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Testare l’utopia

Testare l’utopia

14 Novembre 2014 Antonio Fiorella
Antonio Fiorella
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Ci sono siti capaci di sfornare storie sulla base di pochi ingredienti, quali la scelta del genere (western, giallo e così via), dei soggetti protagonisti (poliziotti, commesse, ecc), e delle finalità conclusive desiderate. Ci sono programmi (SCIgen) in grado di scrivere libri di saggistica a carattere scientifico, corredati di formule, grafici e tutto - testi idonei a passare indenni attraverso le strette maglie di editori internazionali, dimostrando così di avere i requisiti per andare in stampa.

Ci si chiede: ci sono anche algoritmi in grado di prevedere, fra una o più generazioni, l’impatto sistemico di innovazioni, idee e/o ipotetici scenari dirompenti?

Viene stimato che nel mondo, a causa dell’incalzare della tecnologia, i milioni di posti di lavoro di concetto a rischio superano ormai le centinaia. Verso quale futuro stiamo andando così a rotta di collo?

In sintesi è possibile testare l’utopia?

Indirettamente gli autori di Capra e calcoli, Marco Malvaldi e Dino Leporini, tentano di rispondere anche a quesiti indigeribili o mal posti. Con humour ed equilibrio analizzano quanto il mondo dei numeri possa diventare talvolta puntiglioso, fantasioso e perfino conflittuale. Non prendiamocela con il computer se i numeri non tornano. Il computer esegue i nostri ordini in base al modello che gli abbiamo assegnato. E sull’onda del primo assioma impartito ad ogni aspirante programmatore - garbage in, garbage out -, gli autori declinano l’eterna lotta tra gli algoritmi e il caos.

Tema cruciale dell’universo tecnico-scientifico, vale a dire del mondo d’oggi.

 

Quante sono le probabilità che un infortunio possa accadere? Ogni problema matematico, posto in forma teorica, può diventare un grattacapo complicato e allo stesso tempo d’incerta solvibilità. Ma se passiamo all’atto pratico e cominciamo a raffigurarlo e a giocarci con esso, finiremo col trovare una qualche via d’uscita. La simulazione di un evento può essere d’aiuto quando il calcolo delle probabilità risulterebbe esponenzialmente troppo difficile da determinare. Nel caso poi di un gran numero di eventi contigui, il compito da affrontare si fa ancora più arduo, perché diventa necessario riuscire a stabilire la correlazione tra di essi.

Uno dei modelli statistici maggiormente usati in questi frangenti è la cosiddetta “cupola gaussiana o campana”, strumento utilizzato per determinare la dipendenza tra variabili casuali. (E i pattern dei cuori infranti, ossia della mortalità precoce del coniuge rimasto vedovo). Modello piuttosto diffuso in fisica, ma non necessariamente appropriato in ogni circostanza. A Wall Street ne sanno qualcosa. In buona sostanza, nell’agosto del 2004, Moody’s incorporò questo modello matematico nella valutazione del rating delle obbligazioni garantite dai mutui (cioè dei famigerati CDO, collateralized debt obligation). Le prime avvisaglie della crisi si avvertirono un paio di anni dopo. Il sistema sembrava capace di reggersi finché - succede spesso! - nel 2007 la bolla esplose, quando le banche cominciarono a diffidare le une delle altre. E di colpo tutto diventò strettamente correlato; nessuna formula era più in grado di districare l’imbroglio.

 

Un modello matematico è una “caricatura della realtà”: guai a confonderlo con la realtà medesima.

Le cosiddette high-frequency trading (HTF) sono transazioni elettroniche ad altissima frequenza. Stiamo ancora trattando di numeri, di Wall Street e di sistemi, dove una manciata di milionesimi di secondi, possono comportare, in un anno, guadagni o perdite stimabili in centinaia di milioni di dollari. Un microsecondo è uguale a un milionesimo di secondo. Ebbene, i computer esaminano una transazione in meno di un microsecondo. Per avanzare un paragone con il cervello umano, nel nostro sistema nervoso i segnali vanno a circa 100 metri al secondo. Un’eternità, quando si tratta di speculazione finanziaria.

Quando in un pomeriggio del 2010 un fondo comune di investimento eseguì una grossa vendita in borsa, gli effetti depressivi che si verificarono innescarono una repentina spirale al ribasso. Il crollo fu amplificato, ben oltre le aspettative, dagli algoritmi HFT che attivarono una serie di stop loss a catena. A seguito del crollo (flash crash) che ne seguì la perdita fu calcolata in un trilione di dollari (o se preferite, in mille miliardi).

