[Articolo scritto da Giovanni Villani, ricercatore presso il CNR di Pisa]
Nell’articolo “Tempi moderni: vivere alla fine dei tempi” del 13 Novembre di Carlo Mazzucchelli su questo portale si affronta un tema affascinante: la problematica del “tempo” in questa nostra società (occidentale) moderna. Anch’io mi sono “dilettato” su argomenti simili (tra l’altro anche su Retidivalore con l’articolo “Tempo e progresso” del 21 Maggio e nella mia Rubrica Tematica in “Sistemi nelle scienze umane: psicologia, sociologia e politica”) e vorrei inserirmi nella discussione, che spero rigogliosa, che tale articolo merita. Io vorrei partire proprio dal fatto che bisogna limitare nello spazio tale problematica. Non a caso io ho riferito la “problematica del tempo” di tale articolo alla “società occidentale”.
BIG TECH SBOOM?
Nell’articolo di Mazzucchelli questa precisazione manca, ma io credo sia importante evitare di “globalizzare” queste nostre giuste “preoccupazioni” anche a culture diverse dalla nostra. Per esempio, molto diversa è la cultura orientale e, proprio sul concetto di tempo, sulla natura intrinsecamente dinamica di ogni aspetto, si differenzia notevolmente dalla cultura occidentale. Fritjof Capra nel suo libro Il Tao della fisica (Adelphi, Milano 1982, p. 219) ci dice che “Lo scopo principale del misticismo orientale è di riuscire a cogliere tutti i fenomeni che avvengono nel mondo come manifestazioni di una stessa realtà ultima.
Questa realtà è vista come l’essenza dell’universo, che sta alla base e unifica la moltitudine di cose e di eventi che osserviamo. […] Questa essenza ultima, tuttavia, non può essere separata dalle sue molteplici manifestazioni. È peculiare della sua vera natura manifestarsi in innumerevoli forme che nascono e scompaiono, trasformandosi l’una nell’altra in un processo senza fine. Nel suo aspetto fenomenico, l’Uno cosmico è quindi intrinsecamente dinamico e la comprensione di questa sua natura dinamica ha un’importanza basilare in tute le scuole del misticismo orientale”.
Il circoscrivere la crisi (più che quella economica quella psicologica) all’occidente è una necessità e una speranza. Una necessità perché la situazione non è uguale dappertutto, sebbene connessa, e una speranza che alla “nostra” crisi possano rispondere (oltre che noi) altri. È a tutti evidente che il destino del mondo di domani dipenderà sempre di più da quello che si decide a Tokio, a Pechino o a Kuala Lumpur e, quindi, con un po’ di sano ridimensionamento, accanto alle nostre paure bisogna guardare all’effervescenza dell’Est, accanto ai nostri problemi al positivo dell’espansione “ad oriente”, acanto ai nostri filosofi Greci, Romani e generalmente Occidentali, bisognerà imparare a considerare quelli, a noi sconosciuti, della cultura orientale.
il destino del mondo di domani dipenderà sempre di più da quello che si decide a Tokio, a Pechino o a Kuala Lumpur e, quindi, con un po’ di sano ridimensionamento, accanto alle nostre paure bisogna guardare all’effervescenza dell’Est
Anche in passato l’asse del mondo si è spostato, per esempio nel Novecento dalla Vecchia Europa alla Nuova America, ma il ritmo moderno sta rendendo tali spostamenti autentiche transizioni che non permettono, nella loro immediatezza, il lento assuefarsi come in passato. È questa accelerazione moderna a rendere traumatico un normale spostamento. Ancora una volta è il Tempo (con la “t” maiuscola) a modificare la crisi, a renderla particolare.
La crisi che ci ha investito non è passeggera (in senso marxiano), non è solo economico-finanziaria, ma è una crisi che investe il rapporto tra le diverse parti del mondo, tra le diverse culture presenti e comporta problemi ecologici, oltre che ovviamente sociali. Ai problemi economici e culturali abbiamo dato un accenno. Riguardo ai problemi ecologici bisogna considerare che alle poche centinaia di milioni di individui che vivono ad un ritmo già adesso insopportabile per il nostro pianeta bisognerà aggiungerne altrettanti e più che ancora non vivono al nostro ritmo, ma che desiderano, e probabilmente riusciranno, ad ottenerlo presto. È il nostro pianeta Terra in grado di ospitare un miliardo, forse due, di individui che vivono e sprecano a questo ritmo? Ho i miei dubbi. È questo il problema principale: riusciremo a lasciare alle prossime generazioni un pianeta in grado di dare, a se non a tutti (io spererei a tutti), almeno a molti, una vita dignitosa?
Dal punto di vista psicologico, Mazzucchelli ci dice che “Non siamo alla fine della storia ma, sparite le speranze e le promesse […] di una crescita infinita, siamo alle prese con un tempo senza promesse, […] immobile e per il quale non c'è alcun motivo di lottare impegnandosi nella sua determinazione futura (il futuro del futuro è il presente)”. Quindi, se è vero, come dice Mazzucchelli, che “l’abbandono delle grandi idee e delle grandi verità ha generato una inquietudine che, nella crisi attuale, genera grande incertezza e angoscia”, allora “la questione cruciale da affrontare è il crollo delle speranze, sia rispetto alle aspettative utopiche sia per il futuro tout court. Un crollo che si manifesta anche nella diffusa astensione, nella incapacità ad elaborare una visione e una proposta che possa attrarre la maggioranza. La percezione diffusa è che la crisi che stiamo vivendo sia indicativa di cambiamenti radicali e profondi che arriveranno”.
Appare allora chiaro che, per ristabilire una corretta percezione del tempo e per prepararsi ai cambiamenti radicali che ci aspettano, possiamo con Mazzucchelli dire che “bisogna impegnarsi nella ricerca dei segnali che vengono dal futuro e delle indicazioni utili ad una lettura critica della realtà presente per prepararsi e contribuire a cambiarla”.
Io avevo già detto, in Tempo e progresso , un articolo pubblicato su Retidivalore, che “la morte del dogma del progresso, ha portato alla morte delle ideologie che su di esso si basavano. Resta soltanto la possibilità di progettare in ambiti specifici delle soluzioni parziali che, in un’ottica sistemica, devono comunque connettersi alle altre per dare un progetto che faccia da sfondo all’agire politico quotidiano. Il progetto politico, in qualunque scala spaziale e temporale, come il massimo di organicità sistemica ottenibile. Esso è olistico e da contrapporre al concetto di ‘programma’, inteso come ‘lista delle cose da fare’, di approccio tipicamente riduzionista”.
Vorrei concludere questo mio articolo invitando il lettore a guardare con attenzione l’immagine acclusa. Non è mia (l’ho trovata in rete), ma esprime bene l’idea sottesa a questo articolo (anche il fatto di essere un’immagine in bianco e nero si connette bene al concetto di crisi): il tempo va visto principalmente come “eredità”, come lascito alle nuove generazioni, nella speranza che non ci maledicano per il “regalo” che gli facciamo.