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CONOSCENZA E APPRENDIMENTO

CONOSCENZA E APPRENDIMENTO

13 Febbraio 2024 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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Duemila anni prima di Cristoforo Colombo i Cartaginesi sbarcarono in America. Lo ha raccontato anni fa Lucio Russo nel suo libro L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, pubblicato da Mondadori Università. I protagonisti del libro sono tre scienziati greci, il matematico Eratostene (calcolò il diametro della Terra con l’1% di errore), l’astronomo e geografo Ipparco (ipotizzò un continente tra Pacifico e Atlantico), l’astronomo e matematico Tolomeo. I Cartaginesi del tempo antico, maestri nella navigazione erano già in grado di superare l’Atlantico e di frequentare le attuali Piccole Antille. Tutte queste scoperte e conoscenze furono per secoli dimenticate dai popoli mediterranei, forse a causa della distruzione di Cartagine (145/146 a.C.) da parte dei Romani che, con la città rasa al suolo, distrussero anche la documentazione cartaginese sulla navigazione transatlantica. Dimenticate sono state anche molte altre conoscenze acquisite in epoche storiche (non solo in Occidente) caratterizzate da innovazione, saperi e progressi vari. Per secoli le scoperte scientifiche e navali sull’America sono sparite dall’orizzonte europeo aprendo con la dimenticanza e la perdita di memoria a nuovi sbocchi che porteranno alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo e alla teorizzazione della sua primogenitura (e i Vichinghi?).

Siamo abituati all’idea che la conoscenza nel tempo non possa che evolvere, crescere. Non è così, è solo una percezione diffusa basata sulla convinzione che la conoscenza acquisita nel passato non vada perduta. Nulla di più falso. Il fatto che non sia così è testimoniato da ciò che sta avvenendo oggi con la diffusione delle nuove tecnologie e l’avvento di macchine capaci di apprendere (sarà poi vero?) e dell’intelligenza artificiale. Mentre le macchine sembrano diventare sempre più intelligenti, la conoscenza umana rischia di atrofizzarsi e di decadere, gli umani di diventare più stupidi. Il decadimento non interessa tutti e non tocca tutti gli ambiti della conoscenza umana ma il fenomeno esiste e va preso in considerazione. 

Ogni conoscenza per accrescersi ha bisogno di tempo, ricerca, casualità, ma anche di tanta fatica e duro lavoro, anche nei tempi tecnologici e digitali che viviamo. Il lavoro serve per operare sulla struttura della conoscenza, sulla capacità di sintesi e di codifica delle conoscenze e sull’impegno ad apprendere, individualmente e socialmente. Quando ciò non viene fatto, la regressione è sempre possibile. Come dimostrato dal racconto iniziale di questo testo e da molti esempi di civilizzazioni storiche svanite nel nulla e di cui si è persa memoria (come hanno fatto gli Egiziani a costruire le piramidi escludendo l’ipotesi extraterrestri?). Come ha ben spiegato Peter Burke nel suo libro sulla storia dell’ignoranza che racconta come oggi non abbiamo necessariamente più conoscenze dei nostri predecessori, almeno individualmente. 

Difficile essere in disaccordo osservando l’istupidimento collettivo ingenerato in moltitudini di persone dall’uso delle piattaforme di social networking e dagli schermi digitali sempre accesi. I vecchi saperi devono per forza fare spazio ai nuovi, la conoscenza delle auto ha rimpiazzato quella dei cavalli, ma ogni conoscenza obbliga comunque a dedicare tempo all’apprendimento e a nuove conoscenze. Senza apprendere nuove conoscenze la memoria subisce un decadimento che porta a dimenticare le conoscenze precedenti, comprese quelle che potrebbero essere utili. Senza lavoro, fatica, impegno, ciò che è stato imparato finisce in cenere o, se va bene, trova spazio nei musei. Ciò è ancora più vero in un’epoca come la nostra che si ritiene essere all’apice della conoscenza umana. A una maggiore conoscenza collettiva, non corrisponde una maggiore condivisione di quella conoscenza e delle conoscenze che la costituiscono. 

