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I social non sono una scorciatoia

I social non sono una scorciatoia

14 Settembre 2021 Redazione SoloTablet
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In quanto esseri sociali al vertice della top ten delle gerarchie e tra le principali occasioni di stress troviamo le relazioni (intese come costruzioni di legami tra persone). I primi tempi della vita ne dipendono completamente, quelli successivi in gran parte. Per quanto possiamo amare la vita solitaria, il posizionamento sociale è principale fattore di soddisfazione e di benessere psicobiologico: che vuol dire condividere esperienze vissute insieme, sentirsi riconosciuti, accolti, ascoltati, rispettati e rispecchiati, presenti nell’attenzione e nel cuore dell’altro in una posizione importante. Per i giovani, che generalmente non vagheggiano ancora isole deserte, sicuramente di più. La prevedibilità dei movimenti relazionali ed il loro ragionevole controllo (non tanto quello effettivo ma la percezione di riuscire a cavalcare le relazioni con soddisfazione) permette di gestirne lo stress. Al contrario, le situazioni di cosiddetta sconfitta sociale si configurano come condizioni di stress severo.

 

“[…] la vita è diventata più febbrile, più confusa, più disorientata. A causa della sua dispersione, il tempo non esercita più alcuna forza ordinatrice. Per questo nella vita non emergono momenti decisivi o tali da imprimere una svolta.” -  – ll profumo del tempo di Byung-Chul Han

Terzo estratto dal libro Tecnologie e sviluppo del benessere psico-biologico - Prontuario per genitori e ragazzi, per un uso equilibrato della tecnologia scritto da Alessandro Bianchi Carlo Mazzucchelli.

Un libro che gli autori propongono e suggeriscono per le tematiche trattate e per la rilevanza da esse assunte a causa della pandemia che ha visto crescere in modo esponenziale l'utilizzo di dispositivi tecnologici da parte di adolescenti (60% hanno un cellulare) e anche bambini (al di sotto dei 5 anni sono il 15%). Il libro è disponibile in formato E-BOOK e CARTACEO. 

Un libro scritto come un prontuario di sopravvivenza attiva, pensato per genitori, psicologi e psicoterapeuti. Alcune semplici regole per ridurre la fatica della genitorialità e contribuire al benessere psicobiologico dei bambini.

 

Da un punto di vista sociologico le piattaforme di social networking sono spazi digitali (virtuali) che permettono, a chi li abita, di gestire le proprie reti sociali e relazionali, e la propria identità (profilo digitale) online. Le reti sociali sono pre-esistenti al social networking online (da sempre oggetto di studio da parte di sociologi e antropologi) ma le applicazioni tecnologiche di social networking attuali permettono la costruzione di uno spazio relazionale intermedio fatto da reti sociali ibride, parallele, caratterizzate da contatti virtuali e contatti reali nella vita attuale. Usate in modo responsabile e consapevole, le piattaforme social forniscono un’eccellente opportunità per interagire socialmente, sviluppando e migliorando le proprie capacità relazionali. Se usate in modo irresponsabile, superficiale o semplicemente sbagliato, possono però essere all’origine di problemi reali, dagli effetti e dalle conseguenze imprevedibili. In particolare se il mondo virtuale finisse per diventare un alibi o una scorciatoia per raggiungere destinazioni e ottenere risultati per i quali è richiesto impegno, motivazione, determinazione e lavoro.

Le piattaforme tecnologiche di social networking e i media sociali offrono molte scorciatoie alle fatiche del relazionarsi (pratica fondamentale per molte azioni, sia individuali sia lavorative o educative, e fonte preziosa per il cambiamento): non devo aspettare ore o giorni per un appuntamento, non devo preparami e preoccuparmi del mio aspetto, posso essere scarmigliato e in vestaglia e parlare e interagire con chiunque; riducono l'ansia di connettere le parole con l’espressività non verbale dalla quale potrebbe trapelare una emozione non voluta. Un grande vantaggio e una gran comodità, disponibile 24/24h, sempre e ovunque, in ogni luogo. 

I Social permettono non solo di intessere relazioni ma di collaborare con altre persone e di fare cose insieme: creare e progettare, accedere a banche dati, scambiarsi informazioni e materiali multimediali in tempi rapidissimi. Tutte attività oggi universalmente condivise da giovani e giovanissimi, anche quando stanno fisicamente assieme, in coppia, o frequentano gruppi piccoli o grandi. Attività che prevalgono su altre anche per la solitudine che sembra interessare un numero crescente di persone, sintomo di un malessere diffuso determinato dal bisogno fortissimo di umanità e contatto quotidiano, bisogno insoddisfatto e negato anche dal tempo crescente dedicato alle relazioni virtuali online. Un circolo vizioso che si autoalimenta e che ci fa porre alcune semplici domande. 

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Siamo sicuri che tutte le scorciatoie praticabili siano buone? 

Conseguire risultati, preferibilmente quegli auspicati, è obiettivo programmatico della maggioranza delle nostre azioni, anche quelle relazionali e sociali. A volte sono obiettivi importanti e prioritari (come quando si studia per superare un esame, con precedenza assoluta su tutte le altre attività), altre volte ci interroghiamo a posteriori su azioni compiute senza saperne chiaramente il perché (azioni delle quali ci possiamo pentire o essere orgogliosi): ad esempio ci siamo arrabbiati improvvisamente e dato in escandescenze per cose che, a una riflessione successiva, non ci sembrano più così rilevanti. 

Tra le azioni e i risultati gravitano motivazioni, valori, emozioni, occasioni e stimoli in proporzioni e gradi di consapevolezza variabili. Nasce da questo il vecchio detto di contare fino a 10 prima di agire: per evitare azioni (reazioni) di impulso. Cosa già difficile e frequentemente trasgredita in era pretecnologica, ma ancora più improba, quasi impossibile, con il velocizzarsi dei canali e dei modi digitali di comunicare e con la logica di algoritmi relazionali basati su gratificazioni continue e in tempo reale (meccanismi dei MiPiace di Facebook, delle stelline di Instagram o dei cuoricini di Twitter). 

Quali debbano essere i risultati e la loro importanza è frutto di metri di misura e gerarchie personali, che intrecciano molteplici prospettive: lavoriamo per un benessere economico ma anche per una soddisfazione personale, giochiamo a tennis per vincere la partita ma anche per fare esercizio o coltivare un'amicizia, esprimiamo centinaia di MiPiace per alimentare la nostra rete di contatti Facebook ma anche perché ci piacerebbe passare dalla relazione virtuale a quella reale, dal confronto tra profili digitali all’incontro faccia a faccia. 

