Il libro E GUARDO IL MONDO DA UN DISPLAY di Carlo Mazzucchelli è pubblicato nella collana Technovisions di Delos Digital
La vita sullo schermo
“Quel che mi attira del computer è la possibilità di tenere delle conversazioni tra le molteplici finestre sullo schermo e il modo in cui una macchina, dalle risposte immediate, lenisce le mie ansie…” – Sherry Turkle (La vita sullo schermo)
L’avvento della società degli schermi tecnologici, non più solo cinematografici e televisivi ma nella forma di display piccoli e potenti, sempre accesi e ammiccanti, è l’espressione perfetta della cultura post-moderna della quale siamo imbevuti. Una cultura pesantemente influenzata dai nuovi media e dalla tecnologia, che tende a mettere in discussione la realtà stessa, il valore assoluto della scienza e altre forme di conoscenza per lasciare spazio alle interpretazioni, alle meta-narrazioni (non quelle storiche ideologizzanti e totalizzanti ma quelle più incerte, frammentate e condivise della realtà liquida di tutti i giorni) e alle simulazioni. Come quelle che caratterizzano la vita sullo schermo e dentro lo schermo, una vita che prende la forma del suo contenitore, sempre in divenire, in movimento e che è continuamente rimodellata. Una vita nella quale il riflesso di se stessi viene proiettato in forma di immagini, selfie, video, testi e azioni che scorrono e possono essere letti attraverso il display di un computer o di uno smartphone. Una vita che prende la forma del flaneur (un consumatore girovago dedito allo shopping nelle moderne caverne di centri commerciali e supermercati, e incapace di dare spessore alle relazioni con gli altri, capace di registrare mentalmente ogni cosa e poi di cancellarla), del vagabondo senza radici che ha perso la spinta dell’On the road ed è sempre in movimento e alla ricerca di una destinazione da spostare sempre un po’ più in là, del turista alla continua ricerca di nuove esperienze di viaggio e spazi da esplorare e del giocatore alla ricerca del divertimento perenne e di nuove forme di intrattenimento ([1]). A queste figure si potrebbe aggiungere quella del vagabondo mobile del cyberspazio, utilizzatore di potenti schermi con cui esercita la sua curiosità e ricerca, ma anche il suo nomadismo nell’immensità della Rete e la sua tendenza al voyeurismo da social networking.
Agli albori dell’era tecnologica lo schermo era lo strumento auto-riflettente delle attività di pochi programmatori che sullo schermo vedevano scorrere con gioia i risultati del loro lavoro e della loro genialità. Oggi che il codice software è sparito, sostituito dalle sue rappresentazioni iconiche e per metafore visuali, dentro lo schermo ci si ritrovano tutti perché tutti possono sperimentare e rappresentare se stessi (profili icona) in situazioni simulate e in ambienti esperienziali diversi. Non è necessario scendere in profondità per vivere esperienze importanti, è sufficiente cliccare icone, aprire finestre, toccare il display di un tablet e navigare in superficie. Un’attività che ben si sposa con la realtà del cittadino post-moderno vagabondo e flaneur e che avviene attraverso lo zapping, il touch, lo swipe, il tap, il drag e il pich e altre esperienze sensoriali, tutte finalizzate alla ricerca del piacere, del viaggio, del gioco e del benessere del presente e meno a vivere la realtà fattuale, spesso incerta, precaria e sofferente nella quale il suo corpo fisico continua a fluttuare.
Il mondo post-moderno è malato di presentismo, manifestazione del bisogno di vivere nel Long Now e Deep Now ([2]) dell’utopia del presente e dell’attimo fuggente del momento, e diventato unico orizzonte perseguibile come possibile, anche nella sua costante e persistente fugacità e illusorietà. Presenti sono diventati anche i molti passati che scorrono sugli schermi e che ci permettono di vivere, in parallelo e contemporaneamente, esperienze storiche e correnti. Questi passati proliferano e coesistono nella forma di dati, informazioni e archivi, narrazioni e dizionari ma soprattutto immagini, video e filmati, tutti consumati e vissuti attraverso media ottici e display tecnologici.