Abbiamo visto come i numeri moltiplicano o falcidiano i guadagni, e di conseguenza aggiungono o sottraggono contante, spendibile, alla massa monetaria. In pratica diminuiscono o crescono numeri che, in contesti diversi, fomentano le occasioni di discordia. Per esempio nella direzione da impartire alla politica economica. Ci sono infine casi in cui il denaro viene creato dal nulla - cosa, altro esempio, scontata per un economista di stampo keynesiano, ma questione alquanto anomala per un ingegnere che pure ha grande dimestichezza con i numeri, i suoi multipli e tabelle correlate.

Il bitcoin è una moneta virtuale creata nel 2008 da un tale, si dice, che si cela sotto il nome Satoshi Nakamoto (o probabilmente è una comunità di hacker a nascondersi dietro questo pseudonimo). Ad osservare la  volatilità delle quotazioni, il bitcoin è paragonabile all’oro. Ma diversamente dall’oro non esiste in natura. Nel gennaio del 2013 era quotato intorno a 13 dollari, a novembre dello stesso anno viaggiava a quota 1200 dollari. All’inizio del 2014 la Cina mise il veto al suo utilizzo nelle transazioni finanziarie e ciò determinò un assestamento della quotazione sui 600 dollari. Recentemente anche in Italia alcuni esercizi, come ristoranti e agriturismi, iniziano ad accettare i pagamenti. L’ex governatore della Federal Reserve, Ben Bernanche, ha sostenuto che i bitcoin sarebbero uno strumento finanziario “promettente”. Posto l’ammontare complessivo di 4.48 trilioni di dollari del quantitative easing messo in atto dalla Federal Reserve, il paragone regge.

 

 

Navigando in internet sovente abbiamo incontrato un CAPTCHA sul nostro percorso, ossia quelle immagini da completare, oppure scritte con caratteri e numeri distorti da identificare. CAPTCHA, acronimo di Completely Automated Public Turing Test to tell Computers and Humans Apart, sta per: test pubblico di Turing completamente automatizzato per distinguere computer e umani.

Il matematico Alan Turing (1950) in un celebre articolo si pose la domanda se un computer fosse in grado di pensare. E al fine di testare la macchina ipotizzò un gioco. Un giocatore sta di fronte a una porta dietro la quale si trovano un computer e un uomo. E’ possibile, formulando una serie di domande, indovinare chi è il computer e chi l’uomo? Secondo Turing è possibile. Ma finora nessuna macchina è riuscita a superare il test. Chiusa la parentesi. In pratica CAPTCHA ci invita a provare che siamo un essere umano e non un robot. Le motivazioni sono tante: impedire a qualche hacker di accedere a un database, di alterare dei dati, di creare falsi indirizzi email ecc.

Poiché tutto quello che prende forma e prevale su uno schermo (di un computer come di un qualsiasi smartphone o tablet) è composto da sequenze numeriche, è un po’ come dire che i numeri, combinati insieme, danno vita a un mondo biologico a sé stante. Una gran quantità di algoritmi lottano per la supremazia... avendo quale obiettivo ultimo la cattura della preda. Cioè, noi.

In rete da tempo è in atto la “caccia grossa” a un’enormità di dati, personali e non, alle nostre preferenze in fatto di spesa, di comportamenti e di ciò che siamo, manifestiamo e riveliamo di noi stessi. I maggiori player sono Apple, Microsoft, Facebook, Amazon. Uno studio del Wall Street Journal ha riportato che mediamente vengono installati sui pc degli utenti 64 cookie idonei a registrare le attività sulla rete di ognuno, dati che vengono poi utilizzati dalle medesime società o venduti a terzi. “Dentro questa bolla nessuno ha chiesto di entrarci e molti non sanno neanche di viverci”.