Gerarchie di valori e relativi bisogni, alla loro base guidano le nostre azioni determinandone l'importanza e la priorità (adesso sono sotto esame; non ci sono per nessuno!). La percezione e la consapevolezza dei segnali che giungono dal proprio intimo (sempre molto concreti e sensoriali) determinano anche la previsione dei risultati e offrono possibilità di aggiustamenti delle azioni: se non mi sento troppo ferrato nella materia di esame (e può dirmelo tanto un batticuore al pensiero, che un disordine concettuale) posso decidere di rimandarlo, di sgobbare forsennatamente o semplicemente di tentare, sperando nella buona sorte. 

Gerarchie e Previsioni di azioni ed esiti sono soggettive e soggette ad aggiornarsi costantemente in funzione delle capacità maturate sino a quel punto evolutivo. Il Mix variabile tra Funzionamenti di fondo (capacità acquisite di tarare i sistemi psicobiologici in specifiche modalità), eventi da affrontare ordinati da valutazioni gerarchiche, e consapevolezza delle proprie risorse, con tanto di condimento di previsioni (ottimistiche o terrifiche), determina il livello di ordinario di stress della propria vita. 

Quando raggiungiamo i risultati attesi (esame superato!) lo stress per le notti passate a studiare si attenua: l'asse HPA riduce il proprio lavoro e l’organismo torna ad uno stato di rilassamento che permette di godere dei risultati raggiunti, prima di impegnarsi nel progetto successivo. Quando non li raggiungiamo (l'esame è andato male!) nessun sospiro di sollievo, c'è da ripartire con lo studio e lo stress si prolunga senza permettere all’asse HPA di tirare il fiato. Fin qui siamo nell’ordinario. Caso diverso è quando, a esame superato, l’attivazione non torna allo stato precedente ma rimane elevata. Come un termostato che, raggiunta la soglia di spegnimento della caldaia, la mantiene invece accesa. Qualcosa non funziona!

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Lo stress e gli eventi imprevedibili 

Abbiamo parlato dello stress nel paragrafo 2.3. Riprendiamo qui il tema per sottolinearne aspetti che hanno a che fare col Prevedere. 

La letteratura scientifica[1] mette in evidenza che lo stress che più usura (quello più a rischio di distress) si produce nell’affrontare eventi imprevedibili. Il peso dell’imprevedibilità, sebbene abbia casi di estrema oggettività (come quando si verifica un terremoto), è correlato più quotidianamente alla percezione soggettiva del sentirsi in grado di. L’esame più stressante è quando non si sa cosa aspettarsi, vuoi perché non si conosce l’insegnante o è famoso per la sua volubilità (il mondo scolastico ne è pieno) o non è chiaro il programma (magari è il primo esame): meno si è pronti ad affrontare gli eventi della vita e meno si sarà capaci di prefigurazioni anticipatorie attendibili. 

Abbiamo già visto nel paragrafo precedente come l’Immaginare, del quale il prevedere è un sottoinsieme, già attiva a bassi regimi, i motori biologici. Lo stesso asse dello stress si pre-accende nella prefigurazione dell’evento in quella che prende il nome di “risposta anticipatoria”. Vien da sé che il potere di controllo degli eventi scemi drasticamente, con una risposta anticipatoria assente o fuori misura. In questi casi l’efficienza del rientro ai valori di base di pre-stimolazione dell’asse HPA si riduce e lo stato di stress permane.

Lo stress è massimo perché il potere di azione è minimo. 

Le relazioni come occasione di stress 

In quanto esseri sociali al vertice della top ten delle gerarchie e tra le principali occasioni di stress troviamo le relazioni (intese come costruzioni di legami tra persone). I primi tempi della vita ne dipendono completamente, quelli successivi in gran parte. Per quanto possiamo amare la vita solitaria, il posizionamento sociale è principale fattore di soddisfazione e di benessere psicobiologico: che vuol dire condividere esperienze vissute insieme, sentirsi riconosciuti, accolti, ascoltati, rispettati e rispecchiati, presenti nell’attenzione e nel cuore dell’altro in una posizione importante. Per i giovani, che generalmente non vagheggiano ancora isole deserte, sicuramente di più. La prevedibilità dei movimenti relazionali ed il loro ragionevole controllo (non tanto quello effettivo ma la percezione di riuscire a cavalcare le relazioni con soddisfazione) permette di gestirne lo stress. Al contrario, le situazioni di cosiddetta sconfitta sociale si configurano come condizioni di stress severo. 

Dato che relazionarsi attraverso piattaforme tecnologiche social da la sensazione di un maggiore controllo rispetto alle relazioni dirette tra corpi fisici, poniamoci due domande che servono ad anticipare riflessioni successive, sulle quali torneremo poco più avanti: 

1.   Domanda 1: È una percezione attendibile? 

2.   Domanda 2: Costituisce un apprendimento adeguato per la vita? 

In preadolescenza e in adolescenza il posizionarsi bene nella rete sociale dei pari è imperativo assoluto, come lo era da bambini in famiglia[2]: l’obiettivo è avere prestigio, amici per i quali sentirsi importanti e accettati, potersi confidare e farsi sostenere. L’esclusione sociale e la solitudine sono la fonte più pesante di disagio e stress, tanto che è preferibile a volte essere disprezzati o temuti ma visibili, piuttosto che invisibili e ignorati. 

I media sociali tecnologici hanno moltiplicato e modificato occasioni e modi per ottenere il risultato ambito di un buon piazzamento di visibilità e riconoscimento (reputazione – reputation management) sociale. Hanno però anche facilitato l’emergere e l’adozione di nuove forme di scorciatoia. Lasciati soli con il mezzo tecnologico, molti ragazzi si appropriano in modo rapido delle sue funzionalità ma vengono anche risucchiati nella sua ambiguità e realtà. Una realtà chiusa e delimitata dai confini trasparenti ma invalicabili degli acquari applicativi di piattaforme sociali come Facebook, Instagram, YouTube o WhatsApp. Fatta di tempo presente continuo, di sovraccarico informativo e cognitivo, di coinvolgimento emotivo elevato, di cattura dell'attenzione, di conversazioni ininterrotte e non monitorate con amici e contatti con i quali ci si sente obbligati a rimanere in contatto, di mancanza di senso della prospettiva su ciò che è importante e ciò che non lo è. Una realtà che, benché virtuale, viene percepita come reale quanto quella vissuta al di fuori del mondo (della cuccia) digitale e online e rischia di trasformarsi in un grande gioco, capace di intrattenere ma anche di condizionare la vita, gli affetti e la crescita di molti ragazzi. Una realtà infine capace, per la sua forza attrattiva e pervasività, di avere effetti profondi sulla vita dai ragazzi riconfigurandone, come se fossero semplici funzionalità di una APP, l'identità, l'intimità e la socialità, la mente e l'immaginazione. 

