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Siamo parole in carne e ossa

Siamo parole in carne e ossa

08 Giugno 2023 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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Quando, con le nostre voci o con il nostro silenzio parliamo, ci scopriamo composti di parole che si incarnano in ogni ruga che attraversa i nostri sguardi, in ogni arricciatura che le nostre labbra prendono e in ogni gesto che, partendo da un dentro turbolento e complesso, si dirige sempre verso un esterno dove quel disordine sembra rispecchiarsi, come causa o conseguenza.

Siamo parole in carne e ossa, insiemi incarnati di carne e di sangue, di silenzi e di passi, di solitudini, di mani strette, di baci, carezze e abbracci. Attraverso una voce dirompente e coinvolgente o con un silenzio fragile ma che sa scuotere ogni radice, ognuna delle parole che danno forma al nostro linguaggio, compongono il nostro corpo e la nostra anima, narra di un oltre inaspettato, invisibile, che abita in ogni essere umano e, contemporaneamente e allo stesso modo, nella realtà che ci è intorno, ogni giorno sempre più alla deriva, di un’umanità vagabonda e bisognosa. Un oltre che è nuovo respiro e primo passo di una rinnovata esistenza. 

Nella loro apparente semplicità e immediatezza, le parole sono luogo dove l’oltre che ci costituisce emerge come pensiero e azione. Come pensiero in quanto ogni singola parola, pronunciata sottovoce o a pieni polmoni, riesce a scuotere una mente, un’anima, un’interiorità (intimità), facendone vibrare radici e corde profonde, collegando il cuore al cervello, la ragione alle emozioni. Un processo che spesso crea disarmonia e disordine e che, proprio per questo, risulta essere interessante, fondamentale. Nel mondo tecnologico contemporaneo, nella politica, nell’economia, nell’etica in generale, ci accorgiamo che le parole, con i loro significati comuni e insieme ulteriori, sono il più delle volte causa di incomprensioni, fraintendimenti, crisi, differenze. In alcuni casi, solo per essere state pronunciate, magari in forma di poesia o di post digitale, diventano persino motivo di incarcerazione o causa di morte, come è successo a molti intellettuali che non hanno rinunciato alle loro idee per difendere valori e diritti. Tutto questo negativo che le parole sembrano generare, in realtà, se lo guardiamo da un’altra prospettiva, scopriamo che ha in sé una disarmante positività che lo rende indice di trasformazione e di cambiamento, carezza delicata su una realtà ferita, schiaffo coraggioso che scuote un’umanità disorientata, infelice e assopita. 

L’Oltre emerge poi anche come azione, in quanto, creando disordine tra delicatezza e forza, è capace di condurre gli individui e quindi l’intera società, a un’azione rinnovata, pensata e radicale, dentro sé stessi e fuori di sé. L’oltre conduce ad agire da esseri pensanti, responsabili e consapevoli, a non fermarsi alla rappresentazione e al linguaggio con cui è grammaticalmente espressa. Induce a conoscere  e a pensare da esseri capaci di tradurre, senza l’arroganza che sempre possiede ogni traduttore, alla ricerca di ciò che resta non esprimibile in ogni linguaggio, di interpretare i linguaggi degli altri, così come a immaginarne e a crearne di nuovi, per ricominciare (“continuare a cominciare”) ogni volta. 

Dunque, la dimensione ulteriore, l’oltre da catturare dietro le parole, compresi i silenzi che sempre le accompagnano, i colori e le molteplici voci della nostra realtà, donano luce e forma a un’esistenza che sembra avere totalmente dimenticato sé stessa, le sue potenzialità, i suoi confini e i suoi orizzonti. 

Nell’Oltrepassare le parole, emerge allora un profondo significato etico che avvolge e protegge questo oltre, ovvero quello di essere guardati. Tanto più etico quanto più l’esperienza del guardare e essere guardati sembra essere tramontata, sostituita dalla pratica che fissa gli occhi dentro cornici magnetiche, luminose e attrattive che agiscono da strumenti di alienazione terminale della mente, dell’attenzione ma anche dello sguardo. 

