Parole di plastica

10 Marzo 2021 Redazione SoloTablet
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Le parole sono entità fragili, da trattare con cura e con responsabilità. Fragili lo siamo anche noi, anche quando ci guardiamo dentro, quando sperimentiamo esperienze esistenziali legate a gioia e tristezza, dolore e speranza. Confrontarsi con la nostra fragilità significa anche confrontarsi con le parole, i loro significati e il loro ruolo nella vita di ognuno di noi. Come ha ben scritto Eugenio Borgna "[...] ci sono parole che curano, parole che salvano la vita, parole che fanno sanguinare il cuore e aprono ferite[...]". Ma cosa succede se le parole sono diventate di plastica, cosa succede se a brillare è solo la loro superficialità?

Un articolo di Anna Colaiacovo pubblicato nel lontano 2017 sulla rivista online "Filosofia per la vita".



L’impoverimento e l’omologazione della lingua a cui da tempo assistiamo sono sintomi di una malattia già diagnosticata in Italia, negli anni Sessanta, da Pasolini e Calvino. Di quale lingua parliamo? Della lingua della comunicazione quotidiana che rappresenta il codice primario all’interno del quale il flusso della realtà acquista un senso. É, infatti, la condivisione di uno stesso codice che rende possibile la relazione all’interno di una comunità, perché la lingua vivente non è solo un mezzo di scambio utile per trasmettere messaggi, è anche un orizzonte di senso e una creatrice di legami. Normalmente le parole del linguaggio quotidiano, pensiamo ad esempio alla parola ‘amore’, hanno un significato molto ampio che diventa preciso e concreto in relazione a un contesto determinato e alle sfumature che il parlante attribuisce loro; in questo modo il soggetto conserva ampi margini di libertà e ha la possibilità di cogliere la complessità del reale.



Nei regimi totalitari del secolo scorso è  accaduto qualcosa di inedito, è stata creata una neolingua artificiale che, attraverso la ripetizione di singole parole o di intere frasi milioni di volte, ha reso possibile la trasformazione della lingua vivente in una lingua modulare e ha reso estremamente difficile l’articolazione di una diversa visione del mondo. “Il modulo è un elemento costruito in serie, con caratteristiche omogenee, che permette soluzioni di assemblaggio molto varie. (...) Con il parlare modulare la competenza comunicativa diventa una competenza burocratica”. E’ come se si dovessero semplicemente riempire le parti lasciate in bianco nel modulo con le risposte già previste dalla burocrazia. E’ stata così attuata dai regimi totalitari una semplificazione brutale del linguaggio. In questo modo la comunicazione diventa un puro e semplice mezzo di trasmissione e il messaggio diventa un ordine: scompare la possibilità di immaginare un ‘altrimenti’. E’ questo un tema trattato ampiamente nel famoso libro di Orwell ‘1984’. In tempi più recenti, Uwe Pörksen ha ripreso le analisi di Orwell in un libro quanto mai attuale (pur se scritto nel 1988 e pubblicato in italiano nel 2011), dal titolo emblematico: “Parole di plastica: la neolingua di una dittatura internazionale”.

Riferendosi alla lingua che parliamo nell’attuale stadio della storia dell’Occidente - dal punto di vista della pervasività del linguaggio, non esiste una sostanziale differenza tra dittatura e democrazia - Pörksen si sofferma sulla diffusione di quelle che definisce ‘parole di plastica’ cioè parole che, presenti da molto tempo nel linguaggio comune,  sono state fatte proprie dalla scienza, per poi essere reimmesse nel linguaggio colloquiale. Nel momento in cui le parole di uso comune, che hanno una grande plasticità semantica in funzione dell’uso concreto, emigrano nell’ambito scientifico diventano termini tecnici, utilizzati dagli esperti. Quando, attraverso il sistema dei media, tornano nel linguaggio colloquiale, colonizzandolo, il loro significato diventa vuoto e generico, anche se conservano l’aura della scientificità e del prestigio. Come i mattoncini Lego, queste parole possono combinarsi in molti modi e consentono di costruire qualcosa che sembra oggettivo, ma  in realtà tolgono il potere di definizione a colui che parla, sono povere di contenuto, disancorate dalla storia e dietro l’apparente neutralità nascondono comandi,  prescrizioni.


Ecco alcune parole prese in esame da Pörksen: sviluppo, sessualità, comunicazione, identità, progresso, informazione. A queste potremmo aggiungerne, oggi, molte altre: tanti mattoncini che, come crescita, ripetute come un mantra negli ultimi tempi, plasmano la nostra idea di mondo, dal momento che l’aura di scientificità che le caratterizza impedisce una loro problematizzazione. Ma da quali settori provengono le parole di plastica? Veicolate dagli ‘esperti’, che diventano i custodi del ‘senso’ della vita,  partono dai vari settori della scienza, della tecnica e dell’economia e, tramite i mezzi di comunicazione di massa, conquistano la società. Sono parole che hanno la capacità di  ristrutturare la comunicazione tra i parlanti e di costruire un nuovo modello di realtà. Non c’è da stupirsi, quindi, se oggi il linguaggio configura un pensiero unico che spinge ad accettare la realtà come immodificabile, facilita la diffusione del ‘si fa’, ‘si dice’ che caratterizzano, secondo Heidegger, la vita inautentica e spengono la singolarità di ognuno... pur esaltando l’individuo (consumatore!).


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