Di Stefano Zani, docente di filosofia e studioso di etica e politica (sua è la traduzione italiana di A. Heller, Oltre la giustizia, Bologna, Il Mulino 1990) pubblichiamo una riflessione sui (presunti?) progressi morali dell’umanità
Progressi morali?
Non so quanto sia corretto parlare di progressi morali dell’umanità.
La sottolineatura del divario tra progressi tecnico-scientifici e coscienza morale rimasta a livello tribale, evidenziata dai bei versi di Salvatore Quasimodo ( “Sei sempre l’uomo della caverna e della clava, uomo del mio tempo”) rinvia alla necessità di un salto creativo necessario a colmare quel divario. Un tema assai caro a Ernesto Balducci (1).
Richard Rorty concepisce l’idea del progresso morale «come l’affermarsi della capacità di considerare moralmente irrilevante una parte sempre maggiore delle differenze fra gli esseri umani» (2).
Certo, avremo fatto un gran passo in avanti quando avremo riconosciuto la presenza in noi dell’uomo primitivo sotto vari aspetti e senz’altro la possibilità di regredire a livello primitivo in determinate circostanze (3).
Spinti dalla durezza delle sfide alla sopravvivenza abbiamo relegato nell’inconscio quello che per crescere abbiamo considerato, sulla scorta degli avanzamenti della razionalità comune maturata, il male.
La vera sfida della nostra età planetaria è rappresentata dal prendere consapevolezza del lato d’ombra che permea di sé non solo gli assunti impliciti delle nostre tradizioni culturali, ma anche la nostra impronta filogenetica, lungo l’asse della quale occorre dunque risalire per impostare un nuovo umanesimo etnologico che sappia andare oltre i limiti dei vecchi umanesimi (4).
Così, parafrasando sulle orme di Doestoevskij la celebre formula di Terenzio (5) ne I fratelli Karamazov ("Satana sum, et nihil humanum a me alienum puto"), avremo fatto un gran passo morale in avanti (un progresso?) quando riusciremo a far nostra la formula: niente di ciò che è disumano mi è estraneo.
A scanso di equivoci non intendo con ciò promuovere l’abbandono dei nostri freni morali, come si è fatto con crescendo rossiniano tra otto e novecento (6), bensì ammettere a malincuore che ciascuno di noi, in determinate circostanze, può essere indotto a oscurare completamente la propria umanità, ed è potenzialmente capace di commettere le peggiori atrocità.
Con ciò ponendo forse le basi per una civilizzazione del primitivo che ci portiamo dentro.
Ora, è vero che gran parte del male morale del mondo è da ascriversi più all’indifferenza, come ben ci ricordano, tra le innumerevoli fonti, il Confiteor (7) e Gramsci (8). Il male morale deriva prevalentemente dal fatto che oscuriamo la nostra coscienza morale, sospendendola o adattandola a sopportare le situazioni più inaccettabili con infingimenti sottilissimi e, dobbiamo riconoscere, assai creativi. Tali omissioni più o meno consapevoli sono rese possibili anche dalla complessità della società in cui viviamo, ragion per cui non è sufficiente la coscienza morale a tenere a bada tali deragliamenti collettivi, ma occorre anche un corposo lavoro di promozione della conoscenza (9).
Tuttavia, in determinate circostanze storiche si è dato luogo a un vero e proprio rovesciamento di segno tra male e bene, come ben ci insegna Orwell (10). Ciò non è avvenuto soltanto nel caso dei totalitarismi del novecento, o di altre dittature passate e presenti, ma avviene quando, anche in paesi democratici come il nostro, lasciamo che vi siano isole di totalitarismo come quelle costituite dalla criminalità organizzata, che non si limita a dominare nell’ambito della sfera privata i suoi adepti, ma tiene sotto scacco intere comunità giungendo spesso a lambire significativamente anche la sfera pubblica. Oppure quando si finisca per proiettare sul nemico esterno (l’immigrato, il diseredato, l’emarginato, il diverso) la propria Ombra.
