Viviamo tempi di crisi, di violenza e distruzione, di grande avvizzimento, sotto il vulcano[1], per alcuni millenaristi la prefigurazione delle apocalissi che verranno, per altri semplicemente tempi di grandi cambiamenti, forse rivoluzionari, epocali. Tempi complicati, di grande incertezza, anche esistenziale per colpa di una pandemia le cui onde sussultorie arrivano ovunque. Dentro un terzo millennio che si è presentato con disastri successivi (attacco alle Torri Gemelle, crisi finanziaria del 2007/2008, disastri ambientali, pandemia da Coronavirus, ecc.) a cui siamo precariamente scampati o da cui siamo stati lambiti. Viviamo tempi duri ma anche molto filosofici. Tempi incerti e senza bussola, nei quali sentiamo forte il sentimento di precarietà (non si tornerà più alla vita di prima) e cresce il bisogno di conoscere, insieme al desiderio di sapere. Il bisogno in molti è ancora implicito, manca l’appetito del desiderio. Scarsa è la capacità di resistere alle innumerevoli lucciole luminose ma ingannatrici che abitano i mondi online.
Siamo parole in carne e ossa
Questi sono tempi nei quali, mentre si diffonde il pensiero binario e veloce, la maggior parte delle persone sembrano aver rinunciato a pensare, persone semplici così come governanti e politici, imprenditori e liberi professionisti. Il non pensare non è solo legato al troppo tempo passato online, dipende anche dai tempi superficiali ed eccezionali che stiamo vivendo. L’effetto è che non ci si sofferma più, mettendosi in una posizione esterna, a valutare le cause delle proprie azioni, soprattutto quelle guidate dalle emozioni, dagli istinti e dalle pulsioni, come quelle che emergono dalla comunicazione e dalle narrazioni che caratterizzano la realtà fattuale. Il non pensare ha effetti anche sulla vita interiore, si finisce per non conoscersi, per giustificare tutto, per non fare delle scelte, ma soprattutto per isolarsi dal mondo esterno e dai suoi fatti, sempre utili a mettersi in discussione, a sperimentare reazioni di attrito e conflitto, tutti eventi e situazioni che possono servire a misurare l’ambizione e la vanità personali, la convinzione di avere sempre ragione e di essere nel giusto, l’uso delle parole che si fa e la loro falsità. La misurazione può facilitare la presa di coscienza, primo passo verso una maggiore consapevolezza e responsabilità.
Fortunatamente il disincanto tecnologico crescente sta facendo emergere la percezione forte di tempi in cambiamento. Sta ispirando scelte individuali non necessariamente conformistiche o politicamente corrette, nuovi stili di vita e comportamenti diversi, da parte di un numero crescente di persone. Le une e gli altri caratterizzati dalla maggiore conoscenza e consapevolezza, dalla disponibilità a uscire dalle zone di conforto abituale per mettersi alla ricerca di verità. La ricerca così come la riflessione non può che muoversi entro una prospettiva antropoietica[2], a partire dalla consapevolezza che le nuove tecnologie hanno delineato per noi il nuovo ambiente socio-culturale, e non solo, nel quale ci muoviamo. Questo ambiente tecnologicamente modificato, ibridato, modifica lo spazio dimensionale autopoietico umano, dà forma a quello che siamo (diventati), ci modella mentalmente, culturalmente e socialmente attraverso riti di iniziazione suoi propri, fatti di nuove mitologie, di luoghi di culto come le piattaforme, attraverso linguaggi e narrazioni, ritualità di gruppo e pratiche che finiscono per essere percepite completamente naturali, anche se non lo sono.
Il percorso che qui delineiamo come Oltrepassare è una ricerca o prassi filosofica. Parte dalla comprensione di chi si è, come soggetti e come genere umano. La comprensione deve abbracciare la realtà tecnologica nella quale siamo immersi, l’era dell’Antropocene che sta forse portando alla sesta estinzione di massa, il come rimanere umani in un’epoca caratterizzata dall’affermazione di tendenze negative quali razzismo, omofobia e demagogia, che si manifestano nella brutalità del linguaggio e soprattutto nell’assenza di (tecno)consapevolezza, responsabilità e coscienza.
Osservare, comprendere, analizzare, elaborare pensiero critico, riflettere sono tutti verbi transitivi che suggeriscono di risvegliarsi dalla narcolessia che ha colpito moltitudini, di agire concretamente, impegnandosi a testimoniare che è possibile superare i tempi correnti attraverso il cambiamento e resistendo al tentativo di indirizzamento algoritmico dell’esistenza investendo sull’individuo come soggetto critico e autonomo. Un soggetto, oggi limitato nel suo essere indebitato, impoverito, mediatizzato e controllato e non più rappresentato politicamente, ma pur sempre capace di individuazione, di resistere all’omologazione e al conformismo, di scappare dagli acquari tecnologici delle piattaforme e dalla prepotenza mai neutrale degli algoritmi, per sottrarsi ai nuovi meccanismi di potere che stanno soggiogando le persone e imbrigliando il mondo.
Il soggetto a cui facciamo riferimento è incarnato, non solo virtuale, fatto di pulsioni ed emozioni, di cuore e polmoni, di muscoli e innervazioni, di carezze e vibrazioni, di bisogni e desideri, aperto alla compassione e alla trasformazione. Consapevole delle implicazioni limitanti, quali la perdita della padronanza a scapito delle macchine, e al tempo stesso di quelle positive degli strumenti che utilizza e che facilitano scambi, relazioni, efficienza, velocità, ecc.
[1] Un riferimento al titolo di una nuova rivista da poco (dicembre 2021) in distribuzione, nata per registrare e raccontare le trasformazioni delle cose, dei pensieri e degli immaginari nella tempesta che stiamo vivendo.
[2] Francesco Remotti, 2013, Fare umanità. I drammi dell’antropopoiesi, Bari, Laterza, pp. 235. (La prospettiva antropopoietica adotta la teoria dell’incompletezza come uno dei sui presupposti. L’essere umano non conosce una sola nascita, quella fisiologica collegata al parto, ma ne compie altre di natura tutta sociale e culturale.)