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E VENNE IL CIGNO NERO: affrontare l’imprevedibile alimentando l’empatia

E VENNE IL CIGNO NERO: affrontare l’imprevedibile alimentando l’empatia

07 Febbraio 2021 Rosanna Celestino
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Rosanna Celestino
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L’imprevedibilità, ciò che si presenta estraneo a qualsiasi supposizione e previsione, è la condizione più prevedibile che c’è!

Lo so: forse sto esagerando, ma ciò che quotidianamente sperimentiamo è l’instabilità della realtà; una realtà nella quale i cambiamenti sono veloci e la conoscenza appare essere sempre un passo indietro all’esperienza.

Un articolo di Rosanna Celestino,  Network Corporate Culture Consultant - Creative Facilitator - Personal growth


In questa condizione ciò che “è possibile” sembra essersi sganciato da modelli e formule di previsione e pianificazione.

Rara avis in terris nigroque simillima cygno.” “Uccello raro sulla terra, quasi come un cigno nero”.

L’espressione “cigno nero”, tratta da un verso di Giovenale, è stata per secoli la metafora perfetta per indicare ciò che è raro, improbabile, imprevedibile se non addirittura impossibile. L’efficacia della metafora si basava sulla presunzione, data dalla conoscenza del tempo e del luogo, che “tutti i cigni sono bianchi”.

Poi, nel 1697, una spedizione olandese scoprì in Australia l’impossibile: il cigno nero, Cygnus Atratus.
Per ribaltare conoscenze e certezze, oggi, ci vogliono secondi e non secoli.

La scienza e la tecnologia hanno ampliato la nostra conoscenza, hanno costruito le nostre certezze, dandoci l’idea di poter spiegare, definire e prevedere gli scenari che ci si presenteranno.

Questa idea è un’illusione: il “cigno nero” è lì e non possiamo prevedere quando e come si presenterà, quando e come lo scopriremo.

Viviamo una sorta di paradosso: abbiamo la conoscenza e la capacità di costruire sistemi sempre più sofisticati, veloci e potenti in grado di analizzare ed elaborare milioni di dati, di pianificare, programmare, prevedere la realtà, ed è proprio questa possibilità a renderci più fragili rispetto all’incerto, all’imprevedibile, a ciò che “rompe” lo schema atteso: la crisi, il cambiamento subitaneo, la rottura di uno “status quo” e, nel significato della parola, il separare, lo scegliere, il recidere e decidere. È questo il “Cigno Nero”, l’inatteso.

Scenari

In tempi recenti, è stata così la crisi del 2008 quando la bolla immobiliare dei mutui subprime, a fine 2006, esplose con il fallimento della quarta Banca d’affari americana, la Lehman Brothers, nel settembre del 2008. Un vero e proprio terremoto che coinvolse tutte le grandi economie.

Nel 2015, in “Immaginare il futuro, l’impresa come comunità generativa”,aprivo la mia analisi con un breve dialogo tra due personaggi di Tullio Altan “Questa crisi durerà anni – Finalmente un po’ di stabilità”: un paradosso in grado di esprimere, in maniera precisa e inquietante, lo stato delle cose a sette anni dal fallimento di Wall Street.

Il terremoto produceva ancora un costante “sciame sismico”.

L’analogia è interessante perché ci aiuta a comprendere che le cause della crisi sono molto profonde e lontane: un sisma è tanto più esteso sulla superficie terrestre, ha quindi un’area epicentrale vasta, quanto più il suo ipocentro, cioè il luogo dove avviene la rottura o lo slittamento di una faglia, è a grande profondità.

Nelle convulse settimane del settembre/ottobre 2008, molti commentatori risalirono alla responsabilità delle pratiche predatorie dei prestatori subprime e alla mancanza o carenza di una effettiva supervisione da parte delle autorità governative.

“Che cosa dirò quando mi chiederanno perché non abbiamo messo delle regole? – Nessuno le voleva: stavamo facendo troppo soldi”.

È la spiegazione del protagonista di Too big to fail, il film prodotto nel 2011 dalla rete televisiva americana HBO e diretto da Curtis Hanson. Il film è basato sull’omonimo best-seller del giornalista ed economista del New York Times, Andrew Ross Sorkin e descrive i concitati eventi che portarono al salvataggio del sistema finanziario americano attraverso il “Piano Paulson”: Henry Paulson, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti sotto la presidenza di George W. Bush e, precedentemente, dal 1999 al 2006 amministratore delegato della Banca d’affari Goldman Sachs, ideò e guidò il piano di salvataggio che prese il suo nome. “Too big to fail”, troppo grande per fallire, è un'espressione entrata nell'uso comune del linguaggio politico, negli Stati Uniti come in Europa, in riferimento a banche, assicurazioni o aziende considerate troppo grandi, all'interno delle rispettive economie, per essere private dell'intervento pubblico in caso di rischio di bancarotta. Un modello di salvataggio, secondo molti osservatori ed economisti, che premia, in un certo senso, chi ha prodotto o contribuito alla crisi anziché, come scrive l’economista Jean-Paul Fitussi nel suo “Il teorema del lampione”, mettere fine alla sofferenza sociale.

