
Milioni di frequentatori della piattaforma Facebook ogni giorno caricano online milioni di foto che, se non vietato dai parametri usati per configurare il profilo personale, gli algoritmi di Facebook (Deepface) scannerizzano e analizzano per riconoscerle e assegnare loro un nome e un cognome. Un’attività che, grazie ad algoritmi capaci di apprendere, migliora costantemente e sta dando vita alla banca dati di facce più grande del mondo.
👩🚒️👩🚒️ La libertà de(a)llo schermo
Questa attività di riconoscimento facciale e di archiviazione è resa possibile dalle attività online degli utenti, dalla loro negligenza e complicità nel gestire attentamente i parametri di configurazione dei loro profili online. Sono gli utenti che permettono agli algoritmi di apprendere attraverso le numerose foto personali caricate, foto da diverse angolature, con tagli di capelli e vestiti diversi, ecc.
La memorizzazione digitale delle face per futuri riconoscimenti e identificazioni rapidi è un’attività perseguita da tempo da polizie e guardie aeroportuali di mezzo mondo. Nessuno si scandalizza per questo ma molti ritengono che sia necessaria una migliore regolamentazione così come porre dei limiti. Le immagini raccolte sono sicuramente necessarie per azioni preventive di polizia e per rafforzare i controlli dell’immigrazione negli scali e negli aeroporti, ma si prestano anche ad abusi e manipolazioni, oltre che preparare alla sorveglianza di massa futura.
Le attività governative di identificazione degli individui attraverso immagini sono rese possibili, come ha rivelato lo scandalo NSA negli Stati Uniti, dalla cooperazione con le aziende tecnologiche come Facebook, Google e Microsoft ma anche Amazon (tecnologia Rekognition). Queste attività hanno dato origine a numerose proteste pubbliche, mentre rimane nell’ombra e sembra interessare meno la raccolta dati e la sorveglianza che viene esercitata a livello privato, attraverso l’uso delle informazioni che ognuno genera online attraverso la sua frequentazione delle piattaforme social digitali.
Il riconoscimento facciale è sempre più diffuso in Cina, usato anche per identificare gli alunni che entrano a scuola e studiare, una volta in classe, i loro stati d’animo e umori. Si usano applicazioni di riconoscimento facciale per scopi commerciali, ad esempio negli stadi per personalizzare promozioni e pubblicità. E l’elenco potrebbe continuare.
Il fatto però che a usare tecnologie di riconoscimento facciale sia la piattaforma di social networking più diffusa al mondo dovrebbe però suonare come un campanello d’allarme e suggerire una qualche riflessione critica. Non solo da parte di studiosi dei media e intellettuali, da attivisti politici e anti-social, ma soprattutto da parte di tutti coloro che abitano per diverse ore al giorno i mondi virtuali e sociali della Rete. La riflessione dovrebbe focalizzarsi non tanto sulla memorizzazione di una faccia per futuri riconoscimenti facciali ma per la mole impressionante di informazioni che Facebook è in grado di associare a essa, in termini di preferenze, comportamenti, non solo individuali ma anche sociali e di gruppo. Il tutto finalizzato a personalizzare meglio le attività promozionali degli inserzionisti e a incrementare il business della pubblicità online.
Facebook racconta di non cedere i dati raccolti a terzi e questo forse è vero. Sta di fatto che quei dati servono a Facebook per vendere agli inserzionisti l’opportunità di raggiungere in modo mirato e personalizzato le audience alle quali sono più interessati. Inoltre lo scandalo Cambridge Analytica ha insegnato che non bisogna prendere seriamente le numerose dichiarazioni del management di Facebook sul rispetto della privacy e della riservatezza dei dati degli utenti. Nulla vieta poi a Facebook utilizzi futuri, fuori controllo e all’insaputa dei soggetti interessati, nell’uso dei dati, compresi quelli delle immagini e delle facce.
Un panorama e scenari che dovrebbero convincere molti a interagire con piattaforme come Facebook con circospezione e tanta #Tecnoconsapevolezza.