Ciò che un tempo viveva come memoria oggi è semplice immagine che scorre sulla finestra (tela, cornice) di un display. Una finestra e un fotogramma che servono a ricollegare frammenti di storia vissuta e di ricordi ma che finiscono per trasformarsi in pura finzione, auto-narrazione e sceneggiatura. Al tempo stesso l’immagine diventa potente strumento per collegare, attraverso l’immaginazione, il passato con il presente. Il display si trasforma in mezzo per costruire, attraverso i suoi molteplici percorsi possibili, una storia del mondo, diversa perché più globale, e capace di collegare il nostro piccolo mondo reale con i numerosi altri esistenti, lo schermo piccolo del nostro dispositivo mobile con l’immensità delle nuvole di informazione digitale che ci portano in giro e ci rappresentano online.
Lo schermo è la porta spaziale e temporale dentro la dimensione del cyberspazio, uno spazio navigabile e soggettivo legato si movimenti e alle emozioni del soggetto, che si aggiunge a quello fisico e mentale e che, nonostante sia virtuale, non è un non-luogo ma anzi è diventato il luogo per eccellenza di molte delle nostre esperienze e utopie presenti. È un luogo economico e sociale ma soprattutto psicologico, nel quale immergersi quotidianamente e rispecchiarsi, che ristruttura e ridefinisce la nostra relazione con la realtà, e si offre come ambiente confortevole e gratificante a tanti novelli Robinson Crusoé alla scoperta di nuovi mondi e risorse, per soddisfare desideri, bisogni materiali, mentali e spirituali. È sullo schermo che è racchiuso tutto il mondo vissuto da nativi digitali e da NEET (Not in Education, Employment or Training) ([3]), in difficoltà a vivere la loro realtà familiare e a trovare la via di uscita per il loro ingresso nella società e nel mondo del lavoro. È sullo schermo che si sfogano le solitudini e i desideri insoddisfatti di molti immigrati digitali alla ricerca di nuovo senso da dare alla loro vita personale, sociale e relazionale.
Sul ruolo dello schermo nella società contemporanea hanno scritto grandi pensatori come Mc Luhan (lo schermo come uno specchio nel quale ci si riflette ma anche come passaggio verso qualcosa), De Kerckove (lo schermo come strumento di comunicazione per un’oralità basata sulla sensorialità), Baudrillard (“il nuovo mondo vive sulla superficie di un display, lo schermo rappresenta la ‘satellizzazione del reale’ ottenuta attraverso la velocità di fuga nell’iper-realtà, il display diventa un veicolo iperreale per un viaggio attraverso un mondo simulato”), Lacan (“non è l’io che costruisce la propria immagine e attraverso essa entra in relazione con la realtà, ma è l’immagine stessa che si incontra casualmente a crearci letteralmente come soggetti”), Merleau-Ponty (dalla rappresentazione alla visione, solo lo sfondo di uno schermo rende…), Lyotard e molti altri. Le loro argomentazioni sono dotte e profonde ma forse poco comprensibili dalla maggioranza di coloro che con gli schermi attuali hanno definito nel tempo una consuetudine e una relazione stabile e duratura, tutta fondata sulla rappresentazione e simulazione di realtà con le quali si trovano sempre più a loro agio.
Sullo schermo e il suo ruolo nella vita del cittadino tecnologico moderno, l’autore che ha prodotto le riflessioni più interessanti è forse Sherry Turkle, una sociologa che da anni studia gli effetti delle nuove tecnologie sui comportamenti umani, siano essi individuali o sociali. Allo schermo l’autrice ha dedicato un libro intero, La vita sullo schermo, nel quale ha cercato di investigare quanto siano distanti e separate le vite sullo schermo da quelle reali e quali siano gli effetti della relazione stretta che ci lega ai display tecnologici sul modo di pensare, sulle relazioni, la politica, la sfera affettiva ed erotica, il sesso e noi stessi. La sua conclusione è che il computer (il libro è del 2005, in qualche modo profetico se si pensa alla rivoluzione intervenuta con l’arrivo dell’iPhone nel 2007) tramite il suo schermo sta modificando il nostro cervello, la nostra mente ma anche il nostro sentire e il nostro cuore.
Grazie agli schermi tecnologici abbiamo imparato ad andare oltre il riflesso di noi stessi che ogni schermo ci ritorna. Abbiamo imparato ad abitare mondi virtuali, diventati piacevoli perché popolati da molte altre persone con le quali fare comunità, interagire e coltivare relazioni. E poco importa se l’interazione passa attraverso entità e identità inanimate e digitali come nella forma di profili online. In questi nuovi mondi dentro lo schermo, i più si sentono a casa loro e si ritrovano a fare i conti con loro stessi ma in dimensioni diverse, fantastiche, simulate e forse anche più libere per accettarsi e stare bene. Le molte finestre coesistenti sullo stesso display offrono infinite vie di fuga e di esperienze non altrimenti sperimentabili nella vita al di fuori dello schermo, di dare libero sfogo alle personalità multiple che caratterizzano ogni persona e di impersonare ruoli diversi nello stesso istante.