Tutti abbiamo usato scorciatoie per raggiungere risultati. Non c'è niente di male, se esistono perché non sperimentarle, ben vengano. Minimizzare gli sforzi è utile, non solo quando ci sentiamo debilitati, tanto che ci diamo dei cretini quando  ci accorgiamo di avere intrapreso la strada più lunga, mentre avremmo potuto risparmiare tempo e fatica seguendo vie più brevi. Ma tutti abbiamo anche fatto qualche volta i furbi, imboccando una scorciatoia non proprio legittima o adeguata ai risultati da ottenere o ai bisogni reali da soddisfare. Alzi la mano chi a scuola non abbia mai copiato un compito, anche solo un pochino e con la complicità condivisa del compagno di banco. 

Sono sempre gli obiettivi, ordinati per gerarchia e capacità percepite nel momento, a rendere elastica la legittimità della scorciatoia: possiamo pure concordare che lo scopo supremo avrebbe dovuto essere l’apprendimento della materia, ma la noiosità della stessa e l’approccio minaccioso dell’insegnante ha fatto passare in primo piano l’obiettivo di ottenere, senza grande sforzo, un voto positivo in modo da evitare la brutta figura. L’apparire preparato è divenuto più urgente dell’esserlo realmente. 

Anche nella vita adulta a volte bariamo. Giustificazioni ce ne sono a iosa, anche se la coscienza, ma non sempre, ribolle e rimorde. Dovremmo comunque concordare che l’obiettivo evolutivo dovrebbe essere quello di diventare veramente una persona capace di affrontare le situazioni in modi variabili ed efficaci, cogliendone le opportunità, per realizzare desideri e soddisfare bisogni, non l’apparire come tale. Ma essere ben posizionati nella rete sociale è così importante (ne va della salute e del benessere personali) che al fallimento è preferibile l’apparire, anche se la soluzione ha inevitabilmente una data di scadenza e un prezzo: barare non è indolore, si paga con l’ansia che la magagna venga prima o poi scoperta, il Re è soggetto a ritrovarsi nudo, le false lauree vengono a galla. E allora sono guai. 

Le piattaforme tecnologiche di social networking facilitano indubbiamente le furbizie ma non le provocano di per sé. Offrono opportunità per amplificare l'Apparire ma non lo rendono obbligatorio o vincolante. La spinta forte a barare, che talora diventa quasi forzata, nasce dall’incertezza dilagante[3]  nel nuovo millennio. È una incertezza che possiamo cogliere su due ordini di scale, tanto per cambiare tra loro sistemicamente collegate: 

1. una socioculturale: incertezza e precarietà determinate dal venire meno di strumenti utili per una affermazione reale di se stessi. Quelli disponibili troppo spesso spingono facilmente verso la costruzione di una identità apparente. Compro un’auto per status symbol e non per la sua utilità come mezzo di trasporto (la pubblicità è costruita su questa esigenza, reattiva all’incertezza). Analogamente indosso il vestito che va di moda, iscrivo il figlio in una determinata scuola (se ho la disponibilità economica per farlo), pronuncio determinate parole e faccio uso di certe tipologie di concetti, slang e linguaggi. 

2. una individuale: la preadolescenza e l’adolescenza sono fasi di fisiologica incertezza (naturalissima) in cui l’apparire è un abito e un lasciapassare a sostegno dell’identità in fase di sviluppo. Nei social lo status symbol digitale è rappresentato dal numero di MiPiace, stelline o cuoricini ricevuti e condivisioni. 

Se l’incertezza è eccessiva, il rischio è di rimanere imprigionati nell’abito nel quale ci si trova comodamente vestiti e protetti. 

Winnicot[4] alla metà del’900 lo chiamava Falso Sé e non è cosa salutare: a partire da una carenza di risposte soddisfacenti ai propri bisogni, il bambino crescendo è portato a fondare il proprio senso di identità nell’accondiscendere alle richieste altrui, con il rischio di perder la bussola di ciò che veramente è, ma anche di diventare sordo nei confronti di desideri e bisogni più autentici (non più chiaramente percepibili), schiavo del giudizio sociale e dell’approvazione altrui. Il Falso Sé è però un abito che non ripara dal freddo, un cibo che riempie la pancia ma non nutre, ma che anzi provoca ansia che si manifesta in disturbi e, se ci si crede veramente, in situazioni di malessere peggiori, aprendo le porte al delirio. 

La spinta socioculturale all’apparire, calata nella fase evolutiva di fisiologica incertezza preadolescenziale e adolescenziale trova nell’uso dei Social uno strumento inconsapevole per deviare verso la costruzione di un Falso Sé che può impattare fortemente sullo sviluppo psicobiologico. 

L’avvento dei Social ha determinato una vera rivoluzione nel modo di pensare e pensarsi, potenzialmente positiva. Grazie ai voli low cost si è modificata la percezione della geografia: le capitali europee sono divenute vicine, raggiungibile in due ore di viaggio e con pochi soldi. Con le nuove tecnologie è la geografia relazionale che cambia drasticamente permettendo di raggiungere scali lontani anche se non si è pronti e preparati per farlo. Nell’apparire sicuri anche se non lo si è (anche se ci si crede) il Falso Sé crea un Avatar pericoloso per se stessi e per gli altri, in particolare se arriva a soppiantare il vero Sé. 

L’Avatar è la scorciatoia ingannevole, il compito copiato da  Wikipedia, che erode il tirocinio fondamentale ancora in corso del misurarsi direttamente con l’altro, con le percezioni corporee della vicinanza (da cui solo posso capire se veramente mi piace o no), sperimentando gioie e dolori di nuove strategie interattive. Il Falso Sé non consente lo sviluppo dei Funzionamenti di fondo, li depriva. 

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I fattori di rischio 

Torniamo allora ai tre fattori di rischio del paragrafo precedente.

