macchina.
Ibridati tecnologicamente, incapaci, forse ormai impossibilitati, a riprendere il ritmo lento che caratterizza il cervello umano, impegnati in un gioco dal quale abbiamo paura di rimanere esclusi, alla ricerca di continue gratificazioni dopaminiche come quelle regalate dalle slot machine, abbiamo perso la capacità di riflettere criticamente sulla nostra condizione umana, di cogliere la differenza tra contatti digitali e contatti tattili e corporei, tra smartworking e lavoro o didattica in presenza, di perderci dentro i fili labirintici dei nostri pensieri, di riscoprire l’eros, la lettura, financo il sonno ristoratore, lontano dalla luce verde di un telefonino.
Viviamo dentro un mondo nuovo, molto tecnologico, digitale, siamo testimoni di una vera rivoluzione che, come quelle agricola e industriale precedenti, cambierà le sorti dell’umanità. Una rivoluzione radicale, accelerata e profonda perché dipende “dal funzionamento infaticabile delle macchine” (M. Ferraris, Documanità). Siamo nell’era delle intelligenze artificiali. Macchine robot dotate di algoritmi capaci di apprendere (machine e deep learning), di automatizzare processi, industrie e filiere, macchine che nel giro di pochi decenni potrebbero rilevare molti umani dalle loro incombenze lavorative (comprese quelle in smartworking), anche grazie alle loro accresciuta abilità di parlare, ragionare, svolgere azioni e prendere decisioni in ogni ambito e disciplina. Per molti questa ri(e)voluzione tecnologica segnerà l’alba di una nuova era dell’abbondanza per l’intera umanità. Motivo valido per celebrarne le conquiste, le soluzioni e le promesse, nell’illusione di essere protagonisti, da umani, di una trasformazione (digitale) che potrebbe cambiare l’essenza e le potenzialità stesse del loro essere umani. Umani “dal cervello aumentato ma diminuiti nella loro umanità” (Benasayag), in un futuro già qui, non più lontano e dominato dalle macchine. Una destinazione, un punto di arrivo non solo possibili ma probabilmente senza vie alternative di uscita, che dovrebbero suggerire, senza farsi condizionare dal rimpianto per il passato, di interrogarsi su quanto sta succedendo, su quanto si sta rischiando di perdere e su quanto avanti possiamo spingerci nella digitalizzazione delle nostre vite, siano esse personali o pubbliche, individuali o sociali, lavorative o professionali.
Pensare criticamente e dubitare
Interrogarsi, porsi delle domande, dubitare, fare delle scelte, non sono solo capacità (precluse alle macchine) molto umane, ma anche il nucleo del pensiero critico (le macchine sanno pensare?) e della cittadinanza attiva, compresa quella digitale di oggi. Porsi domande, dubitare, elaborare pensiero, scoprire ciò che è e ciò che è tenuto nascosto, sono tutte pratiche che nella storia dell’umanità sono sempre servite a interrogarsi e a contrastare ogni forma di potere, oggi anche pratiche diffuse di disinformazione, offuscamento e complottismi vari. Pratiche che oggi dovrebbero essere applicate anche al potere opaco, pervasivo, di parte, manipolatorio e subdolo della tecnologia e dei suoi numerosi clerici e sacerdoti.
🍒🍒CHATGPT: SEDOTTI E ABBANDONATI?
I primi a porsi delle domande dovrebbero essere coloro che hanno scelto di fare da cicisbei, storyteller, sorveglianti e megafoni di un capitalismo delle piattaforme che sta imponendo il suo dominio sul mondo con la pretesa di portare l’intera umanità nella nuova fase della sua evoluzione post-umana. Tutte persone che probabilmente dall’interrogarsi e dal dubitare se ne staranno lontane, per pigrizia e cinismo, per la loro incapacità a dire di no e resistere alla volontà di potenza della tecnologia, impegnata nella trasformazione digitale di ogni aspetto della vita umana. Il tutto mentre nella vita reale e fattuale a determinare la scarsa qualità della vita materiale delle persone sono povertà, disuguaglianze, mancanza di lavoro e precarietà.
Porsi delle domande e dire di no, dentro il conformismo diffuso dei nostri tempi, è diventata una attività democratica e sovversiva, da cittadini (tecno)consapevoli. Lo è perché non si accontenta delle tante informazioni e narrazioni circolanti ma ne ricerca la veridicità, le fonti, la validità e la qualità. L’esplicazione di questa attività sovversiva passa, nel mondo digitale, attraverso una disamina onesta di ciò che separa e continuerà a separare l’uomo dalla macchina.