Ma le radici della crisi del 2008 sono ancora più profonde; esse si estendono e consolidano negli anni ’80. Gli anni delle briglie sciolte, del primato della finanza, dell’arretramento dello Stato, della libera circolazione del denaro, della delocalizzazione produttiva; gli anni di Reagan e Thatcher; gli anni del costante aumento del tasso di rendimento del capitale rispetto alla crescita economica; gli anni in cui si è andata ad ampliare la diseguaglianza sociale; gli anni della deregulation, del mercato come fenomeno naturale e autoregolante e del lavoro come “merce”.

Nel pieno della crisi si mise in discussione il modello economico e si spesero molte parole e molte promesse rispetto ad un cambiamento necessario quanto impellente. Si ripresero temi centrali come quelli sostenuti dall’economista Amartya Sen già nella seconda metà degli anni ’90:

lo sviluppo deve essere inteso come un processo di espansione delle possibilità reali di cui godono le persone, nella sfera privata come in quella sociale e politica. Di conseguenza, lo sviluppo reale di un Paese si misura sulla possibilità dei suoi cittadini di accedere all’istruzione, all’assistenza sanitaria, di avere un ambiente tutelato, di poter partecipare concretamente alla vita sociale e politica, di potersi esprimere, di avere l’opportunità di agire un proprio progetto di vita.

Queste sono le potenzialità e possibilità sulle quali misurare lo sviluppo di un Paese. Il PIL, prodotto interno lordo, l’attuale sistema di misurazione, risulta essere un metodo inadeguato in quanto misura le sole transazioni in denaro e le considera tutte positive (quindi anche quelle provenienti da azioni criminali come corruzione, contraffazione, ecomafia, riciclaggio, prostituzione, ecc.), escludendo “ciò che rende la vita degna di essere vissuta”, come disse il 18 marzo 1968, il Senatore e candidato alla Casa Bianca, Robert Kennedy, nel discorso tenuto alla Kansas University.

L’attuale modello economico era stato messo in discussione, in maniera analitica, nel 1972 con la pubblicazione del “Rapporto sui limiti dello sviluppo” del MIT, Massachusetts Institute of Technology e, successivamente, in tutto il lungo, lento e incompleto “percorso” della sostenibilità.

Ecco una breve sintesi delle conclusioni presentate dai ricercatori del MIT nel 1972: Se l'attuale tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale. È possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.

Questa lontana riflessione ci porta ad un altro Cigno Nero: ci porta ad oggi, alla pandemia da Sars-Cov-2 e all’incertezza del futuro globale.
Il virus compare, ufficialmente, in Cina a Wuhan a dicembre 2019.

Guardiamo le immagini in televisione. Siamo lontani, siamo al sicuro.

L’11 gennaio 2020 è confermata la prima vittima in Cina e il 13 il primo decesso fuori confine, in Thailandia.
Poi si cominciano a registrare casi in USA ed Europa.

Il 30 gennaio l'OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità, dichiara l'emergenza a livello globale. Ci sono casi in Italia: una coppia cinese a Roma; poi, tra il 21 e il 23 febbraio, ci ritroviamo nel pieno dell’epidemia con due focolai in Lombardia e Veneto.

L’11 marzo l’OMS dichiara la Covid pandemia.

Al 4 febbraio 20213 si contano 103.631.793 di casi confermati, da inizio della pandemia, e 2.251.613 decessi.

E questo è l’aspetto epidemiologico. Poi c’è il contesto politico, economico, sociale e ambientale.

Con rare eccezioni, i governi sono stati “spiazzati” dalla velocità del virus e hanno reagito sottovalutando, a volte ridicolizzando o addirittura negando, la gravità della situazione.
Da una parte la necessità di contenere i contagi isolando cittadini, territori, interi Paesi,
dall’altra una economia e una società globale in costante movimento.

È ancora presto per poter parlare con equilibrio di ciò che è accaduto e sta accadendo. Ma alcune cose sono evidenti:

  1. esisteva, dopo l’epidemia SARS del 2003, un’allerta globale, diffusa dall’OMS, sulla possibilità di uno sviluppo di altre forme di coronavirus negli anni a venire, con indicazioni precise sulla sintomatologia da rilevare e sui protocolli da seguire per contenere e informare. Ma la velocità dell’informazione, il villaggio globale, gli algoritmi, l’intelligenza artificiale, la “rete”, funzionano nel rendere istantanea e connessa l’informazione finanziaria non quella sanitaria.

