
Qui l'articolo del New Yorker da cui tutto ha avuto inizio.
La passeggiata della vergogna trova su internet la sua passerella. “Shame” scandisce l’utente, lasciando che la sua campana rintocchi a suon di emoticon contrariate e punti esclamativi, mentre il presunto trasgressore sfila sotto il biasimo degli altri utenti. “Dagli all’untore” che ha deciso di tornare a casa per le feste di Natale e dunque di uccidere i propri genitori, che corre per strada senza mascherina, che è partito per un viaggio. La “Public shaming pandemic” è un fenomeno nato con la pandemia: il virus è un nemico invisibile da combattere, i social cercano allora connotati più delineati verso i quali è possibile sfogare la paura tramutata in rabbia e frustrazione. Il trasgressore delle norme, o anche solo presunto tale, viene esposto alla gogna pubblica, costretto a provare vergogna per le sue azioni. Nella cassa di risonanza social, la platea accresce di minuto in minuto. Non importa se in alcuni casi le motivazioni siano valide, se le precauzioni siano state effettivamente prese. La sentenza del tribunale online è immediata, non lascia appello, non offre arringa alla difesa, soffocata sotto il dito accusatorio di centinaia, migliaia di utenti che emettono la condanna di “mostri assassini”.
La vergogna non è una risposta nuova dell’umanità alla malattia, ma il web le ha offerto un nuovo mezzo, sostiene D.T. Max, scrittore e giornalista per il The New Yorker: “Internet, con la sua opportunità di anonimato, la sua assenza di mediatori e il suo ingigantimento di danni temporanei, ha reso estremamente facile generare indignazione di massa istantanea”. Le campagne di vergogna online possono essere un valido strumento di lotta per ottenere diritti civili, ma possono diventare ingiuste e sproporzionate, se rivolte contro il privato cittadino, con una “portata devastante”.