Dentro lo schermo è come essere su un palcoscenico nel quale si giocano ruoli diversi, entrando e uscendo dai personaggi senza abbandonarne in realtà nessuno. Nella realtà fattuale le identità non sono cumulabili, nello schermo sono parallele e coesistono. Grazie al display ognuno può costruire e ricostruire la sua identità a piacere e con ognuna delle sue rappresentazioni può attivare e coltivare nuovi canali relazionali e di comunicazione. Nel farlo si può dimenticare di assegnare le dovute priorità alle proprie esperienze e sottovalutare l’importanza della priorità che dovrebbe avere la vita reale, lontana dallo schermo.
La vita dentro lo schermo è fatta di vite virtuali, di profili digitali e di esperienze vissute in prima persona e in compagnia di altri. Ci si sente protagonisti del proprio destino e di relazioni amicali e affettive, percepite come reali perché capaci di soddisfare bisogni impellenti di socialità, amicizia e affettività. Nella realtà lo schermo non è trasparente ed è delimitato da una cornice che offre uno spaccato circoscritto della realtà. La non trasparenza è dovuta alla presenza sulla sua superficie di innumerevoli immagini, icone, narrazioni che fanno da filtro e condizionano le attività sul display e dentro lo schermo. Ne deriva un’opacità che impedisce di vedere tutto o di vedere fino in fondo. Ciò che viene visto o percepito come visibile cattura lo sguardo, finisce per monopolizzarlo impedendogli di andare al di là dello schermo espropriandolo della sua capacità di vedere, seppure attraverso un punto di vista o di osservazione personale.
La superficie dello schermo non è sempre opaca ma può regalare anche la possibilità di scoprire nuove realtà e sperimentare altre relazioni. L’esperienza delle une e delle altre non è necessariamente superficiale ma caratterizzata da una profondità determinata dal media tecnologico utilizzato e dalla sua capacità di fare da mezzo di collegamento e comunicazione con realtà lontane e invisibili, non esperibili fisicamente ma solo grazie all’immaginazione e alla realtà simulata e virtuale che scorre sullo schermo.
Il ruolo dello schermo nella nostra esperienza del mondo attuale è tanto più importante quanto più grande è l’effetto che esso ha sul nostro modo di elaborare informazione e pensiero. A finire dentro lo schermo non è solo lo sguardo ma il nostro cervello e il nostro stesso organismo fisiologico. Quando interagiamo con uno schermo, come aveva già raccontato De Kerckove nel suo libro Brainframes del 1991, “lo schermo parla in primo luogo al corpo e non alla mente…se lo schermo video ha un impatto così diretto sul sistema nervoso e sulle emozioni, e un effetto così ridotto sulla mente, allora la maggior parte dell’elaborazione di informazione è in effetti opera dello schermo.” Si passa così da una capacità autonoma di elaborare informazioni personali a una ‘incorniciata’ dalla tecnologia e dai suoi schermi, da un’interpretazione del mondo di tipo alfabetico e verbale a una di tipo visuale e video. Lo schermo tecnologico non è solo una superficie che visualizza immagini e icone, ma un congegno elettronico che spara fotoni al cervello umano, influenza la rotazione e il movimento dei nostri occhi, struttura e organizza la nostra visione del mondo filtrandola come se avessimo degli occhiali (tecnologici), parlando al nostro corpo e alla nostra mente. ([4])
La cornice dello schermo non contiene solo i contenuti e le immagini che colpiscono i nostri occhi ma anche il modo con cui sono guardati. Grazie all’alfabeto, scrive De Kerckove, abbiamo costruito nella nostra mente un programma che ha saputo usare il computer tecnologico della nostra mente per conoscere, interpretare, categorizzare e dare forma alla realtà. Oggi il programma non è più dentro di noi ma all’esterno e nella forma di mille schermi sempre attivi che con le loro stimolazioni tattili (touch), sensoriali (feel), cognitive (know), sta definendo le nuove cornici all’interno delle quali si sviluppa la nostra psicologia e il nostro essere individui e cittadini dell’era tecnologica, digitale, virtuale e visuale corrente.
