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Sempre connessi ma non congiunti

Sempre connessi ma non congiunti

24 Febbraio 2022 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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Siamo tutti connessi ma non più congiunti (collegati) con gli altri, forse neppure con noi stessi. Alla costante ricerca di esperienze gratificanti, viviamo allegramente una nevrotizzante esperienza di schizofrenia diffusa, condivisa con altri come noi, che produce frustrazione e impedisce di sperimentare nuove esperienze. Siamo chiamati tutti a “rimetterci in sesto” mettendo in discussione abitudini consolidate, anche quelle più recenti diventate catene d’acciaio che ci impediscono di raggiungere il nostro sé, non quello egocentrico e narcisista che trova oggi massima espressione online, ma quello profondo di persone che vivono con il mondo, inteso come relazione con oggetti e soprattutto con persone. La nostra natura relazionale è alla base del nostro sentire e conoscere. Tutto ciò che possiamo pensare delle cose, della realtà, di noi stessi, del mondo si traduce in conoscenza solo attraverso una relazione “in carne e ossa”. Anche le parole hanno senso soltanto se pronunciate e scambiate con qualcuno presente in carne e ossa, non con un interlocutore con cui interagiamo digitalmente!

Online ci sentiamo felici, energici e iperattivi, nella realtà siamo sempre più assenti, passivi, svaniti ma anche sbadati, innervositi, incoscienti e irresponsabili. “Ciascuno corre nella sua orbita, chiuso nella propria bolla, satellizzato […] nessuno ha più un destino, poiché vi è destino soltanto nell’intersezione di sé stessi con gli altri”. Dentro contesti elettronici che hanno siliconizzato il mondo, abbiamo cancellato il tempo e la distanza ma ci sentiamo in crisi di astinenza da tempo, che dura e si dilata al di là del mero presente tutto centrato su esigenze sincroniche, Siamo sempre più  (di)staccati dagli altri e isolati. L’annullamento della distanza è progressivo, operato attraverso una penetrazione continua e in profondità nelle vite private, nell’intimità e nell’anima (psiche) di ognuno. Comunichiamo e interagiamo con tutti ma le parole che usiamo sembrano il prodotto ripetibile di funzioni algoritmiche che le trattano come se fossero semplici atomi elementari, dentro modalità di interazione puramente sintattiche preconfezionate, che finiscono per predeterminare anche significati, relazioni, conversazioni e dialoghi. Ne deriva la perdita della capacità di traduzione e interpretazione semantica, come quella ben descritta da Lévinas (“il significato sorprende anche il pensiero che lo ha pensato”) nella sua riflessione sul volto che incontra il “Medesimo”, ovvero il soggetto unico, un egoistico re, ignaro della sua reale vocazione. 

L’incontro sconvolge, pone il sé innanzi a un Altro soggetto e alla sua esistenza. Linguisticamente ed eticamente, obbliga a “[…] superare continuamente l‘equivoco della propria immagine [faccia, maschera], dei propri segni verbali” e a scoprire l’impossibilità della propria autosufficienza. L’incontro è faticoso, a volte conflittuale e pieno di ambiguità, richiede uno (s)coinvolgimento che non tutti sono disposti generosamente a sperimentare, pochi sanno forse oggi accettare. Tuttavia l’incontro, anche quello immaginario, serve a rompere le abitudini, gli automatismi e le rigidità, a ricondurre la propria esistenza, oggi vissuta spesso attraverso selfie che esprimono un un bisogno struggente di esistere e riconoscersi, in contesti sempre nuovi, creativi, a generare stimoli utili per il dialogo interiore così come quello con gli altri, a farsi costruttori di altri linguaggi, più adatti a entrare in sintonia con emozioni, affetti e sentimenti. 

La pandemia, forzando la pratica del distanziamento, per alcuni ha fatto crescere il bisogno di corpi che si toccano, si baciano e si stringono le mani, di contatti fisici. In realtà potrebbe avere semplicemente accentuato una tendenza già in atto da tempo nella società postmoderna, anche per motivi economici e sociali. La tendenza che vede un numero crescente di persone allontanarsi da forme sociali conviviali, ritenute antiche e quindi superate, collettive e comunitarie, per scelta o per semplice comodità e utilitarismo, anche per difendere i propri spazi individuali di libertà e di autonomia. Spesso semplicemente e erroneamente edificati online.

Le forme di distanziamento che impediscono o limitano l’incontro dei corpi non sono senza effetti, sulle nostre emozioni, sui nostri affetti, sul nostro stare bene e sulla nostra felicità.  Persino sul nostro sguardo e sulla nostra pelle, che sempre manifesta e comunica il suo bisogno di essere toccata. 