Dall’Oltrepassare, dal pensiero e dall’azione che l’oltre scatena emerge un’umanità che, nel disordine, necessita di essere guardata, ovvero di essere presa in considerazione, con amore e immergendosi nella sua complessità, anche se questo significa sradicarla, cambiarla, rivoluzionarla. Sentire la vitale necessità di essere guardati per tornare a sé stessi e all’intera società, è aver bisogno di attenzione, ascolto e comprensione del proprio disordine personale e collettivo, ma anche di un radicale e insieme delicato rimprovero a riordinarsi, necessario per esistere altrimenti. 

L’umanità che emerge è un disordine ingarbugliato ma vitale, da riordinare seguendo le regole del caos senza lasciarsi intrappolare da esso. 

Provando infatti a deviare lo sguardo dai mille nodi intrecciati della complessità disordinata della nostra umanità, dall’altra parte, come in un punto a croce, ci accorgeremo dello splendido disegno a cui essi a poco a poco stanno dando vita con coscienza e sapienza. Intrecci complessi e soffocanti generano bellezza: l’umanità è un disegno a punto a croce in cui ognuno deve ricordare che la bellezza è fatta di nodi, tutti tra loro interconnessi, di relazioni. 

L’umanità è anche un faro che nessuno guarda più. Per via della sua luce fioca la quale mette a rischio l’intera esistenza stessa, ma anche perché lo sguardo è sempre più ingabbiato nell’orizzontalità risplendente e riflettente di uno schermo tecnologico, magnetico e digitale, dal quale sembra essere diventato impossibile distaccarsi, disconnettersi, separarsi. Uno schermo che rende invisibile o trasforma in uno sfondo la realtà al di fuori della sua cornice, che virtualizza e rende trasparente il corpo, facendoci perdere la capacità di collezionare esperienze percettive capaci di cogliere il mondo nella sua interezza e materialità. 

Uno schermo che, come ha scritto Carlo Mazzucchelli nel suo libro E guardo il mondo da un display: “È flessibile, magnetico, attrattivo, tattile, irresistibile, virtuale, ologrammatico e tanto reale […] metafora potente del nuovo modo di guardare e interagire con la realtà del mondo che ci appare […] usato per costruire mondi virtuali e paralleli nei quali perdersi e ritrovarsi, da soli o in compagnia, ma sempre con lo sguardo incollato alle narrazioni visuali di un’immagine o di una fotografia, a un messaggio che parla e comunica fatti, avvenimenti, sentimenti e storie, a un video che scorre, a un videogioco labirintico e senza fine, ad applicazioni che servono per portare a termine un’attività lavorativa o semplicemente per giocare. Le generazioni passate hanno guardato il mondo da un oblò che può essere attraversato dallo sguardo come quello di AstroSamantha, oggi le nuove generazioni lo fanno attraverso lo schermo di un display, mai neutrale, capace di confondere la finzione con la realtà, creando molteplici mondi virtuali nei quali abbandonarsi, perdersi, emozionarsi, rispecchiarsi, riconoscersi e cercare di sentirsi vivi.” 

Perduti e innamorati dei propri display, gli umani dell’era tecnologica postmoderna sembrano tante monadi Leibniziane, tutte in armonia tra di loro ma perse in universi differenti, alla costante ricerca di unità e di esperienze, non soltanto visuali ma materiche, cinestetiche, prossemiche, sonore, linguistiche, olfattive, gustative e tattili. Esperienze che anche il display più innovativo e tecnologicamente avanzato non è ancora in grado di regalare. 

Recuperare queste esperienze incarnate, tornare a guardare la complessità dell’umanità è la missione di ogni essere umano. Una missione individuale, dentro percorsi fatti con altri. L’essere guardati nei propri disegni di bellezza emergenti dalle interrelazioni tra innumerevoli e fitti nodi disordinati è il bisogno nascosto di ognuno, dentro le pieghe di quell’oltre, tremendo ed insieme meraviglioso, in cui ogni individuo si trova immerso.

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