Li ricordate? 

1. Primo: l’età 

Assumiamo l'ipotesi assolutamente non scontata, anzi spesso contraddetta che la maturità (quindi lo sviluppo e consistenza del Sé) sia proporzionale all'età. Il livello di maturazione, ovvero il grado di sviluppo del Sé, è la discriminante tra un uso integrato dei Social e l’Avatar. Nel primo caso si hanno a disposizione pattini aggiuntivi alle gambe per spostamenti più rapidi, nel secondo un doping. 

Per un adulto, che nel 2018 appartenga ancora alla maggioranza degli immigrati digitali (nativi non digitali - una specie in via di estinzione nel corso dei prossimi decenni) il rischio è “solo” di farsi e fare del male, in modo consapevole per i più cattivi o inconsapevolmente per i più sprovveduti. Anche per i ragazzi vi sono gli stessi rischi, ma non “solo”. Per loro è in gioco il futuro. 

Sul farsi male abbiamo già evidenziato nella Regola 3 effetti negativi da “sbilanciamento”, tra essi quelli su specifiche Funzioni (come sguardo, posture, e movimenti), e sfiorato il problema delle radiazioni elettromagnetiche. Abbiamo ribadito soprattutto come la dispensa digitale non offra tutti i nutrimenti necessari alla vita, non potendo costituire da sola Esperienze di base del Sé che si fissino in Funzionamenti di fondo: il virtuale tecnologico da solo non può nutrire bisogni profondi. 

Le tecnologie permettono solo esperienze che si aggiungono, sommandosi nella matematica sistemica della Regola dell’1, a Funzionamenti di fondo già attivati, ristrutturando il campo, ma non sopperendo o fornendo soluzioni a frustrazioni profonde. 

La frequentazione delle scorciatoie che l’Avatar del Falso Sé rende possibile, se inversamente proporzionale alla complessificazione del Sé (tanta la prima e scarsa la seconda), determina come detto il rischio di credersi veramente l’Avatar. Uno scambio di lucciole per lanterne, non innocente né meramente mentale, ma fonte di alterazione psicobiologica e di probabile malessere. L’alterata consapevolezza di Sé, basata su segnali interni, percezione e immagine di Sé “dopati” è ingannevole: in primis con sé stessi e poi con l’altro.

L’elenco delle potenziali conseguenze o degli effetti collaterali dell’uso/abuso della tecnologia rischia allora di essere funesto (ma comunque evitabile). È un elenco lungo che comprende elementi tra loro diversi ma simili nei risultati negativi prodotti: fiducie tradite, incontri pericolosi con predatori sessuali e pedofili (un ragazzo ogni cinque che frequentano una chatroom ne ha fatto qualche esperienza), sexting (un ragazzo ogni sette che usano Internet è stato oggetto di qualche messaggio a sfondo sessuale), cyberbullismi vari, deepfaking[5], dipendenze da schermo, Internet e videogiochi, consumismo digitale, furto di identità, suicidi, stalking digitale e soprattutto tanta solitudine che si può tradurre anche in isolamento e fenomeni come quello degli Hikikomor[6]. In più ci sono i problemi legati alla comunicazione virtuale. Come già ricordato in questo e-book, le comunicazioni digitali, a differenza di quelle di un tempo con gli amici di penna, sono piene di buchi. Sono intercettabili con facilità da postini vari (ben descritti nel libro di Carlo Mazzucchelli “I pesci siamo noi. Prede, pescatori e predatori nell'acquario digitale della tecnologia”), vicini dei destinatari e vicini dei vicini e non possono (come le lettere) essere bruciate nel caminetto destinandole all'oblio.

Effetti collaterali, rischi e conseguenze sono oggetto di ricerche di mercato e di studi specialistici (sociologici e psicologici) numerosi che raccontano storie simili nell’evidenziare fenomeni emergenti, comportamenti e tendenze che caratterizzano la relazione di feedback e contro-feedback costante che caratterizza oggi il rapporto con gli strumenti tecnologici. Il quadro che emerge narra di una dipendenza crescente (anche emotiva) e in costante evoluzione che merita maggiore attenzione da parte di genitori ed educatori, psicoterapeuti e psicologi, perché interessa il modo con cui il ragazzo (ragazza) acquisisce nuove conoscenze, comunica, si relaziona e apprende, ma soprattutto costruisce il proprio Sé. 

Molte indagini evidenziano i potenziali effetti negativi in termini di sviluppo delle capacità di elaborazione cognitiva, della memoria e della concentrazione ma anche la scarsa percezione di questi effetti da parte dei ragazzi. Non sono quasi mai preoccupati (il Falso Sé in azione) che la vita relazionale virtuale possa assorbire quella reale, e per nulla convinti della necessità di fare a meno degli strumenti tecnologici che utilizzano in media per quasi sette ore al giorno. 

Molti studi evidenziano anche un’assenza colpevole dei genitori nel determinare regole e modalità d’uso delle tecnologie. Un’assenza determinata in molti casi anche dall’ignoranza sulle nuove tecnologie e dal timore di non potere competere sul tema alla pari con i ragazzi, ma anche dalla ricerca di loro scorciatoie, motivata speso dal sovraccarico di lavoro, dalla mancanza di tempo o dal lasciare ampia libertà di scelta ai figli per favorirne autonomia e indipendenza. Scorciatoie simili a quelle che molti genitori hanno percorso in passato sottovalutando il ruolo del media televisivo nella formazione e sviluppo mentale, cognitivo ed emotivo dei ragazzi. 

I numerosi rischi dell'azione appena accennati, se ricadono su teste adulte, possono anche portare malevolmente a dire “te la sei cercata!”. A un ragazzo no, non lo si può dire. Per lui la realtà virtuale del mondo Social è ancora più drammaticamente reale. Il Sé dei nativi digitali (Millennial, generazione Y e Z) con tutta l’attrezzatura psicobiologica che sostiene le capacità interattive, si è tarato su un mix di relazioni che procedono assieme nelle varie realtà. 

Non conosciamo la formula per una miscela adeguata e neppure la percentuale ottimale di equilibrio tra le due realtà. Come per il tasso alcolico nel sangue, che produce effetti diversi in funzione delle caratteristiche psicocorporee della persona e l’età, sono necessarie norme prudenziali d’uso. Guidare nelle autostrade virtuali e abitare gli spazi sociali della Rete può essere pericoloso. Dannatamente pericoloso se diventa modello incarnato per la guida nelle altre dimensioni, non digitali o virtuali, ma reali e attuali, di vita quotidiana. 