La pelle (dal latino pellis, superficie, che affonda le sue radici nel termine greco πάλ o πελ, riempire, coprire, ma anche nel verbo πελάζω, accedere, approssimarsi) è l’organo di rivestimento esterno del corpo dell’uomo e di diversi animali che assume in molte espressioni il significato di vita, di esistenza. Sembra una superficie fragile ma in realtà è una potente corazza che ci protegge. Come lo sguardo la pelle è in grado di comunicare, a volte di nascondere, le sue ferite sono spiragli di luce verso l’interiorità dell’animo. Entità psicosomatica complessa, è ciò che ci separa da ciò che è fuori di noi e funge da elemento relazionale e comunicazionale con il mondo esterno. Sede di vari mutamenti somatici che comunicano emozioni, sensazioni e contenuti soggettivi di tipo psicologico, che attirano sguardi e attenzione, la pelle è fattore determinante nello sviluppo psichico di ogni bambino o bambina, per costruire e comunicare schema e immagine del corpo umano, della personalità di ogni individuo. La pelle, indispensabile per tracciare i confini tra il sé e l’altro da sé, tra il corpo e l’ambiente, richiede l’esperienza del tatto, in particolare quello legato all’uso delle mani, implica la presenza di un corpo che può toccare, essere toccato e si lascia toccare. Così come molti animali in cattività deperiscono in mancanza di contatti fisici con altri della loro specie, gli esseri umani manifestano il bisogno di contatto già nella loro fase prenatale, il benessere dell’embrione e poi del nascituro dipende molto dal contatto tattile, sia nella fase di sviluppo intrauterino sia in quella neonatale. La pelle è la porta d’ingresso all’Oltre che tutti sperimentiamo, la sentinella tattile del senso di appartenenza in cui facciamo esperienza del nostro corpo, del corpo vissuto come lo viviamo dall’interno. 

Il ruolo e l’importanza del (con)tatto ce lo racconta molto bene la Psicologia Funzionale che suggerisce di considerare l'essere umano, ovvero il Sé, come una integrazione di quattro grandi aree di processi: cognitivi, sensomotori, emozionali e fisiologici. Processi che applicati al contatto ci permettono di evidenziarne diverse angolazioni prospettiche come: un processo inerente il tatto, emozione, pensiero e una cascata di ormoni e neuromediatori. Alessandro Bianchi, psicologo funzionale e coautore con Carlo Mazzucchelli del libro Tecnologie e sviluppo del benessere psico-biologico parla della pelle come di una interfaccia, del tatto che anticipa ogni cornice narrativa ed è più di un semplice senso per il suo essere potente dispositivo relazionale attraverso il quale troviamo il nostro posto nel mondo e in mezzo agli altri. 

Le sensazioni piacevoli generate dal tatto si ricordano e possono essere richiamate alla memoria, in forma di carezze ricevute o date. Nel tatto si può cogliere “l’emozione, lo stato d’animo in esso connesso, la sua venatura variabile tra rassicurazione ed eccitazione […]”. Il tatto come pensiero racconta “la memoria dei fatti, dei gesti, il contesto ambientale e la persona oggetto del Contatto; ma anche il valore che è stato dato all'esperienza, il suo significato sul quale possiamo interrogarci”. Infine il tatto scatena una cascata di ormoni e neuromediatori di cui non siamo coscienti perché non percepiamo il rilascio di ossitocina conseguente a un abbraccio o l'aumento del tono vagale, modalità di funzionamento del Sistema neurovegetativo, ma ne sentiamo chiaramente gli effetti: il battito cardiaco che rallenta se prima agitato, il rilassamento, il piacere che si diffonde, il peso sullo stomaco che si dilegua. Sensazioni anch'esse tutte (ri)accessibili nella nostra memoria. 

I tanti significati qui associati alla semplice parola contatto illustrano bene la distanza che la separa dalla stessa parola utilizzata sulle piattaforme tecnologiche e tanto di moda oggi. Il contatto di cui parliamo e il cui significato profondo ritorna in molte parti di questo libro è un “funzionamento psico-biologico corrispondente a uno specifico, essenziale e invariante bisogno di fondo che solo da una esperienza piena e integrata può trovare risposta appagante”.