La nuova realtà non può essere valutata solo negativamente, è l’espressione dello stadio corrente di evoluzione umana e tecnologica. Con lo schermo si può convivere, interagire, abitare i suoi spazi e dimensioni temporali, sfruttare le sue interfacce e attraversarlo ogni volta che si è invitati a farlo. In un futuro non lontano la nostra testa sarà stata così cambiata dalla tecnologia e dai suoi schermi da non sollecitarci alcuna riflessione critica o preoccupazione cognitiva ed emotiva. Oggi il dubbio sugli effetti della nostra vita dentro lo schermo rimane e ci suggerisce di perseguire una interazione dialettica chiedendosi se e quanto la tecnologia abbia preso il sopravvento.
Resistere alla carica ipnotica e ‘calamitosa’ degli schermi dei molteplici computer che ci circondano è una missione quasi impossibile ma uscire dallo schermo è ancora possibile.
Basta chiudere gli occhi e riprendere il controllo della macchina o computer interiore. È sufficiente cogliere l’intervallo tra un’immagine e l’altra, spostare l’attenzione verso l’esterno dello schermo, deviare l’attenzione dell’occhio verso ciò che continua a esistere all’esterno della sua cornice, scoprire che la persona fuori dello schermo è diversa da quella che vi è proiettata, cambiare l’angolo di visuale per elaborare punti di vista diversi da quelli predefiniti e prescrittivi dei programmi e delle applicazioni che usano lo schermo, per riappropriarsi della propria autonomia.
[1] I riferimenti usati sono alle figure definite dal sociologo Zygmunt Bauman come idealtipiche e descrittive del cittadino postmoderno. Figure usate nel libro La società dell’incertezza in cui analizza il disagio della postmodernità che nasce dalla ricerca del piacere e dallo scoprire la limitatezza dell’azione umana determinate dal principio di realtà. Il disagio nasce dal problema dell’dentità e per spiegarlo Bauman ricorre alle figure simboliche del Pellegrino simbolo dell’età moderna e dell’uomo che sta costruendo la sua vita e il suo future conscio e sicuro che ci sarà un future), del turista (ha una casa ma si sposta temporaneamente alla continua ricerca di sensazioni e piaceri) e del vagabondo (non ha più radici e nessuna stabilità), del giocatore (vota perennemente al gioco percepisce il tempo come una successione di partite) e del flaneur..
[2] Riferito al testo The Long Now di Danny Hillis, Stewart Brand e altri membri della comunità online The Well: “The Long Now Foundation was established in 01996* to develop the Clock and Library projects, as well as to become the seed of a very long-term cultural institution. The Long Now Foundation hopes to provide a counterpoint to today's accelerating culture and help make long-term thinking more common. We hope to creatively foster responsibility in the framework of the next 10,000 years
E guardo il mondo da un display
[3] NEET è l'acronimo inglese di "Not (engaged) in Education, Employment or Training", in italiano anche né-né indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro e né nella formazione. Nelle zone di lingua spagnola sono indicati come Nini o Ni-ni (in relazione a Ni trabaja, ni estudia, ni recibe formación). I dati relativi ai né-né sono utilizzati in economia e in sociologia del lavoro per indicare individui che non sono impegnati nel ricevere un'istruzione o una formazione, non hanno un impiego né lo cercano, e non sono impegnati in altre attività assimilabili, quali ad esempio tirocini o lavori domestici. È stato usato per la prima volta nel luglio 1999 in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito, come termine di classificazione per una particolare fascia di popolazione, di età compresa tra i 16 e i 24 anni. In seguito, l'utilizzo del termine si è diffuso in altri contesti nazionali, a volte con lievi modifiche della fascia di riferimento: in Italia, ad esempio, l'utilizzo di né-né come indicatore statistico si riferisce, in particolare, a una fascia anagrafica più ampia, la cui età è compresa tra i 15 e i 29 anni, anche se in alcuni usi viene usato per i giovani fino a 35 anni, se ancora coabitanti con i genitori. (Wikipedia)
[4] Spunti tratti dal libro Braiframes di Derrick de Kerckove pubblicato nel 1991 da Baskerville nel quale l’autore illustra le sue indagini volte alla comprensione dell’impatto delle nuove tecnologie sullo sviluppo della psiche umana e sulla costruzione di nuovi modelli mentali. Nel suo libro l’autore sottolinea quanto sia importante avere coscienza della inscindibilità del progresso tecnologico dai risvolti psicologici e psichici che esso determina nell’uomo. La diffusione del video e delle nuove tecnologie dell’informazione hanno una ripercussione immediata sulla capacità di sviluppare strutture e modelli mentali adeguati.