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2. Secondo: la quantità 

È presumibile che anche la quantità di tempo occupata in età evolutiva da interazioni virtuali digitali sia proporzionale in modo inverso alla consistenza del Sé, mentre lo sia direttamente con la profondità della traccia lasciata: più frequentemente compio una esperienza relazionale digitale, tanto più essa determina e tara funzionamenti che si fissano biologicamente nella memoria, divenendo bussola e stella polare per le azione future. 

Una memoria umana che ci obbliga a fare una riflessione necessaria e utile alla sua comprensione in un’epoca caratterizzata dal Cloud Computing e dai Big Data che sembrano destinati a costituire la memoria individuale e collettiva del futuro tecnologico che ci aspetta. 

La memoria umana non va intesa come un semplice archivio (non è un hard disk e neppure un semplice database o server Dropbox) ma più come un sistema operativo. Non è situata in un organo specifico del Sistema Nervoso (anche la memoria tecnologica di molti Data Center in Cloud Computing è distribuita su più risorse tra loro distanti, ma si sa che la tecnologia sta forse semplicemente  replicando l’organizzazione del cervello). Nel cervello umano è diffusa su più strutture che collaborano in modo sistemico (tra esse l’amigdala, l’ippocampo, la corteccia). 

Anche come Funzione la memoria umana è sfaccettata in base a specializzazioni applicative e risorse usate. Esiste una Memoria dichiarativa (quella che ci fa ricordare eventi,  nozioni, volti delle persone ….) e una Memoria procedurale che ci permette di ricordare appunto le procedure, da come si  va in bicicletta a come si reagisce a un allarme. Quest’ultima è una memoria molto corporea e poco consapevole, simile ai tratti della personalità[7]

Alla memoria umana si accede da più porte grazie alla complessità integrata delle esperienze che, già in fase di archiviazione (quando le abbiamo vissute), hanno depositato materiali molteplici di contenuti dichiarativi ma anche sensomotori ed emozionali. Ricordare è una operazione di scelta di ciò che riteniamo necessario ricordare in quel momento, anche quando lo si fa in modo inconsapevole. La scelta è a sua volta condizionata dall’ordine dell’archivio, il suo modo di catalogazione, la presenza di tanto materiale di un tipo specifico, il posizionamento gerarchico. Un bibliotecario di rilievo che ci accompagna nella scelta è la valenza emozionale dei ricordi, che ha la sua postazione nell’amigdala e da lì può condizionare tutta la memoria dichiarativa. 

È un sistema complesso e imperfetto che porta a colmare buchi, e produrre talora falsi ricordi. Il rischio è maggiore quanto meno i dati archiviati sono integrati tra loro, poveri di particolari sensoriali vissuti  (come odori, sensazioni tattili) ed emozioni legate alla prossimità corporea. Sono dati cosiddetti “deboli”. 

Le esperienze relazionali digitali divengono dati deboli se non sono integrati con quelli provenienti da relazioni tra corpi. La formula è semplice nella sua complessità: Maggiore ricchezza delle esperienze = memoria più ricca (il sistema operativo lavora meglio) = meno errori. 

1.Terzo: cosa faccio nel resto del tempo 

Ovvero l’altro piatto della bilancia. Il rischio di effetti negativi da frequentazione dei social è legato anche, forse soprattutto, alla quantità delle esperienze relazionali senza display di mezzo (prima definite riduttivamente relazioni tra corpi). È un tempo elevato, in costante aumento che assume una rilevanza quantitativa (quante ore passate online) ma anche qualitativa (come e per cosa questo tempo è utilizzato). È un tempo dilatato che suggerisce ai genitori una attenzione particolare e partecipata con l’obiettivo di comprendere le esperienze tecnologiche dei loro figli vivendole e parlandone con loro, e per sperimentarle in modo da sfruttarne le potenzialità limitandone gli effetti negativi.

Prestare attenzione all’uso del tempo tecnologico da parte dei ragazzi significa oggi fondamentalmente porsi delle domande sui loro comportamenti, abitudini e stili di vita. Farlo permette anche ai genitori di riflettere sul loro ruolo e sulle loro pratiche genitoriali finalizzate a capire i bisogni dei figli, a fare delle scelte e a prendere delle decisioni.

Qui di seguito un elenco di comportamenti sui quali porre attenzione, ad esempio ponendosi alcune domande :