Il bisogno del contatto tattile (carezze, pressioni, abbracci, baci, ecc.) va di pari passo con quello delle parole, della voce che spesso le accompagna. Lo sguardo come le parole emana dal volto, non può lasciare indifferenti perché ogni contatto tra due individui determina un effetto su entrambi. Scrutare un volto equivale a mettersi a nudo e al tempo stesso leggere la nudità dell’altro. Privati dello  sguardo, per dirla con Lévinas, si perde la possibilità di accogliere e entrare in risonanza con l’Altro, di prestare attenzione al mistero, all’enigma, che è la forma con cui si dà ogni identità umana. Online, senza la possibilità di contatti diretti e senza incrociare il volto umano diventa impossibile cogliere le tracce che ogni ‘mistero d’esistenza’ lascia dietro di sé. Queste tracce sono elementi costitutivi dell’inesauribile differenza, specificità e alterità che ogni essere umano rappresenta, si palesano e trovano la loro espressione attraverso il volto umano. Recuperare il volto dell’Altro, poterlo guardare senza paura e con emozione è un modo per guardare sé stessi, il nostro volto che si riflette in quello degli altri. 

La pandemia che ha tarpato le ali a questo sguardo, assorbendolo e vanificandolo dentro i pixel luminosi di uno schermo, ci ha fatto sentire quanto sia diventato urgente riallacciare il (con)tatto, tornare a guardare visi e corpi, a toccare e a essere toccati. Non con un puntatore digitale ma con le mani, dallo sguardo, da un corpo. L’urgenza è legata alla inadeguatezza delle facce-immagini digitali a comunicare quello che noi siamo, dalla necessità di guardare al di là e oltre i visi incontrati per rinvigorire mente e corpo e, nel farlo, per ridare forza alle parole e, anche attraverso di esse, reinventare la realtà. L’incapacità o l'impossibilità a saper guardare al di là, riduce l’Altro a semplici ombre tutte uguali che passivamente ci seguono, ci stanno appresso ma senza mai catturare l’attenzione del nostro sguardo, generando indifferenza e inazione, per poi sparire nel nulla.

Gli effetti di questo mancato incontro sulle persone sono oggi ben raccontati dall’aumento delle sofferenze psichiche e cognitive, dallo straniamento che deriva da un dilemma, ben rappresentato in tempo di pandemia, dal timore di contatti troppo intimi e tattili con gli altri e, al tempo stesso, dalla paura ansiogena di rimanere isolati, senza rapporti interpersonali. L’aumento della sofferenza è determinato anche dallo sforzo di adeguamento a condizioni esterne e ambientali completamente mutate, dalla pervasività della tecnologia, dal ruolo assunto dalle piattaforme digitali nella socialità, nella comunicazione e nella relazione, con sé stessi e con gli altri. 

Uno degli effetti è l’inibizione progressiva della sensibilità ossia la “competenza che permette agli umani di interpretare segni non verbali e non verbalizzabili, di comprendere ciò che non può essere espresso in forme sintatticamente finite”. Un altro effetto è il venire meno della risonanza emotiva, ossia della capacità psichica di registrare le proprie e le altrui azioni come buone o cattive, di capirne le implicazioni e le conseguenze per l’Altro. Azioni di questo tipo, che ormai riempiono le pagine di cronaca dei giornali, si manifestano in comportamenti di (cyber)bullismo, sexting e porno revenge, di violenza sulle donne ma anche su semplici mendicanti, dati alle fiamme per puro divertimento o sfida (challenge) tra compagni di gioco, spesso emulando videogiochi da divano e multiplayer sparatutto e metaversi vari nei quali un numero crescente di adolescenti passa il proprio tempo libero a giocare. Un videogiocare immersivo che racconta il disancoramento crescente di chi lo pratica dalla realtà, percepita come monotona e come tale da rendere eccitante attraverso azioni e comportamenti violenti e aggressivi come quelli citati.

Il calo di sensibilità va di pari passo con la digitalizzazione delle relazioni che, proprio mentre le narrazioni tecnologiche celebrano l’apoteosi della socialità delle molteplici reti sociali, determinano il venir meno dei legami comunitari (da qui la voglia di comunità così ben descritta da Bauman nei suoi libri), solidali, fraterni, compassionevoli e responsabili. La sparizione di questi legami si traduce in paura, vulnerabilità, smarrimento, incertezza e insicurezza esistenziali, in timidezza e freddezza nei confronti degli altri. In particolare verso altri considerati stranieri, persone che sperimentano una difficoltà maggiore nel trovare il calore che sempre è determinato dalla solidarietà umana, in termini di consolazione, compassione, serenità, condivisione, incoraggiamento e sensibilità. 

I legami spariti, non sostituiti e neppure sostituibili da quelli online, hanno acuito isolamento, solitudine, sofferenza psichica e sensazione di precarietà, creando in molti l’impressione angosciante di ansia e di inquietudine. Difficilmente superabile nella realtà connessa e globalizzata attuale. Risultato di una economia digitale che tende a automatizzare ogni flusso esistenziale, a trasformare ogni gesto, ogni comportamento, ogni relazione sociale in un'occasione mercificata di vendita, di consumo e di ricerca di profitto. 

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