Exit ghost
Exit ghost (il fantasma esce di scena) è inquietante non tanto perché evoca la presenza di uno spettro, quanto perché segna le tappe finali della sua inevitabile scomparsa. L’autore, alias Nathan Zuckerman, scrittore di successo nella vita e nella finzione del romanzo, percorre in lungo e in largo, in senso figurato come nella realtà, l’itinerario che lo riconduce a New York. Qui naufragano, tra una clinica e i ricordi di un passato vissuto nella fama, le ultime speranze di vecchio costretto a misurarsi quotidianamente con le disfunzioni del proprio corpo. Ma non è solo l’incontinenza ad angustiarlo. Dopo un’assenza appartata, undici anni trascorsi in solitudine, la metropoli lo catapulta in una sequenza d’incontri che segnano altrettante fasi del suo declino fisico, mentale ed emotivo.
Una rapida decisione, dopo la lettura di un piccolo annuncio su un giornale, lo porta a casa di una giovane coppia desiderosa di lasciare New York, con la prospettiva di scambiare abitazione per un anno. Il contatto con la giovane donna, Jame, è sconvolgente. L’autore farà di tutto per avere altri incontri; la seduzione si snoda attraverso schermaglie verbali che trovano sfogo, in tempi successivi, in dialoghi scritti frutto di fantasie erotiche. Intramezzato in questo risveglio un po’ tardivo di sensi assopiti, l’autore tra l’altro si imbatte in una donna che ha conosciuto in gioventù. Amy Bellette è stata allieva e compagna del letterato E.I.Lenoff.
A parte la voce, è quasi irriconoscibile; vecchia e malata, porta ora in viso e sul capo i segni di un intervento di chirurgia che gli ha asportato parte del cervello. Insieme - le menti e i ricordi che vacillano - si ritrovano a dover fare fronte alle intemperanze di un giovane sedicente biografo, desideroso di emergere ricostruendo e dando alle stampe la storia di E.I.Lenoff, incurante di infangarne l’immagine, pronto a rivelare al pubblico un segreto rimasto confinato ai pochi intimi ancora in vita. Suo malgrado quindi lo scrittore Nathan Zuckerman si ritrova a combattere su più fronti, mentre fatica a tenere a mente le incombenze della giornata, dimentica gli appuntamenti, le parole gli sfuggono, si lascia andare all’ira. Scoprendo di dover armeggiare giorno per giorno contro la minaccia dell’incoerenza.
Finché non vede più un rivale davanti a lui, bensì una porta. Una porta tra la chiarezza e la confusione, tra Amy e Jame, una porta che è l’ultima via d’uscita.
“All I know is the door”. E’ il sipario che cala.
Suceso / evento
éxito / successo
Codice a bare
Codice a bare, a cominciare dal titolo, subito si presenta promettente di artifizi dialettici spesso spiazzanti, altrettante volte macabro, perennemente intriso di puro cinismo. E’ un romanzo incisivo e dissacratore come può esserlo il bisturi di una sala d’autopsia. Di morti se ne contano a non finire, anche perché sono i morti che raccontano - ma è tutt’altro che un mortorio. L’autore si fa beffe del perbenismo e dei valori consolidati, dando corpo a un mondo ipotetico, micidiale, popolato di esseri in decomposizione. E a rendere più tangibile l’intero mosaico - assai simile a un rompicapo - anche il linguaggio si adatta a identificare personaggi e cose con svolazzi lessicali, allusivi, dal tono complessivo alquanto aspro.
Eu/genio, l’eroe (mai personaggio chiave ha meritato di più questo epiteto) tanto improbabile quanto maldestro, è un serial killer che sviene alla vista del sangue. Ma anche il lettore ha bisogno di fegato per inoltrarsi nelle pagine del libro. Carina Madura, la poliziotta psicopatica sulle tracce dell’assassino, commette lei stessa più atrocità di quanto è dato immaginare. Ma è la società nel suo insieme vera protagonista della storia, nel definire incoerentemente i parametri tra la vita e la morte, sicché i quattro continenti (omnipoli) traboccano di morti viventi. In una babele di lingue, religioni e sette, genti disperate lottano per sopravvivere, ossia: il dieci per cento ambisce alla fama, mentre il restante della popolazione si batte per vincere la fame. Accade così che tutti si dimenano nel tentativo di conquistare spazi per emergere, attraverso l’arte, pagando per esibirsi, corrompendo per farsi largo. Ecco dunque ritrovata una funzione all’arte: la finzione di dare un significato alla vita; mentre molti si affannano, pochi sfrontati si cullano negli agi. Come Chiara Duovo. “Come, abbiamo fatto carriera scopando, e allora? E’ talento anche quello.”
Nel disfacimento della carne sorge l’interrogativo se l’inferno non sia proprio questo vivere a oltranza. “L’inferno siamo noi!” esclama uno dei personaggi di Sartre (Huis Clos) nel rappresentare l’assurdità dell’esistenza. “La vita è una gran bastarda,” gli fa eco Andros. “Ha avuto milioni di anni per perfezionare ogni singolo gene … Si difende dalla sopravvalutata intelligenza ... con distrazioni come la religione, la politica, l’amore, l’arte ...”
Un mondo immondo, impantanato nelle acque melmose di una vita troppo simile alla palude della morte, giunto al capolinea.
Il titolo tuttavia, codice a bar(r)e, al di là delle intenzioni dell’autore presuppone una mente (collettiva) esterna capace di etichettare e dirigere l’essere umano per finalità (im)proprie. E nell’impossibilità di arginare questo orientamento, non condiviso, ci affanniamo a interpretare l’oggi chiedendoci se saremo padroni di noi stessi domani.
Exit ghost (il fantasma esce di scena), Philip Roth; Vintage Books, London
Codice a bare, Andros; Boopen Editore, Pozzuoli (NA)