IL DONO

27 Febbraio 2021 Massimo Angelini
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Massimo Angelini
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Grazie è tra le parole più comuni della nostra lingua; fa parte del vocabolario di base, è tra le prime parole insegnate ai bambini, elementare come mamma, papà, ciao… e poche altre, che costituiscono il nucleo di parole fondamentali della relazione. Tuttavia è parola che, osservo tra le pagine della mia memoria, sta perdendo campo, si dice di meno. Grazie è anche risposta reattiva, automatica: ricevo qualcosa – un oggetto, del denaro, un augurio – e dico (o dovrei dire) grazie. Automaticamente; senza rifletterci; si dice così; è contraccambio verbale di ciò che si riceve. Ma questa parola così comune, così familiare, così scontata, così automatica, così non più pensata, nel profondo cosa significa?

(da Ecologia della parola, un libro di Massimo Angelini - Savona : Pentàgora, 2017, pag. 91-95) 

Grazie viene dal latino gratiæ che a sua volta è calco del greco chárites, plurale di cháris. E cháris esprime il dono: non il controdono – quello che si fa per avere qualcosa o per contraccambiare qualcosa che si è ricevuto – ma il dono incondizionato, libero, quello che non attende di essere ricambiato. 

Da cháris vengono parole come carità, la propensione al dono; carisma, sono chiamati così i doni dello Spirito; carezza, il piccolo dono; ti chiamo caro per dirti che per me sei prezioso come un dono; e da qui, dall’accostamento del dono al suo valore prezioso, per analogia caro riceve anche il secondo significato di costoso, di cosa ha un prezzo elevato. Poi, poiché ciò che è prezioso spesso è anche raro, si ha un capovolgimento del significato fino a fare denotare con il latino càrere, ciò che manca, del quale c’è carenza, fino alla carestia. Da cháris viene anche eucaristia (prefisso greco eu, buono), il buon dono, e ancora oggi, in Grecia, per dire grazie si dice eucharistò

Dunque, quando diciamo grazie, sostanzialmente diciamo ‘dono’, e così facendo chiamiamo il dono per nome. Ma perché se riceviamo qualcosa a chi ce la porge diciamo ‘dono’? Perché chiamiamo quella cosa per nome. Possiamo dire che facciamo come quando s’incontra un amico e, mentre si avvicina, non troppo lontano e non ancora a tiro di abbraccio o di stretta di mano, lo chiamiamo per nome. E facendo così gli diciamo ‘ti riconosco’. Ecco: dicendo grazie riconosciamo la natura del dono, compiamo un riconoscimento, agiamo la riconoscenza che è sinonimo di gratitudine; affermiamo, riconoscendo che è un dono, che quella cosa non è nostra e non ci è dovuta. Ché quando qualcosa ci viene restituita o ci è dovuta, il grazie è solo formula di cortesia, ma non è necessario.

Mi dai qualcosa, ti dico grazie e così facendo ti dico che so che quella cosa è tua, non è mia; se non ti dico grazie – e quella cosa non mi è dovuta o restituita – tu ci resti male. Un po’ come quando il nostro saluto non viene corrisposto. Ci restiamo male, siamo sbilanciati in avanti, potremmo cadere. Non c’è stato un controbilanciamento del nostro saluto o della cosa che abbiamo dato. Il grazie fa proprio questo: controbilancia; rimette in pari la relazione, e sul piano della relazione ricostruisce un nuovo equilibrio fatto di mutuo riconoscimento. Dice che quella cosa non è mia, ma è tua, non mi è data come se mi appartenesse, come se fosse un diritto.

Il dono è controbilanciato da un altro dono o dal suo riconoscimento attraverso il grazie, a sua volta può controbilanciare un debito del quale siamo consapevoli. Succede, per esempio, quando danneggiamo qualcuno o nei suoi confronti manchiamo di attenzione: se non c’è stata intenzione, lo segnaliamo dichiarando il fatto ex-causa, scusa: mancando l’intenzione non potranno esserci conseguenze, il fatto non appartiene all’ambito giuridico; ma se il danneggiamento o la mancanza sono frutto di intenzione allora non basta più dichiarare il fatto ex-causa, ma occorre bilanciare un debito, e allora chiediamo che ci venga accordato il dono di appianare il debito, chiediamo perdono, che a dono aggiunge una preposizione intensiva che ne aumenta il valore. E quando, nel linguaggio giuridico, il debito è altissimo, così che non basti più neppure il perdono, allora si chiede la grazia. Siamo sempre nell’ambito di significati legati al dono che per la nostra lingua danza intorno ai derivati di cháris, di grazia e dono.