  2. da molti anni scienziati, Istituti di Ricerca, Università e ONG denunciano la connessione tra l’aumento delle diseguaglianze sociali e il degrado ambientale dovuto allo sfruttamento intensivo delle risorse e all’inquinamento... I cambiamenti climatici e la povertà sono e saranno sempre più la miccia per la diffusione di pandemie.

  3. lo sviluppo reale di un Paese si misura sulla possibilità dei suoi cittadini di accedere all’istruzione, all’assistenza sanitaria, di avere un ambiente tutelato...” (Amartya Sen), La Covid ha svelato che la “ricchezza” non significa sviluppo. Ha svelato “i peccati originali”: considerare la salute un business, l’istruzione un privilegio, l’ambiente come strumento di marketing (posticipare sempre, agire nel proprio orto, ignorare che i soggetti della sostenibilità, mantra degli ultimi 34 anni, sono sistemi interconnessi e non si può cambiare rotta sull’ambiente se non si cambia rotta sulla società e sull’economia4)

  4. la società del consumo consuma sé stessa! Le ricadute drammatiche della pandemia sull’economia reale (la finanza va benissimo) hanno fatto emergere, ancora una volta, quanto sia indispensabile ripensare il modello socioeconomico.

Anche in questo caso, come per il terremoto” del 2008, l’ipocentro è così profondo che l’epicentro riguarda tutto il pianeta. Ancora una volta, come nella crisi finanziaria che travolse l’economia mondiale, la crisi sanitaria sta travolgendo società ed economia e si cerca una risposta al perché non si sono rispettate o cambiate le regole... e la risposta può essere la stessa “perché stavamo facendo troppo soldi”. Un esempio? L’inesistenza o il depauperamento della sanità pubblica in favore di quella privata e dicasi lo stesso per la scuola...

Così, ciò che definiamo imprevedibile si rivela, in buona parte, come il frutto delle nostre “presunzioni”, dei modelli che abbiamo costruito e che consideriamo i migliori o gli unici possibili; modelli che diventano muri, muri che ci impediscono di vedere.

Ancora una volta sappiamo di dover cambiare ma, nello stesso tempo, continuiamo a reiterare lo stesso modello culturale, sociale ed economico che, imperturbabile, sconvolge le nostre vite.

Empatia

Forse è necessario lasciare i modelli sullo sfondo e imparare a comprendere ciò che accade intorno a noi con mente aperta, abbattendo i muri del “narcisismo di massa” che esaspera egoismo e aggressività.
La natura ha milioni di anni di sperimentazione ed è da questa esperienza che abbiamo ereditato meccanismi biologici che ci permettono di essere ciò che possiamo essere: creature intelligenti, capaci di apprendere, di immaginare, progettare, comprendere,
cambiare, immedesimarsi nell’altro.

In questi ultimi anni si parla molto di empatia.
L’empatia è la capacità di una persona di comprendere l’altro e il contesto, di partecipare all’altro e al contesto. L’empatia è il più gratuito degli atteggiamenti ed è proprio questo aspetto a renderla preziosa. Nel 1995, dopo più di dieci anni di studi, il team di neuroscienziati dell’Università di Parma, coordinati dal Prof. Giacomo Rizzolatti, dimostra la natura neuronale dell’empatia attraverso la scoperta dei neuroni specchio.

“I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia.” Vilayanur S. Ramachandran.

In quegli anni affiancavo alla mia attività di consulenza manageriale lezioni all’Accademia del Teatro Filodrammatici di Milano. Fu straordinario trovare nella scienza il perché e il come di ciò che, nella formazione teatrale, definiamo come magia, alchimia, sentire, percezione laterale, ascolto... empatia.
Non è un caso che la prefazione del Libro “So quel che fai” di Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia (2005 ed. Feltrinelli), si apre con l’ironia di Peter Brook, il grande regista britannico: Con i neuroni specchio gli scienziati hanno scoperto quel che gli attori avevano capito da sempre.

Ironia a parte, sapere che l’empatia è un meccanismo biologico, che per ogni gesto, micro movimento o movimento che facciamo o che osserviamo, si attiva uno specifico neurone (se prendiamo una mela, o vediamo prendere una mela, si attiva lo stesso neurone diverso da quello che si attiverebbe se lanciassimo o vedessimo lanciare una mela), apre una infinita possibilità di comprendere il processo di apprendimento, di sviluppare la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di sentire ciò che l’altro sente: piangere, ridere, sorridere... espressioni che ci permettono di comprendere lo stato d’animo dell’altro, di partecipare della sua sofferenza e della sua gioia...