Esseri umani e robot sono differenti
Un primo elemento di differenza è l’importanza che le esperienze hanno nella vita delle persone. Computer, macchine, robot non possono averne. Anche se Siri o Alexa reagiscono come se stessero sperimentando dei sentimenti, in realtà stanno solo e sempre simulandoli, senza possederli veramente, senza cioè esserne coscienti di provarli (“nulla si bagna dentro un computer che simula una tempesta di pioggia” – Christof Koch). Robot, algoritmi possono dimostrare la loro intelligenza nel fare ma poco sanno dell’essere. In futuro sarà forse possibile fare un upload di IA da una macchina all’altra attraverso il Cloud ma la coscienza non è un algoritmo software che si possa separare dall’essere per esser passata a qualcun altro. Non è neppure possibile simularla perché vive integrata con il sistema che la produce e dentro al quale semplicemente emerge (“il cervello umano è capace di costruire macchine ma non può essere ridotto a una macchina” Michael Cazzaniga). E ogni emersione è diversa da tutte le altre, si porta dietro propri universi di significato, cambia in base alla vita di ognuno e alle sue esperienze, non nasce solo dal cervello (hardware) ma è distribuita nel corpo, nell’ambiente abitato, nel dialogo e nell’interrelazione con gli altri, la memoria e i ricordi, e la propria storia personale.
Un altro elemento di differenza è legato alle emozioni, ai sentimenti e ai qualia che definiscono gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti, gli stati sentimentali e il modo particolare con cui si percepisce qualcosa o qualcuno. Tra macchine capaci di simulare emozioni e sentimenti, e umani capaci di provare dolore, compassione, di soffrire per essere lasciati soli o picchiati e di provare empatia per altri che lo sono, a mantenere uno status speciale dovrebbero sempre essere i secondi. Gli unici a sperimentare esperienze coscienti come l’empatia, esperienze inconcepibili per macchine intelligenti ma non coscienti. Senza contare che la nostra esperienza del mondo e della vita avviene fondamentalmente attraverso le interazioni e la cooperazione con altri esseri umani che percepiamo come simili a noi.
Altro elemento su cui riflettere poi è la capacità di decidere e di fare delle scelte. Le macchine dotate di intelligenza artificiale, grazie ai loro algoritmi, accesso a grandi quantità di dati ed elevata capacità computazionale, sono in grado di prendere decisioni, ma fanno ciò per cui sono state costruite e in modalità mai neutrale. Per loro hanno già deciso chi le ha programmate, i valori di cui sono portatori, le loro convinzioni, i loro pregiudizi e le loro finalità. Gli esseri umani riflettono sulle loro azioni, le orientano sulla base di ragioni, motivazioni, sensazioni, convinzioni morali e poi fanno delle scelte. Queste scelte nascono da esperienze, sistemi di valori, percezioni, interrelazioni empatiche con altre persone, emozioni, ecc. tipicamente umane e non propriamente traducibili in calcoli algoritmici o semplici scelte binarie e puramente funzionali. Sono scelte responsabili, compassionevoli e rispettose degli altri, che nascono dalla capacità e dalla necessità di dare un senso alle proprie esperienze, per motivi etici, esistenziali, per nobiltà d’animo, generosità, gentilezza e amore per la vita, per il mondo e l’umanità intera. Sono scelte che evidenziano la libertà dell’essere umano. Libertà assente dentro macchine computazionali che l’hanno trasformata in semplice calcolo di probabilità tra scelte pre-codificate e pre-determinate possibili, che (ri)producono semplici comportamenti, non azioni libere, etiche e consapevoli. Questa idea di libertà di scelta potrebbe essere una semplice illusione, pur sempre determinante nel definire ciò che distingue una macchina da un essere umano, capace di scelte autonome, di sorprendere e stupire con decisioni personali e imprevedibili e con esse lasciare un segno nella storia e nel mondo.
L’essere umano pensa, sente, sogna
I tre elementi sopra citati, e ce ne potevano essere molti altri, vanno contestualizzati all’interno di un dibattito sempre più centrato sullo sviluppo di una Intelligenza Artificiale forte capace di portare alla Singolarità e alla Superintelligenza. Un futuro anticipato da molti come già qui e nel quale l’uomo è ridotto a semplice meccanismo digitale all’interno di una visione materialista, scientista e meccanicistica, che nega l’intero percorso umanistico fin qui fatto. In questo futuro l’uomo non è più l’essere fallibile che da sempre è, non è un attore morale capace di scelte libere, autonome e responsabili, nei confronti di sé stesso e degli altri, dell’ambiente e della natura, ma è un semplice ingranaggio di una megamacchina super-ottimizzata, guidata da meccanismi utilitaristici e interessi economici, che finirà per emarginare l’uomo per come lo abbiamo fin qui conosciuto.