E grazia, nel linguaggio religioso, conosce un ventaglio di sfumature che va dal dono di guarigione, al miracolo e, più alto, alla sorgente dalla quale inesauribile scaturisce il dono divino. 

Grazie, cioè: so che è tuo e non mi è dovuto. 

In alcuni linguaggi sociali e anche qui da noi, fino a non molto tempo fa, era consueto aprire il pasto con un ringraziamento, sotto la forma della preghiera o della benedizione. Era un modo per dichiarare la natura di dono di quel cibo, per dire la consapevolezza che quel cibo non è dovuto, non è scontato. Oggi, persuasi che l’unico vero mediatore di valori e senso sia il denaro e che, in buona sostanza, tutto può essere comprato e se lo compro allora è mio, suonerebbe strano ringraziare per il cibo a tavola: se non lo si è ricevuto per carità o perché è dovuto, allora lo si ha perché è stato acquistato o sono state acquistate le materie per confezionarlo. Insomma: è mio, e se è mio chi e perché dovrei ringraziare? Siamo in una economia morale fondata sul denaro e alla sua ormai indiscussa centralità nel comporre le relazioni tra gli umani e tra gli umani e il mondo.

Ma a rigore non c’è nulla che sia veramente nostro: tutto è stato dato e tutto sarà restituito. È evidente, è l’esperienza del mondo. E neppure il cibo è davvero scontato che arrivi sulla nostra tavola. Ringraziare – e non importa come e chi: chi ha cucinato, chi ha prodotto le materie da cucinare, il mondo, una divinità, la natura, quello e chi si vuole... – è un atto di consapevolezza, significa esattamente che quello che sta arrivando è un dono, che non ci è dovuto (e non certo perché l’abbiamo pagato, ché questo è solo l’effetto di una transazione commerciale).

E, per consapevolezza, l’atto del ringraziamento potrebbe essere espresso anche quando ci si sveglia, perché non è affatto cosa scontata, come un giorno per quel che ci riguarda non sapremo, ma sarà chiaro a chi ci sarà vicino; perché per tutti verrà il giorno nel quale non ci sveglieremo. Svegliarsi non è dovuto, non è un diritto, non un merito, e non c’è nulla di scontato. E lo stesso andrebbe esteso alla chiusura della giornata, prima di addormentarsi, per affermare che di tutto quello che è accaduto nulla era dovuto. E ancora esteso ad alcuni momenti, quando ci accorgiamo che camminiamo, che vediamo, che respiriamo, tutto ciò che inconsapevolmente diamo per scontato fino a quando un incidente o una malattia lo impediscono o lo rendono penoso. Perché attendere che venga meno la vista per dire quanto sono belli i colori? Quale difetto di consapevolezza ci impedisce di riconoscere quanto sia bello respirare a pieni polmoni? O abbiamo bisogno di patire un enfisema per capirlo? Risvegliarsi accanto alla persona che si ama non sarebbe motivo abbondante per ringraziare? Basta pensare che un giorno non sarà più così. 

La dimensione del ringraziamento può ristabilire in modo sano, perché aderente alle cose come sono, la nostra relazione con la realtà e la nostra posizione nel mondo, come posizione di chi accoglie la vita come un dono e dunque non può che rallegrarsene, ciò che invece non succede finché quello che abbiamo lo intendiamo come dovuto, semplicemente atteso e persino scontato. 

Ripristinare un’economia morale fondata sul dono e una ecologia di comportamenti fondata sul riconoscimento del dono potrebbe essere contagioso, certamente incomprensibile, come espressione di follia per chi confida solo sul denaro e al denaro affida l’ultima parola nelle proprie scelte e sull’altare del denaro brucia, idolatra, la propria vita, ma sarebbe rivoluzionario.

 

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