Tutto così bello? No. L’empatia ci permetterebbe di rispettare l’altro, di sentirci responsabili delle conseguenze delle nostre azioni, di essere solidali, collaborativi...
L’empatia è un meccanismo biologico che può essere sviluppato o inibito dalla cultur
a, dall’insieme di valori, regole, credenze e pregiudizi che guidano i nostri comportamenti.

In una intervista, per fare un esempio dell’influenza inibente dell’empatia da parte della cultura, Rizzolatti ripercorre il come sia stato possibile che un popolo evoluto, come quello tedesco, fosse stato capace di perseguire lo sterminio degli ebrei: una propaganda martellante sulle loro colpe, il rinforzo costante dei pregiudizi (erano la causa delle difficoltà del Paese, non avevano l’anima, ecc....) avevano prodotto un distacco emotivo per cui “l’ebreo” non era una persona, non aveva valore umano.

Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? William Shakespeare Monologo di Shylock, Il mercante di Venezia.

Così, il distacco dall’altro, il “vedere” l’altro come oggetto “alieno”, come “diverso”, come “pericolo” o come “nulla”, inibisce l’empatia. Una inibizione che spiega la crudeltà, l’insensibilità al dolore o a l’avvilimento dell’altro. E ciò accade anche con gli animali e con l’ambiente.

L’inibizione culturale dell’empatia può anche essere più soft, “normale”, accettata dal senso comune; una inibizione che non si manifesta con la crudeltà ma con la svalutazione dell’altro per mille “motivi”: differenza di genere, istruzione, tipo di lavoro, quartiere, età, nazionalità, colore...

Discriminazione e indifferenza sono il risultato dell’assenza di “reciprocità”. La reciprocità è il riconoscimento di una relazione simmetrica fondata sul valore reciproco indipendente dalle differenze che sono ricchezza. La reciprocità è il prodotto di una relazione empatica.
L’inibizione dell’empatia è prodotta anche da esperienze educative improntate sul controllo delle emozioni, sulla paura di sbagliare e di essere giudicati...

Ma se vogliamo, e dobbiamo, cambiare per essere capaci di costruire una società più responsabile ed equa, è necessario alimentare l’empatia. Il percorso c’è cominciando da quel “conosci te stesso” che è la condizione per ri-conoscere l’altro.

Nel suo “The Black Swan”, Taleb Nassim Nicholas, ex trader, suggerisce di lasciare i modellisullo sfondo e riprendere il metodo socratico del “so di non sapere”, una confessione di ignoranza che spalanca la conoscenza e offre la possibilità di comprendere, nel senso di “prendere insieme”, ciò che accade, ciò che non ci aspettavamo, ciò che ritenevamo improbabile se non impossibile, ciò che rompe ogni schema, modello e logica cristallizzata.

Ho sempre creduto nella lezione socratica: conoscere sé stessi e avere la consapevolezza di non sapere... questi due punti di appoggio ci pongono in uno stato di attenzione, di ascolto attivo, di curiosità, di disponibilità.
Questo stato è l’unico in grado di farci affrontare costruttivamente l’inatteso ed è l’unico che può darci la capacità di avere relazioni di reciprocità.

In questo stato, l’impossibile che diventa possibile, è vissuto come occasione di apprendimento e, quindi, indipendentemente dagli effetti immediati e dalle conseguenze, che possono essere negative o positive, come una concreta opportunità di crescita, di miglioramento. In questo stato l’altro è la condizione della conoscenza, della comprensione, della capacità di avere un nuovo sguardo, nuovi orizzonti.

Nella nostra “modernità liquida”, mutevole e multiforme, il pensiero socratico è attuale e necessario: partire dalla conoscenza di sé ed essere consapevoli della costante incertezza

Nella mia esperienza teatrale, che ho portato in azienda, il famoso metodo Stanislavskij è un percorso utile per sviluppare il nostro “meccanismo” empatico: immedesimarsi con il personaggio cercando nel proprio vissuto, nelle proprie esperienze le stesse risonanze emotive dell’altro

È la consapevolezza, l’indissolubile intimità con sé stessi, che ci permette, come scrive il neuroscienziato Antonio Damasio in Emozione e Coscienza, di:  “conoscere tutto della fame, della sete, del sesso, delle lacrime, delle risa, dei calci, dei pugni, del flusso delle immagini che chiamiamo pensiero, dei sentimenti, delle parole, delle storie, delle credenze, della musica e della poesia, della felicità e dell’estasi”

 

Bibliografia

 

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