  • Comportamenti sintomatici dell’emergere di problematicità: ad esempio bisogni compulsivi di essere online e di avere accesso a un dispositivo personale, calo di interesse per attività offline, calo prestazionale scolastico, problemi con il sonno e i pasti, reazioni psicologiche e stati d’umore dominati da irritazione, depressione, sonnolenza, ansia, ecc.
  • Il tempo dedicato all’irresistibile schermo: oggi i ragazzi sembrano incapaci di staccarsi dai molteplici schermi che animano le loro vite e di separarsi per un momento dalla tecnologia. Qual è il punto di  non ritorno che determina il passaggio da un beneficio ad un danno potenziale? Quando è necessario disconnettersi?
  • Il tempo dedicato al videogioco: lasciati soli molti ragazzi passano la maggior parte del loro tempo immersi in videogiochi e avventure virtuali. Alcuni finiscono per chiudersi in una stanza popolata di schermi e interpretare il ruolo di Hikikomoro. Quando è necessario intervenire per limitare il tempo di gioco?
  • Il tempo dedicato alla navigazione in Internet e sicurezza: la Rete è piena di contenuti spazzatura e non appropriati per i ragazzi (non solo fake news). Come proteggerli senza impedire loro di trarre beneficio dalla navigazione in rete? Come renderli consapevoli della serietà e pericolosità dei rischi a cui possono andare incontro? Come convincerli a seguire i suggerimenti degli adulti?
  • Il tempo libero sottratto dalla tecnologia: la dipendenza tecnologica è tale da far dubitare che esista ancora un tempo ludico nel quale la tecnologia non esista. L’istantaneità e facilità con cui la tecnologia regala divertimento ludico e distrazione mette a rischio il gioco, il passatempo e altre forme di attività tradizionali. È ancora possibile una creatività e capacità produttiva di nuove forme di intrattenimento e divertimento senza ricorrere a mezzi tecnologici?
  • Tempo sottratto alla vita sociale: molti ragazzi sembrano sempre più interessati alla interazione con la tecnologia che al gioco sociale con gli amici. Ci sono rischi in termini di socializzazione e sviluppo di capacità utili per muoversi in ambiti e scenari sociali? Quanto può pesare l’assenza di incontri faccia a faccia con persone reali nello sviluppo della personalità e dell’identità del ragazzo?
  • Tempo sottratto allo studio tradizionale: l’apprendimento si sta facendo sempre più digitale, anche a scuola. Il tablet è entrato nelle aule scolastiche sostituendo il libro e dando forma a nuove metodologie didattiche. Quanto può pesare, nell’apprendimento, la sparizione di strumenti tradizionali e quali comportamenti indicano potenziali rischi emergenti?
  • La difficoltà di concentrazione: la tecnologia offre così tante distrazioni da rendere difficile ai ragazzi mantenere alto il livello di attenzione e di concentrarsi. Spesso i dispositivi tecnologici sono usati come strumenti di lavoro e di studio ma la loro natura poli-funzionale offre mille opportunità di distrazione. Come è possibile intervenire per tenerli focalizzati e concentrati nel completamento delle loro attività primarie, di lavoro o di studio?
  • Il presenzialismo sui social network: molti atteggiamenti dei ragazzi che frequentano i social network sono determinati dalla paura di perdersi qualcosa. Per non correre questo rischio molti di loro sono costantemente online e fanno un uso compulsivo di Internet e di media sociali come Facebook. Cosa possono fare i genitori per mitigare queste forme di compulsione? Quali devono essere i comportamenti genitoriali con ragazzi di età diverse e appartenenti a nuclei generazionali differenti?
  • L’evoluzione continua della tecnologia: la tecnologia continua a evolvere e a fornire ai ragazzi nuove opportunità di interazione e di vita digitale. Ogni nuova tecnologia può portarsi appresso nuove tipologie di rischio e nuove preoccupazioni. Cosa possono fare i genitori Tecnovigili per venirne a conoscenza per tempo in modo da intervenire per prevenire o da attrezzarsi per il futuro?
  • Il ruolo che cambia dei genitori e della genitorialità: la tecnologia non sta sostituendo soltanto oggetti ma mettendo a rischio anche il ruolo che adulti, insegnanti e genitori hanno nell’educazione dei ragazzi. Aumenta il tempo dedicato ai computer, a Internet e ai social network e diminuisce quello dedicato alle relazioni e interazioni inter-generazionali.

Cosa fare per trovare un ruolo diverso nell’educazione dei ragazzi garantendo loro la libertà di sperimentare i loro mondi digitali senza effetti negativi sulla loro formazione e senza rischi?

La cornice (framework) di riferimento per una strategia genitoriale. 

Gli ambiti di riflessioni sopra esposti possono tradursi nelle semplici domande che abbiamo esemplificato. Domande da porsi e porre ad adolescenti e ragazzi. Domande che, una volta fatte affiorare ed elaborate possono facilitare ai genitori la comprensione e l’espressione della loro genitorialità[8] tecnologica. Domande all’apparenza familiari ma le sui risposte non sono mai semplici. Al contrario sono complesse e problematiche perché legate a come crescere gli adulti che i bambini saranno in futuro. Gli argomenti e i temi oggetto di queste domande e risposte dovrebbero diventare oggetto di discussione familiare costante, in modo aperto, franco e non accusatorio. 

Una discussione da alimentare costantemente e che può nascere dalla capacità di porsi sempre nuove domande, come le seguenti: 

  • Quanto tempo dei pomeriggi post-scolastici e dei giorni festivi è dedicato dal ragazzo a interagire fisicamente con altri coetanei e amici, facendo cose assieme, giocando, discutendo o giocando? Cosa fare se questo tempo non è nemmeno un terzo di quello dedicato all’interazione online?
  • Quanto è ricercato, desiderato, motivato e percepito come piacevole il tempo della relazione reale?
  • Quanto è reso possibile e facile al ragazzo (figlio e figlia) coltivare occasioni di incontro sociale nella realtà al di fuori degli acquari tecnologici? Quali sono le fonti, le opportunità per farlo o le scorciatoie per evitarlo?
  • Quanto del tempo usato nei social è inutile e quanto al contrario è generatore di potenziali benefici e vantaggi? Il tempo inutile potrebbe essere eliminato e sostituito con attività e tempo utile al nutrimento e allo sviluppo del Sé del ragazzo?
  • Quanto tempo delle relazioni in corso praticate dal ragazzo nella vita reale finisce per essere sottratto dalle frequenti e compulsive attività di controllo del dispositivo tecnologico personale (mediamente un ragazzo interagisce con il proprio smartphone trecento volte al giorno con quasi tremila contatti tattili sul display)?.
  • Quanto frequentemente succede che venga rinviato o ripianificato un appuntamento al giardino o in piazza rispetto a quello online? È più facile che si rinunci al primo o al secondo?
  • Quanto è grande il bisogno, implicitamente o esplicitamente manifestato dai ragazzi, di una interazione non mediata tecnologicamente con i genitori? Quanto è grande la loro irritazione quando i genitori passano buona parte del tempo condiviso casalingo a interagire con i loro dispositivi (scorciatoie lavorative, alla ricerca di relax, ecc.)?
  • Quanto è forte la richiesta di attenzione e coinvolgimento in conversazioni empatiche e dialoghi diretti, a tavola, in salotto, nella cameretta?
  • Quanto tempo viene rubato alla lettura, anche quella fatta ad alta voce a bambini in età pre-adolescenziale?
  • Quanto tempo viene dedicato all’affiancamento dei bambini durante la loro interazione con strumenti e piattaforme tecnologiche?
  • Quanto è grave la dipendenza dallo strumento tecnologico (nomofobia[9]) e la sua evoluzione nel tempo?
  • Quanto è grande la difficoltà a distogliere l’attenzione da un videogioco o social network e di concentrarsi in attività non digitali?
  • Quanto tempo viene lasciato ai bambini da trascorrere da soli con i loro pensieri, coltivando il potere creativo e consolatorio dell’immaginazione? 

L’elenco delle domande potrebbe continuare ancora a lungo ma riteniamo più utile lasciare spazio e tempo al lettore di formulare le proprie, contestualizzate alla loro situazione familiare, sociale e relazionale, alla loro conoscenza tecnologica e approccio genitoriale. Sono domande formative per genitori Tecnovigili, capaci di interagire con ragazzi, nativi digitali e nati Tecnorapidi, con l’obiettivo di favorire la crescita psico-biologica integrata del bambino e lo sviluppo del suo Sé. 