Avremo così fatto un bel passo morale in avanti solo quando avremo riconosciuto che le perversioni che noi indichiamo nell’altro sono le nostre. Ciò richiede l’abbandono della mentalità del capro espiatorio, le cui radici affondano nella vecchia etica. Se la lunga fase dominata dalla vecchia etica ha costituito un passo avanti decisivo nella fuoruscita dal primitivo stadio di indistinzione con le pulsioni inconsce, essa si è tuttavia rivelata inadeguata ogniqualvolta la sua idealizzazione dell’Io in nome di assoluti irrealistici l’hanno vista precipitare nella più vieta intolleranza, come nei casi storici delle Crociate e dell’Inquisizione, della Conquista e dei roghi delle streghe. Tale idealizzazione era animata dall’illusione di aver individuato il bene come ultima parola della vita.
Così, di fronte a una modernizzazione che ha frantumato le vecchie identità e messo in discussione l’inflazione dell’Io da parte di norme e regole sociali che riflettono un’etica collettiva totalmente soggiogata a imperativi disumani, si è risposto negli ultimi due secoli con un’etica di segno rovesciato che ha segnato delle irruzioni epidemiche dell’irrazionalità più distruttrice e abbiamo avuto le due guerre mondiali, l’uso dell’atomica e la proliferazione della armi di distruzione di massa. Ha prevalso così la convinzione che il male sia l’ultima parola della vita e che l’Io e la coscienza non siano altro che epifenomeni di forze irrazionali (economiche, come nel caso del materialismo, o istintuali, come nel caso del nichilismo).
Ma, come avverte Erich Neumann, “un’etica fondata sull’Ombra è altrettanto unilaterale di quella che è orientata soltanto sui valori dell’Io” (11). L’atteggiamento prevalente nella fase attuale sembra essere improntato a una forma di reazione alla dissociazione della personalità che concepisce la vita in termini di behaviourismo, di libertinismo e di utilitarismo (12).
La nuova etica dovrà dunque essere centrata sull’intera personalità, ampliare l’orizzonte etico oltre il dominio di un’etica collettiva oppure di pulsioni irrazionali che svalutano l’Io e la coscienza, e dovrà perciò includere le ragioni dell’inconscio, senza farle prevalere (13).
1) Cfr. E. Balducci, L’uomo planetario, Firenze, Giunti Editore, 2005
2) R. Rorty, Verità e progresso. Scritti filosofici, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 14.
3) Su questi aspetti si vedano: C. G. Jung, Jung parla, Adelphi, Milano, 1999; E. Neumann, Psicologia del profondo e nuova etica, Moretti e Vitali, 2005. N. Y. Harari, Da animali a Dei. Breve storia dell’umanità, Milano, Bompiani, 2015; T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Milano, Garzanti, 2001.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
4) Cfr. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino 2002; E. Balducci, La terra del tramonto, Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1992.
5) “Homo sum, nihil humanum a me alienum puto”: Terenzio, Heautontimorumenos, v. 77.
6) Cfr. J. Glover, Humanity, a moral history of the 20th century, Yale University Press, 2012.
7) Com’è noto tale preghiera penitenziale recita «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa […]” (corsivo mio).
8) Cfr. A. Gramsci, “Vivere significa partecipare e non essere indifferenti a quello che succede", in La città futura, 11 febbraio 1917, dove tra l’altro si legge: “L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.”
9) Cfr. N. Y. Harari, 21 Lessons for the 21st Century, London, Jonathan Cape, 2018.
10) G. Orwell, 1984, Milano, Arnoldo Mondadori, 1989.
11) Cfr. E. Neumann, op. cit, pag.. 82.
12) Cfr. E. Neumann, op. cit, pag. 80; N.Y. Harari, Homo Deus, Milano, Bompiani, 2017.
13) Per un approfondimento di queste tematiche sia consentito rinviare a S. Zani, Dante e la nuova etica, in corso di pubblicazione sul n. 535-536 della rivista “Testimonianze”; cfr. inoltre: G. Cognetti, Tra Panikkar e Jung, Mimesis, 2020.