
La 'disruptive theory' elaborata da Clayton Christensen ha avuto fin dalla sua apparizione grande successo per la sua capacità di attrarre l'attenzione di esperti, dei comuni mortali e dei media. E' una teoria semplice, facilmente comprensibile e applicabile. Al cuore di questa teoria c'è una tipologia di tecnologia denominata 'disruptive' che sembra non essere particolarmente attrattiva per mercati nei quali esistono già prodotti simili consolidati nel tempo ma che ha una capacità evolutiva e di miglioramento tale da conquistare il mercato preesistente mettendo in crisi le leadership esistenti, portando le loro aziende in alcuni casi al fallimento.
L’iPad di Apple ha fatto percepire il sistema PC con Windows una piattaforma vecchia e superata. Non perché gli attributi e le caratteristiche tecnico-funzionali dell’iPad siano apparsi particolarmente interessanti ai fedeli clienti di Microsoft ma perché alcuni attributi del prodotto di Apple sono stati percepiti, da molti altri potenziali clienti, superiori a quelli del personal computer tradizionale. I produttori di dispositivi GPS portatili sono stati spiazzati dal rilascio, da parte di Google, di un servizio di navigazione collegato ad una applicazione mobile di Google Maps. Le aziende produttrici di musica e CD sono state annichilite dal successo di iTunes di Apple con il suo servizio di musica digitale. E la lista potrebbe continuare!
Ignorare le nuove tecnologie emergenti ritenendole incapaci a soddisfare i bisogni dei suoi clienti e non integrabili nei suoi modelli di business ha messo in difficoltà Microsoft obbligandola a una rincorsa competitiva complicata e non ancora terminata con successo.
Per comprendere la validità della teoria della disruption è sufficiente ripercorrere la storia delle aziende tecnologiche e verificare quante di esse si siano dissolte nel vento pur avendo fatto la storia oppure sono state acquistate come Nokia, Motorola o stiano vivendo peiodi complicati come Sony-Ericsson e BlackBerry. Aziende come DEC (Digital Equipment Corporation) che hanno compiuto buone scelte e definito valide strategie per decenni e che proprio per averlo fatto hanno finito per trovarsi spiazzate rispetto alle novità emergenti del mercato. A conferma del dilemma dell’innovatore che recita: “fare la cosa giusta è la cosa sbagliata da fare”.
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Continuare a fare le stesse scelte perché nel tempo hanno dimostrato la loro validità può impedire di trarre vantaggio da nuove opportunità, non perché siano state perdute ma perché semplicemente non si sapeva neppure che potessero esistere. I produtori di mainframe hanno sicuramente continuato a fare le scelte giuste nel migliorarne performance e caratteristiche tecniche per soddisfare i bisogni dei loro clienti, ma così facendo hanno perso la grande opportunità dei sistemi aperti, del client-server e di tecnologie ‘disruptive’ come il personal computer. IBM e poche altre aziende di questo tipo sono ancora sul mercato ma tutte le altre, compresa DEC, sono praticamente scomparse, lasciando sul terreno centinaia di posti di lavoro perduti.
Per non cambiare modelli di business incentrati su grandi sistemi e enormi profitti, le aziende come DEC hanno snobbato nuovi modelli costruiti su prodotti a marginalità limitata e con un mercato composto da una maggioranza di clienti meno profittevoli. Questi clienti, trasformatisi in consumatori, hanno determinato la rivoluzione del PC e oggi stanno determinando quella ancora più disruptive del Mobile.
Compresa la lezione molte aziende si sono messe a studiare la teoria di Christensen, a creare nuovi posizioni lavorative associate all’innovazione e a cercare esperti capaci di applicarla in modo da fornire nuovi modelli, approcci e strumenti per gestire l’ansia e il panico che sempre nasce quando si percepisce la necessità impellente del cambiamento con lo scopo di resistere a nuovi big bang tecnologici causati dall’innovazione e dai numerosi nuovi fenomeni e prodotti tecnologici emergenti emergenti.
I nuovi fenomeni e la competizione che ne deriva sono spesso originati da piccole startup, senza leader, senza grande potere mediatico o immagine. Piccole realtà aziendali che all’improvviso diventano estremamente aggressive e pericolose perché capaci di disintermediare o mandare in pensione intere generazioni di aziende più vecchie, anche se molto più ricche, potenti e strutturate.
La ‘disruption theory’ sembra perfetta per tutti coloro che credono nell’idea del progresso continuo e che oggi non hanno alcun problema a sostituire la parola progresso con innovazione, un termine usato anche da Schumpeter per descrivere i cicli economici legati alla introduzione di nuovi prodotti sul mercato. La teoria non può però essere usata in modo predittivo. Il futuro continua a rimanere non prevedibile e solo raccontabile dopo che eventualmente una certa tecnologia ‘disruptive’ si sia affermata.
A posteriori molti ‘fallimenti’, associati alla non applicazione della ‘disruptive theory’, appariranno come causati da cattivo management. Solo a posteriori si può scoprire il perché dei fallimenti di numerose startup molto innovative e ‘disruptive’ e concludere che anche il loro fallimento è una dimostrazione della validità della teoria. Sempre a posteriori è possibile scoprire che tra le ragioni del fallimento di alcune aziende c’è stata proprio la volontà e la decisione di innovare in modalità ‘disruptive’ linee di prodotto e portafoglio d’offerta, modelli organizzativi e programmi di ricerca e sviluppo.
Innovare e cambiare sembra essere diventato il mantra più pervasivo del momento, anche in politica. La teoria di Christensen può essere utile per capire molti fallimenti ma non aiuta a comprendere i cambiamenti in atto e soprattutto non permette di fare facili profezie o di garantire la sopravvivenza nel tempo di una idea di cambiamento o innovazione.
Forse non è un caso che molte startup tecnologiche denominate ‘disruptive’, dopo poco tempo dall’introduzione dei loro nuovi prodotti sul mercato, preferiscono vendere l’azienda, incassare e passare a qualcosa di nuovo.
Naturalmente sempre di tipo ‘disruptive’ e innovativo, con l’obiettivo di ripetere la strategia vincente già sperimentata.
* Spunti per l'articolo tratti dal New Yorker: articolo di Jill Lepore
Fonte: http://techcrunch.com/