Negli anni addietro la competizione macchina-uomo aveva una demarcazione piuttosto chiara: alle macchine toccavano lavori pesanti e concettualmente ripetitivi, agli uomini era affidata supervisione, creatività, decisione e regia di comando. Infatti intorno al 1965 l’opportunistica visione della NASA rilevava che “l’uomo è il più economico, versatile computer da 75 kg di peso che può essere prodotto in modo esteso da manodopera non qualificata”. Da allora molto è cambiato. Adesso prevalgono dubbi che cominciano a sconfinare nell’angoscia. Sull’aspetto occupazionale, l’uomo è già in affanno; il contenzioso tra uomo e macchina si allarga sempre più e molti prospettano un avvicendamento di ruoli: a chi tocca/toccherà il lavoro nero? E quello più qualificato di “entità autonoma pensante”? Negli anni ’30 John Maynard Keynes parlava di “disoccupazione tecnologica”. Stava a indicare il deficit di nuovi posti di lavoro per sopperire a quelli che la progressiva automazione mandava in fumo. Eppure fino a una decina d’anni fa “autorevoli economisti” ritenevano che alcuni compiti non potessero essere svolti da un computer, come guidare un veicolo su strada e cose del genere. Il dilemma non solo è stato superato, ma si sta legiferando per consentire la circolazione di auto guidate da un computer.

Inoltre assistiamo all’avvento di “maggiordomi in versione software”. Su molti cellulari cominciano ad affacciarsi i cosiddetti “assistenti personali intelligenti”, ai quali porre domande per ricevere informazioni utili. In viva voce.

Per sintetizzare, spariscono funzioni contabili, bancarie e quindi gli impiegati che svolgevano queste mansioni; si assottigliano le figure d’intermediazione quali agenti di viaggio, giornalisti e critici di ogni genere. Uno studio condotto dall’Università di Oxford ha esaminato un migliaio di occupazioni negli Stati Uniti, ed è giunto alla conclusione che nei prossimi anni circa la metà dei lavori potrà essere svolta da robot.

“In un futuro non lontano la tecnologia dividerà la società in due gruppi, quelli in grado di trarne profitto... i vincitori. E tutti gli altri”. Identica situazione per i sistemi-paesi. L’Italia, su 24 paesi monitorati, si è piazzata all’ultimo e al penultimo posto, rispettivamente, per le competenze alfabetiche e matematiche. In pratica, in quanto a competenze, è come se non fossimo ancora entrati a pieno titolo nel XXI secolo.

Mentre si stanno sviluppando protesi intelligenti controllati da segnali elettrici del cervello, ed esoscheletri utili per garantire la mobilità delle persone con disabilità motorie, balzano in evidenza aspetti di natura controversa, etica e giuridica.

Il NASDAQ andò in tilt per oltre tre ore nell’agosto del 2013 azzerando tutte le contrattazioni. Le proposte per migliorare il sistema informatico piovvero numerose. Ma uno dei responsabili declinò le offerte  dichiarando che “non c’era alcuna intenzione di assumere nuovi esperti in tecnologia, ma caso mai buoni vecchi avvocati...” Per far fronte ai “pasticci combinati dai robot”, piuttosto che spulciare gli algoritmi di tutte le imperfezioni, è più sbrigativo risolvere la controversia in un tribunale - manco a dirlo - dell’altra parte dell’Atlantico.

La querelle, se le formule matematiche siano o meno brevettabili, resta aperta e in cima alle decisioni cruciali da riesaminare. Secondo quanto era stato stabilito dalla Corte Suprema un algoritmo deve essere assimilato a una legge della fisica o a una legge della natura. Ma il caso si è riaperto, la questione riguarda innumerevoli brevetti appartenenti alle società che producono software. Nel frattempo le contese legali si trascinano in avanti con esiti alterni che alimentano nuove battaglie legali.

Le incognite, da quelle sui posti di lavoro a quelle sull’andamento dei consumi, lievitano giorno per giorno. Ritornando all’interrogativo iniziale, fin dove è possibile spingersi nel testare eventuali scenari futuri? Troppe volte si è assistito al rovesciamento di situazioni che si sono sviluppate con un imprevisto effetto boomerang (è il caso di guerre camuffate sotto il vessillo della pace, di rivoluzioni spontanee e pilotate, di semplici normative con maneggi di potere dapprima ritenuti innocui). L’utopia resta ancora il livello di pensiero più alto raggiungibile della mente umana. Può un robot venire dotato di simili traguardi o reso capace di misurare la portata di una serie di riforme?

Nell’attesa dell’Intelligenza artificiale dotata della capacità di apprendere e del guizzo dell’intuizione si accende un barlume. Il possibile spiraglio ci viene suggerito dagli assidui frequentatori del BarLume con il ricorso alla simulazione in una sala giochi. Complice lo stesso autore Marco Malvaldi.

D’altronde non siamo parte integrante della civiltà dell’edonismo?

AF

 

Capra e calcoli, L’eterna lotta tra gli algoritmi e il caos, Marco Malvaldi e Dino Leporini, Editori Laterza

La carta più alta, Marco Malvaldi, Sellerio editore

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