Marco Salucci, della Biblioteca filosofica ha chiesto a Lorenzo Monticelli - Sezione SFI Firenze - di parlarci della sua raccolta di poesie Corpo a corpo pubblicata da Ensemble con la prefazione di Alessandro Fo.
Nel suo Tractatus logico-filosofico Wittgenstein riassumeva l’intento del suo lavoro nel noto aforisma “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” e relegava la possibilità di senso, la possibilità cioè di stabilire se una proposizione fosse vera o falsa alle proposizioni delle scienze naturali, etichettando così le affermazioni della millenaria tradizione filosofica come né vere né false, perché totalmente prive di senso. Insomma per Wittgenstein la filosofia si riduceva ad una malattia linguistica dalla quale voleva, con il suo libro, curarci. Nelle proposizioni prive di senso poi paradossalmente inseriva anche quelle del suo libro. Ai suoi lettori filosofici quindi non restava che tacere.
Ma non è per niente facile tacere.
Nel Tractatus Wittgenstein non si interessa della poesia (per i miei scopi gli farò deliberatamente torto non prendendo in considerazione gli altri suoi scritti: licenza poetica!) e quindi non sappiamo, o perlomeno io non so, se considerava anche la poesia una malattia. A parte Wittgenstein, di certo anche delle “proposizioni poetiche” non si può dire che siano vere o false, come hanno poi sostenuto i neopositivisti. La poesia esprime emozioni, come la musica e l’arte in generale: attività che non amplia le conoscenze sul mondo ma che comunque è una degna attività che richiede un talento specifico, di cui sono del tutto privi i metafisici, “musicisti senza talento” secondo la nota espressione Carnap il quale si riferiva soprattutto ad Heidegger.
Ed è proprio Heidegger, partendo da una riflessione soprattutto su Hoelderlin, ad assegnare, nell’ultima fase del suo pensiero, alla poesia un ruolo fondamentale per giungere alla conclusione che l’ascolto dell’Essere (qualsiasi cosa sia, qualunque cosa significhi, qualunque senso abbia) avviene nel linguaggio poetico, linguaggio che, appunto non afferma, ma ascolta .
Vite degne di essere vissute. Note sulla prospettiva «post-umana»
Ora, io sono molto diffidente nei confronti di Heidegger e del suo linguaggio oracolare e ho molta più simpatia per la tradizione analitica di cui Wittgenstein è considerato un padre fondatore; eppure scrivo poesie. Non solo ma temi caratteristici dell’esistenzialismo heideggeriano, e non solo, come la denuncia della dimensione tragica dell’esistenza e dell’ “esser gettato” nel tempo, la percezione della finitezza e della fragilità della condizione umana, lo smascheramento delle illusioni consolatorie, sono tutti presenti nella mia poesia.
La tradizione analitica sembra, dunque, essere molto lontana dalla poesia. Qualcuno la critica per il suo “sterile specialismo”, per la sua “avversione nei confronti dei grandi temi della tradizione” che può sembrare di scarso nutrimento per qualsiasi discorso poetico.
Ma per me non è così. L’idea che ho io di poesia non è quella tardo-romantica che trapela dalla posizione heideggeriana.
Per me la poesia ha una funzione di disincanto, non di incanto e in qualche modo io cerco di depurare (se l’operazione riesce non è mia facoltà stabilirlo) il linguaggio poetico della tradizione dalle pretese rivelatrici di chissà quale altrove, di demistificare le pretese oracolari del “lirismo” e per fare questo mi servono più Wittgenstein o Quine che Heidegger.
Non per nulla la mia raccolta edita da Ensemble si apre con la seguente poesia:
Voglio mangiare un libro: una raccolta
di contemporanea poesia,
rischiare il picco della glicemia
dell’anima mia contorta.
Voglio sentire i versi sbrodolare
sulla barba mia di vecchio;
voglio che imbrattino l’altare
del sacro secchio
del cuore, che insozzino
il tramonto e anneghino i lillà.
Voglio che gemano come bimbi innocenti
quando li butterò nell’indifferenziato
e io resterò di qua.
e si conclude definendo la poesia una “creatura delle tenebre” che è un richiamo a Quine per il quale è il significato stesso una “creatura delle tenebre”. Tra i due estremi ci sono tuttavia delle poesie. In esse si parla di un dio che, per farci “accettare l’assurdo che assedia da ogni parte” “finge di esistere per farsi odiare”, di fiori “che sbocciano e basta”, di mosche che sbattono sul vetro perché “Se c’è la luce ci deve essere il varco”, del fatto che
“Non c’è bottiglia
da cui uscire, non c’è un’uscita,
perché non c’è una bottiglia
non c’è uscita, fratelli.”
dove evoco Wittgenstein che da qualche parte dice che il suo compito è quello di farci uscire dalla bottiglia della filosofia per vedere chiaramente il mondo.
Insomma “su ciò che non si può dire”, si delira. Non sopportando il silenzio si scrive, sapendo però che
“se tu giochi con le parole,
creature delle tenebre,
intrico di miti,
ti tiri su per i capelli”.