Nell’era dell’iperconnessione la diffusione di buone idee non è garantito. I memi circolano veloci, le conoscenze e la conoscenza forse meno. Quando circolano lo fanno dentro ambiti sociali definiti: i medici apprendono da altri medici, la condivisione di conoscenza è resa possibile dall’esistenza di una struttura nota che la incorpora. Le nuove conoscenze non sono destinate a sopravvivere necessariamente se non esistono strutture predisposte a ospitarle, se chi dovrebbe acquisirle si dimostra pigro e poco motivato a salvaguardarne la sopravvivenza. Ogni nuova conoscenza richiede fatica, applicazione, istruzione, apprendimento. In loro assenza si assiste a un decadimento. Lo si vede nel deterioramento della memoria individuale e collettiva che stiamo sperimentando nell’era del surplus informativo e cognitivo. Il decadimento è tanto più sorprendente quanto più sono diffuse pratiche legate all’uso della memoria e all’uso diffuso delle IA generative che sembrano supplire con le loro informazioni, conoscenze e sintesi a quanto gli umani sembrano ormai incapaci di acquisire. 

Tutto ciò che sta avvenendo suggerisce di interrogarsi sul perché e sul come la conoscenza si atrofizzi e decada, sul fatto che il decadimento è maggiore quando la conoscenza è casuale e frammentata, poco curata o scarsamente allenata, su quanto sia importante il tempo ad essa dedicato, le risorse coinvolte, la formazione e l’apprendimento, quanto favorite siano le persone che lavorano in ambiti nei quali le conoscenze sono organizzate e incentivate, come ad esempio gli ambiti scientifici, e accademici, intellettuali e culturali. 

Il decadimento della conoscenza potrebbe essere la norma nella storia umana. Se fosse così, vale la pena chiedersi quali sono gli ambiti nei quali la decadenza è minore, quali sono quelli nei quali si dimentica più di quanto non si apprenda? Ma soprattutto quanto potrebbe accelerare questa decadenza se dovessimo affidarci sempre di più alla tecnologia e smettessimo di apprendere? 

Porsi domande come queste è diventato urgente. Le macchine sembrano sempre più in grado di risolvere tutti i problemi, grazie ai loro algoritmi di machine e deep learning, stanno mettendo in discussione la centralità dell’umano, dando forma a nuovi ecosistemi ibridati tecnologicamente nei quali a essere perdenti potrebbero essere i valori e le prerogative umani. Le macchine non hanno coscienza né tantomeno consapevolezza, non sono produttrici di senso, non sanno cogliere la polisemia dei simboli che utilizzano, mettendoli in relazione tra di loro. Ma cosa può succedere se la conoscenza dominante futura sarà quella delle macchine, mentre quella umana sarà completamente oggettivizzata, datificata e memorizzata su archivi digitali? Già oggi stiamo assistendo a una trasformazione in corso che si evidenzia nella confusione sulla parola intelligenza riferita all’umano (facoltà psichiche e mentali) e alla macchina (disciplina). La differenza esiste ed è grande ma si è dissolta nel senso comune delle conoscenze individuali sempre più scadute a semplici informazioni. Dati, informazioni, conoscenze, saperi, tanti concetti diversi, oggi tutti equiparati nel calderone informativo stregonico che ha avvolto il mondo. 

Per l’uomo la realtà non è fatta di puri dati/fatti ma dalle loro intricare relazioni e da interpretazioni da cui derivano conoscenze, ma la conoscenza diffusa oggi, condizionata dallo storytelling tecnologico, sembra avere sposato l’approccio datificato e statistico, macchinico, tutto incentrato sui dati, quindi sulla quantità e non sulla qualità, una quantità che non può favorire sempre la conoscenza, impedisce la capacità selettiva, la valutazione e la coscienza critica, ostacola la consapevolezza da cui dipendono i significati dei fatti e delle esperienze. 

L’apprendimento della macchina è diverso da quello umano, si basa su modelli (anche di apprendimento profondo) e regole formalizzate ad essa suggeriti, sull’analisi formale di strutture sintattiche, ma non permette di comprendere il linguaggio, permette alla macchina di leggere e scrivere ma non di ricavare da lettura e scrittura senso e significati, non aiuta a porsi domande o a fare ipotesi, non può sviluppare (ad oggi) capacità metacognitive (conoscenza della conoscenza), tanto meno pensiero critico e complesso, un pensiero multidisciplinare e interdisciplinare, non trasformerà mai la CPU in una “testa ben fatta”, non servirà ad alimentare l’immaginazione. Queste diversità dall’apprendimento umano potrebbero avere meno peso se l’uomo, oggi ibridato, finisse per essere sempre più simile a una macchina, fino a dissolversi come cyborg in essa, disimparando ad apprendere e a reimparare, smettendo di esplorare il sapere in lungo e in largo.

 

 

 

 

 

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