Alle domande deve seguire necessariamente la definizione di qualche forma di strategia genitoriale ed educativa, di approcci dialogici e didattici, di buone pratiche, traducibili o indotte da norme prudenziali e utili a prevenire gli effetti collaterali della tecnologia. Effetti dei quali si comincia ad avere una crescente consapevolezza. 

L’elenco che segue è il nostro contributo per la costruzione di un contenitore normativo utile a suggerire buone pratiche genitoriali. Un contributo usato per preparare il terreno alle nostre due ultime regole o buone pratiche con le quali cercheremo di stabilire una conversazione diretta con i genitori ai quali abbiamo dedicato questo libro. Due regole nelle quali con loro vorremmo parlare a tu per tu. 

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Norme prudenziali e urgenti 

Quando i figli iniziano a frequentare gli spazi pubblici e le piazze cittadine (specialmente la sera) ogni genitore, chi più rigidamente chi meno, interviene. Lo fa ponendo delle domande con l’obiettivo di raccogliere informazioni e conoscenze, ma anche formulando e imponendo delle regole. Perché dovrebbe essere differente per le piazze digitali, diventate spazi abitabili e soprattutto occasione di esperienze e opportunità di incontri ineguagliabili nella vita reale? 

Le norme prudenziali da adottare non possono essere imposte ma suggerite e condivise. Devono poter essere percepite come coerenti da un punto di vista valoriale, cognitivo e comportamentale. 

Dovrebbero essere ispirate a buone pratiche genitoriali riassumibili in alcuni valori/concetti quali la cultura e l’informazione, il dialogo, il confronto e la conversazione, il dare il buon esempio, la prevenzione e l’educazione, l’ascolto, l’interazione, la comunicazione e l’affiancamento: 

  • Cercare di acculturarsi sulle nuove tecnologie per apprenderne meccanismi, funzionalità, effetti sulla vita delle persone e vulnerabilità (ad esempio cercando di comprendere molto bene il ruolo assunto dai profili digitali con cui si frequentano i social network, entità dalle identità autonome e che abitano la rete in forma di avatar, sosia digitali, alter-ego e simulacri personali)
  • Contribuire alla crescita del bambino aiutandolo a imparare, a parlare e a sviluppare le sue abilità cognitive attraverso un'interazione diretta con altri esseri umani in modo da evitare quello che alcuni psicologi chiamano il video deficit effect. Oggi buona parte dell'apprendimento del bambino avviene in realtà virtuali, distaccate da quelle reali, attraverso avatar, APP, immagini 3D e altre meraviglie tecnologiche che mettono a rischio anche altre abilità come quelle empatiche, sociali, relazionali e per la risoluzione di problemi.
  • Informarsi sui pericoli potenziali delle nuove tecnologie, in particolare per ragazzi in età pre-adolescenziale e adolescenziale
  • Investigare quali tipo di protezioni e misure preventive sono state adottate dalle scuole frequentate dai ragazzi e quali siano le possibilità di accesso alla rete che hanno in luoghi pubblici o in case di amici
  • Insegnare ai ragazzi la responsabilità nell’uso degli strumenti di comunicazione online
  • Dialogare e conversare empaticamente con i propri ragazzi evitando di comunicare via SMS, WhatsApp, chatbot e social network
  • Interagire frequentemente, parlare e fare cose insieme
  • In un’epoca di distrazione e crescente difficoltà alla concentrazione, i genitori devonosaper cogliere la richiesta di contatto fisico e coinvolgimento che viene dai loro figli, devono reimparare l’arte di prestare attenzione e in particolare quella di saper ascoltare
  • Favorire conversazioni reali tra i figli e i loro amici nella vita reale, insegnando loro la differenza tra l’essere connessi, il messaggiare (online) e farlo nella vita reale. La conversazione sugli schermi è un modo di raccontarsi per come si vorrebbe essere, apportando miglioramenti e ritocchi alla propria immagine. E’ un comportamento che nasce dal bisogno di essere uno accanto all’altro ma lo strumento usato non funziona. Manca la componente dell’empatia, la possibilità di decifrare le emozioni degli altri e le proprie. Il genitore che comprende queste carenze e difficoltà può favorire forme di conversazione cinestetiche,  evidenziando l’importanza dell’ascolto, della comunicazione non verbale, la capacità di leggere il linguaggio del corpo, sentirne la voce, comprendere e valutare i toni della voce, i silenzi, ecc.[10]
  • Dare il buon esempio (a tavola smartphone e tablet sempre spenti o disattivati e televisore vietato)
  • Comunicare e mettere in guardia i ragazzi sull’uso delle loro risorse online.
  • Affiancare i propri figli e ragazzi fin dalla più tenera età educandoli all’uso della tecnologia facendo sentire forte il proprio coinvolgimento
  • Dedicare tempo alla lettura
  • Favorire la creatività del bambino in modo che possa sviluppare la sua personalità originale, e la sua capacità di immaginare (la fiaba della buona notte come momento propizio ideale), ma anche di collaborazione sociale e di gruppo.
  • Non vietare ma spiegare, far conoscere e condividere
  • Evitare di frequentare i social network per controllare e sorvegliare o quantomeno farlo in incognito
  • Evitare di incolpare i ragazzi nel caso in cui fossero già caduti vittime di molestie sessuali online. La responsabilità è sempre del predatore, mai della vittima
  • Favorire la lettura e la ricerca lontano dalle risposte certe di Google e del suo motore di ricerca e dalle conoscenze insufficienti e non sempre verificabili di Wikipedia
  • Contribuire a far comprendere ai ragazzi che la relazione non può limitarsi alla semplice e veloce interazione di un click, di un messaggio o di un post su Facebook o Instagram. La relazione richiede tempo, ha bisogno di essere alimentata e coltivata. Ha valore se dura nel tempo!
  • Suggerire e favorire attività fisiche, sportive e ludiche in spazi fisici non inquinati dalla tecnologia se non quella di eventuali attrezzature sportive
  • Prestare molta attenzione a comportamenti e atteggiamenti di isolamento e chiusura
  • Definire nello spazio domestico spazi temporaneamente o permanentemente liberi dalla tecnologia
  • Riunificare tutto ciò che precede in un galateo comportamentale e familiare
  • Fare gruppo e condividere approcci genitoriali e problemi con altri gruppi familiari e o psicoterapeuti e psicologi
  • Prepararsi a gestire conflittualità, resistenze e ribellioni
  • Predisporsi e imparare a gestire la conflittualità stress che deriverà dalla definizione di norme e regole sull’uso degli strumenti tecnologici
  • Infine rilassarsi e non essere troppo ansiosi. Fidarsi di più dei ragazzi conviene! 

