Abbiamo cominciato a prendere dimestichezza con neologismi quali “influencer”, “tiktoker”, “smartworker” e via dicendo. Nuove professioni e nuove attività. Ma non è questo il tema dell’articolo – ogni epoca ha visto il nascere di nuovi lavori e nuove professioni. Si pensi a quello del maniscalco: un secolo fa era un mestiere molto diffuso, ora è un settore di nicchia.
Voglio portare l’attenzione su un aspetto molto delicato e molto… silenzioso che fa parte integrante e costituente del mio lavoro (sono psicologo-psicoterapeuta): l’ascolto.
Riallacciandomi su quanto scritto nella breve introduzione qui sopra, sto notando che sempre più colleghi, vuoi per farsi pubblicità, vuoi per mostrarsi a colleghi e amici, copiano nelle loro timeline dei vari “social” frasi ad effetto di scrittori, scienziati, anonimi.
Beninteso, il mestiere di psicologo – e ancor di più quello di psicoterapeuta, non è tanto quello di offrire soluzioni e dare consigli a chi richiede il nostro aiuto ma quello di… ascoltarli.
Ascoltare le loro vite, le loro esperienze, i drammi, gli incubi e anche le gioie e peccati non confessabili altrove. Ascoltare in silenzio e con tutto noi stessi i desideri, i pianti, vederli mentre tremano e raccontano storie, intrecci di emozioni, lacrime. Lacrime che vanno asciugate, singulti che vanno accolti, anche con sorsate di fresca acqua, nettare per il corpo ma anche per quelle anime bisognose, in quei momenti, di sentirsi semplicemente… sé stesse.
L’ascolto non si pubblica sui social. Non ci mette in bella mostra davanti alle folle.
L’ascolto con l’altro è intimità, preziosa intimità, che si crea, unico, in quel dato momento e con quella data persona. Un ascolto che segue le stesse modalità di esecuzione da parte nostra, terapeuti, ma unico, nuovo, immenso per chi sta dall’altra parte.
All’Università e nelle scuole di Specializzazione viene dato per scontato: i docenti sono convinti che ogni loro allievo sappia ascoltare, perché così fa il bambino appena nato e così facciamo per il resto della vita. Ascoltiamo con l’udito, certo, ma non solo: le percezioni uditive si fondono con la vista, con quelle somatiche. Ecco l’ascolto.
Le informazioni apprese vengono poi messe, dipinte, in una costellazione di pensieri, e apparentemente dimenticate, per poi tornare alla mente, ricordate, nei momenti – più o meno opportuni.
Diamo per scontato che sappiamo ascoltare.
Tante volte però mi è capitato di confrontarmi con colleghe e colleghi, anche con molta più esperienza curricolare della mia, che si mostrano giganti nel sapere, ma estremamente lillipuziani nell’ascoltare. Contrasti. Contrasti che ti fanno domandare, ascoltando te loro, fino a che punto accolgano l’altro, allo stesso modo che tu, in quel momento accogli loro. Alcune volte mi sono chiesto se sceglievano i loro clienti per manifestare il loro ego oppure se lo facevano per entrare davvero in sintonia con il sofferente.
La gentilezza è una lumaca, lenta ma inesorabile
La tentazione, quando si ascolta, di intervenire e manifestare i nostri pensieri, i nostri punti di vista, la nostra etica, è forte. Verrebbe da dire quel che si prova, anche senza mezzi termini, come reagire davanti a quell’anima che manifesta in noi l’idea di farla finita per sempre. Verrebbe, ma ti chiedi quale sia il tuo ruolo in quel dato momento. Allora non ascolti come dovresti. Lasci andare la mente altrove, rispondi con frasi fatte, magari degne di un romanzo classico di fine ottocento. Ma non ascolti. Vuoi dare la parvenza all’altro di farlo, ma in pratica no, non sei lì con lei, o con lui.
Parlo ovviamente dell’ascolto nella relazione terapeutica.
Perché l’ascolto si estende in tutti i campi della nostra vita: appena ci svegliamo, quando leggiamo un quotidiano, un post su un social, quando ci relazioniamo con i nostri cari e tanti sconosciuti per strada, nei locali. O quando entriamo noi nella stanza della terapia, ma come clienti.
Paradossalmente, quando ci sediamo sulla poltrona o sul lettino, dovremo ascoltare il meno possibile. Dovremo cercare di essere egoisti, monopolizzare il tempo a nostra disposizione, fare domande ben sapendo che le risposte che ci verranno date difficilmente le ricorderemo. Non dovremo preoccuparci di passare per peccatori, folli o psicopatici che stanno scegliendo la vittima da torturare.
Il terapeuta però deve fare uno sforzo immane in quei momenti poiché non c’è libro che insegni, corso che addestri, maestro che si metta al posto nostro. Dobbiamo tacere. E prestare attenzione con tutto noi stessi all’altro. Le parole, i silenzi, le domande, ai gesti, al respiro. Accoglierlo, anche se fosse la persona più ignobile e demoniaca del mondo. Ascoltare.
Se non capiamo qualcosa dei suoi racconti, chiedere. Se notiamo che i particolari raccontati sono tanti, e non riusciamo più a fissarli nella nostra mente, domandare se è possibile prendere qualche appunto, ben sapendo che saranno custoditi come il tesoro più prezioso.
Vien da chiedersi, allora: se me ne sto in silenzio o a fare domande complici, cosa ne ricavo io, cosa ne ricava la persona che ho davanti? Ascoltare non è stare in silenzio; l’ascolto sincero, presente, è un dialogo, in realtà. Un dialogo perché il nostro corpo comunica, anche se la bocca tace. Si comunica sempre, assieme, e assieme si cresce, ci si trasforma.
La psicoterapia non è un processo che va incontro solo a chi ne fa richiesta: è un processo dinamico, che coinvolge tutti i partecipanti. Questo processo si attua soprattutto attraverso l’ascolto, un dialogo muto, quasi nascosto, invisibile, ma così importante!
E cosa ne ricavano questi partecipanti? Si potrebbe dire la stessa cosa guardando la goccia nella grotta che cade, costante e continua, sulla roccia sottostante: i cambiamenti ci sono, ma non si vedono nell’immediato. Si guarda oltre quella cantilena e si scoprono colonne, magnificenze, create nel corso degli anni da quella sinfonia naturale, una ninna nanna vecchia come i secoli.
Le persone cambiano, divengono altro, pur restando nel complesso sé stesse. Immense opere d’arte, spettacolari creazioni nate da un motore invisibile, l’anima, ma tangibile e concreto. L’ascolto è uno dei mezzi che le anime usano per fondersi tra di loro, presente in tutte le forme di vita.
L’ascolto è anche questo: una lettura. Breve, come questa. Ma non è di certo la dimensione e la durata che conta: ciò che importa siamo noi e l’altro. E l’ascolto ci rende uniti, ci fa sentire parte di un qualcosa di più grande.
Ci rende umani.
Bruno Marzemin, dal 2004 psicologo e psicoterapeuta di stampo fenomenologico della Scuola di Padova. Allievo diretto di importanti figure come Giorgio Maria Ferlini, Antonio Favero, Gaetano Benedetti ed Eugenio Borgna – solo per citarne alcuni. Specializzato in vari ambiti della psicoterapia clinica, come disturbi d’ansia e di panico, violenza familiare, emergenziale e disturbi di personalità, ricevo su appuntamento in provincia di Padova, Vicenza e Treviso previo contatto telefonico al 392 113 36 37, oppure online.