Ma l’uomo non può essere ridotto a semplice meccanismo o elemento computabile, non è neppure un semplice attore passivo della trasformazione digitale in corso nelle aziende, finalizzata all’ottimizzazione, alla riduzione dei costi, alla semplificazione e alla flessibilità. L’uomo è una entità singolare, complessa, imprevedibile, capace di rinnovare continuamente sé stesso, di pensare, percepire, sentire, scegliere e decidere, di sognare l’impossibile e di desiderare, di elaborare conoscenza ma anche di praticare con spirito etico la solidarietà, il sostegno, l’amicizia, la compassione e la giustizia. Come tale non può diventare semplice ingranaggio di ambiti sociali e lavorativi nei quali la fanno da padroni sistemi premianti e incentivi non dissimili da quelli che governano le piattaforme tecnologiche e i videogiochi, ma deve essere (ri)valutato nelle sue componenti umane che nessuna macchina è ancora oggi in grado di sperimentare e regalare. In termini di fiducia, coinvolgimento, motivazione, cooperazione, partecipazione, condivisione e scelte etiche.
Se la battaglia dell’umanesimo sarà persa, il futuro che ci aspetta potrebbe essere quello descritto in Klara e il Sole da Kazuo Ishiguro. Un futuro nel quale a comportarsi da umani sono androidi da compagnia, portatori di sentimenti, a cui ci si rivolge per curare la solitudine profonda di cui si è afflitti. Una solitudine sperimentata anche dalla protagonista Klara che, in vetrina, in ricarica fotovoltaica di fronte al sole, aspetta che qualcuno la compri. Affiancata a Josie, una bambina bisognosa di affetto, Klara si impegna in un ambiente ostile a conquistare la sua fiducia e amicizia senza certezze per sé e preoccupata che l’arrivo di nuovi modelli la facciano finire in uno sgabuzzino. E se in un futuro prossimo venturo a finire nello sgabuzzino fossero gli esseri umani?
Rimanere umani nell’era tecnologica
Molto del dibattito corrente sulla tecnologia è centrato sullo sviluppo delle intelligenze artificiali e sulle angosce che ne derivano pensando alla futura evoluzione del genere umano. È un dibattito che non può essere lasciato a filosofi, scienziati, tecnocrati, esperti o studiosi e non può accontentarsi delle narrazioni mediali che ne derivano. Deve coinvolgere tutti perché tutti dovremmo oggi interrogarci su come rimanere umani nell’era digitale prossima ventura. La riflessione deve partire dall’analizzare il senso di smarrimento diffuso, il surplus informativo e la fatica digitale con l’obiettivo di ricaricare le batterie fisiologiche e cognitive. L’alimentatore per farlo è l’arte di porsi delle domande. Una pratica utile per acquisire le conoscenze che servono a prendere consapevolezza dei profondi cambiamenti in atto, non solo tecnologici ma generali.
Siamo testimoni fortunati di un’epoca molto speciale, caratterizzata dalla rivoluzione digitale. La tecnologia cerca di farci credere di possedere poteri magici, in realtà stiamo diventando più vulnerabili dentro scenari potenzialmente distopici. Per rimanere umani siamo chiamati a interrogarci in modo antropologico, adottando uno sguardo lontano da quello uniformato dal riflesso narcisistico dentro uno schermo.
Lo sguardo deve essere obliquo, cinico, scettico, esterno, quasi da stranieri e accompagnato da un pensiero laterale, critico e creativo, arricchito da nuovi concetti e nuove categorie filosofiche. Il tutto deve essere collocato nella convinzione che ogni resistenza alla tecnologia è inutile. Serve al contrario elaborare una strategia collaborativa, la capacità di aprirsi alle novità, alla sperimentazione e alla capacità di adattamento. Tutto ciò lo dobbiamo fare perché, prima dell’avvento e del dominio delle macchine, forse potremmo essere gli ultimi a porci questo tipo di dilemmi filosofici e antropologici.
Quando le nostre menti saranno reingegnerizzate, l’homo sapiens, per come lo abbiamo conosciuto noi, potrebbe scomparire.