All’interno di questo framework (cornice) valoriale e comportamentale o simili, sarà allora possibile e più facile proporre delle norme prudenziali capaci di prevenire potenziali rischi e pericoli, ma soprattutto di contribuire allo sviluppo psico-biologico del bambino tecnorapido. Il contributo può venire dall’adottare i suggerimenti da noi forniti nella forma di buone pratiche ma anche dalla capacità di continuare ad acculturarsi sul ruolo della tecnologia nella vita reale dei figli, in particolare nel periodo neonatale e adolescenziale. Un periodo nel quale fare la scelta di vietare un dispositivo o impedire l’esposizione prolungata al suo display dipende da scelte genitoriali e assunzione di responsabilità. Scelte non facili ma che possono avere conseguenze importanti per la vita da aulto del bambino. Scelte semplici ma difficili come l’imposizione di spazi domestici liberati da ogni tipo di tecnologia o quali piattaforme di social networking frequentare con relative modalità di utilizzo (suggerite e non necessariamente imposte). Infine scelte che, suggerendo atteggiamenti da adottare, stili di vita e approcci, possono contribuire a avitare situazioni di sexting, bullismi digitali vari e dipendenze tecnologiche.

 


NOTE

[2] Il posizionamento in famiglia rimane importante anche per gli adolescenti, non svanisce.

 

[3] Sul tema segnaliamo il libro L'età dell'incertezza. Capire l'adolescenza per capire i nostri ragazzi di Libro di Vera Slepoj 

[4] Winnicott D. W. (1960). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando: Roma;  Winnicott D. W. (1975). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Feltrinelli: Firenze ;  Winnicott D. W. (1971). Gioco e realtà. Fabbri Editore: Milano.

[5] Con deepfake si descrive la capacità di una manipolazione profonda realizzata attraverso strumenti di intelligenza artificiale che permettono di intervenire sia sulla voce sia sulle immagini. È una manipolazione assimilabile a quella di Photoshop ma più potente nella sua capacità di produrre risultati che cambiano la realtà permettendo ad esempio di sostituire le facce dei protagonisti di un video così come le loro voci, imitate alla perfezione. Il deepfaking è stato usato recentemente per motivi politici o di stalking. Ad esempio sono stati messi in circolazione video pornografici con protagoniste attrici famose che mai si erano prestate per questo tipo di video. Il deepfaking è emerso per la prima volta nel 2017 su piattaforme come Reddit, Pornohub e altre ancora. In politica è usato contro leader politici per danneggiarne la carriera o manipolare e condizionare i risultati elettorali. Gli strumenti tecnologici per praticarlo sono disponibili a tutti. Potrebbero pertanto anche essere usati da ragazzi e ragazze per stalking, sexting o cyberbullismo nei confronti di coetanei e compagni di classe. 

[6] Con il termine Hikikomori (引きこもり o 引き籠も - dal giapponese Hiku – tirarsi indietro – e Komori – ritirarsi) , definito anche come Social Withdrawal (fuga dalla socialità - autoreclusione) si definisce la condizione sociale caratterizzata dalla ricerca di isolamento tra mura domestiche, sentimenti di solitudine, fuga dalla società e dalle relazioni interpersonali. Una condizione che oggi è diventata fenomeno e sindrome sociale e che coinvolge un numero crescente di adolescenti e giovani (14-30 anni). Ragazzi e ragazze (il fenomeno però è maggiormente maschile) che decidono di chiudersi in camera rifiutando qualsiasi contatto reale, visivo, e che non sia digitale, con genitori, parenti e  amici, in modo da evitare qualsiasi tipo di coinvolgimento/relazione fisica ed emotiva (intima). Le cause del fenomeno sono state individuate nella difficoltà relazionali, nell’insicurezza, in sentimenti di vergogna e fallimento (sul lavoro e a scuola), nella scarsità di motivazioni personali, problemi psicologici, ecc. Il fenomeno è in crescita ovunque nel mondo, anche in Italia  e vede un numero crescente di ragazzi e ragazze preferire la dimensione sociale della piattaforma virtuale a quella della realtà. Una preferenza determinata da senso di appartenenza, accettazione immediata e tante altre scorciatoie di cui parliamo in questo e-book. 

[7]  Eric Kandel, Larry Squire “Come funziona la memoria”, Zanichelli, 2010

[8] Genitorialità: “Il termine genitorialità è entrato nell'uso del linguaggio psicologico per indicare le interiotizzazioni che accompagnano la funzione biologica dell'essere genitori. Nelle moderne società industriali la genitorialità genitorialità può essere vista come uno stato volontario, che è scelto e che può essere evitato, e non più come un evento ineluttabile nel normale ciclo vitale. Secondo questo punto di vista, essa non si configura in un semplice ruolo, bensì in una 'funzione', che non coincide necessariamente con la maternità e la paternità biologiche, ma si estrinseca nella 'capacità di prendersi cura'.” (Dizionario Treccani)

[9] Nomofobia è un termine di recente introduzione (nomophobia nel mondo anglosassone) che designa la paura incontrollata di rimanere sconnessi dal contatto con la rete di telefonia mobile. Secondo alcuni studi, circa il 58 per cento degli uomini e il 48 per cento delle donne soffrono di questa fobia, e che un altro 9 per cento è stressato quando il cellulare è fuori uso (Wikipedia)

[10]  Sul tema della conversazione suggeriamo la lettura del bel libdo di Sherry Turkle: La conversazione necessaria – la forza del dialogo nell’era digitale.  Il libro contiene i risultati di indagine sul campo, fatte a contatto diretto con le nuove generazioni di ragazzi e ragazze Nativi Digitali. Secondo la Turkle, che si rivolge ai genitori, è importante capire che  “La perdita di parlare faccia a faccia con gli altri  - con empatia, imparando nel comptempo a sopportare solitudine e inquietudini – rischia di ridurre le nostre capacità di riflessione e concentrazione,portandoci, nei casi estremi, a stati di dissociazione psichica e cognitiva.”

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