E guardo il mondo da un display

01 Dicembre 2015 Redazione SoloTablet
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CAPITOLO 6

Il libro E GUARDO IL MONDO DA UN DISPLAY di Carlo Mazzucchelli è pubblicato nella collana Technovisions di Delos Digital

La forza dell’immagine

 

L’unico modo di conoscere la forza dell’immagine sarà allora di riconoscerne gli effetti leggendoli nei segni del loro esercizio sui corpi che guardano e interpretandoli nei testi in cui questi segni sono scritti, nei discorsi che li registrano, li raccontano, li trasmettono e li amplificano, fino a captare qualcosa della forza che li ha prodotti.” – Louis Marin (Des pouvoirs de l’image: gloses – 1993)

I display sono pervasivi ma le immagini sono ovunque. Hanno il potere di farci fare delle cose, ci provocano emozioni forti, ci confondono, ci attraversano, ma soprattutto continuano a catturare la nostra attenzione come oggetti desideranti che hanno bisogno di attenzione costante e continua. Popolano la quotidianità di tutti i consumatori tecnologici attraverso i dispositivi da loro usati che diventano strumenti potenti di una nuova forma di colonizzazione mentale, tutta visuale, guidata dagli occhi e dal magnetismo attrattivo dei display. Da questi display le immagini ci guardano, si muovono, si presentano in modo attivo e ci influenzano, andando a dare forma, anche culturale, agli ambienti da noi abitati. Le immagini sono diventate così numerose e ipervisibili (prodotto della virtualità e multimedialità delle immagini) da produrre un surplus visuale, paragonabile a quello informativo e cognitivo causato dagli stessi strumenti tecnologici e dai media digitali che le veicolano, le moltiplicano e le rendono accessibili.

L’immagine risiede oggi su una miriade di dispositivi mobili e tecnologici, ci raggiunge attraverso canali televisivi e Internet assumendo significati che vanno oltre la semplice considerazione estetica per diventare linguaggio, strumento di interazione, di scambio e di comunicazione tra il corpo e l’occhio dell’utente, la sua vita e la sua rappresentazione sullo schermo. La pervasività degli schermi tecnologici ha creato la piattaforma ideale per un ecosistema delle immagini che punta a sostituire quello naturale. Un ecosistema virtuale nel quale le immagini agiscono da elemento attivo che punta a catturare in modo attivo l’occhio, il corpo nel suo complesso, la mente e la memoria del suo interlocutore. Un obiettivo che sarebbe impossibile da realizzare senza l’ausilio degli innumerevoli schermi che popolano la vita dei cittadini della post-modernità. Display che influenzano i comportamenti e gli stili di vita, che innescano nuovi processi mentali e nuove forme di percezione della realtà. Immagini che allargano la loro sfera di influenza ad ogni ambito di senso, sia esso affettivo, etico, sociale, politico o religioso.

Sulle loro superfici piane e colorate, icone, fotografie, immagini, sempre in movimento e dalla vita breve, riempiono di significati lo spazio visivo dell’utente catturando l’attenzione e mettendo sullo sfondo tutto il resto. Sono immagini che alimentano forme di comunicazione spesso superficiali e così estemporanee da non lasciare tempo alla riflessione e alla formazione di nuove analogie, utili alla migliore descrizione e comprensione del mondo. Nel loro susseguirsi caotico sullo schermo si prestano a essere rapidamente consumate ma a volte diventano così pervasive, persistenti e simboliche da imporsi alla memoria e da influenzare relazioni e comportamenti. La sovraesposizione visiva a cui le immagini ci hanno abituato è tale da rendere cieco il nostro sguardo. Incapaci di cogliere il senso vero che ogni immagine cerca di comunicare tendiamo alla loro rimozione, cognitiva prima ancora che digitale. È così che molte delle immagini di Instagram o Facebook finiscono per sparire nel flusso e nello scorrimento di una pagina web senza trovare alcuna risposta al loro bisogno di essere percepite, viste, ascoltate e capite.

Il ruolo di queste immagini non è passivo, come non lo è probabilmente mai stato neppure quando l’immagine era quella che usciva dalla cornice di un quadro o dalla corporeità di una statua. Le immagini ci inseguono ovunque dando forma ai nostri pensieri, creando nuove sensibilità e producendo nuove culture. Il legame che unisce occhio e immagine è così forte dal generare simpatia, empatia e immedesimazione. Le immagini attivano i nostri neuroni a specchio ([1]), sfruttano le protesi tecnologiche di cui siamo dotati e le loro interfacce e media digitali per occupare attivamente la nostra mente.

Le immagini che scorrono sul display dello schermo si comportano come neuroni scimmiottanti quelle reali, si accendono per imitare o rispecchiare le azioni di chi le guarda e vi si riflette. Al tempo stesso inviano segnali al cervello dell’utente determinando azioni reali anche in assenza di volontà di agire. L’immagine produce il desiderio di riflettere in perfetta simmetria quello che scorre sullo schermo, entra nella testa, contribuisce allo sviluppo di una cultura umana e tecnologica convergente e rende possibili nuove forme di comunicazione. Come quelle dei bambini e degli adolescenti, molto più abili dei loro genitori a impossessarsi delle nuove tecnologie e più predisposti a essere plasmati e a emulare le molte realtà che vedono scorrere su un display. Nello specchio di casa questi bambini possono apprendere rapidamente a emulare le mimiche facciali dei loro genitori, sui display dei loro dispositivi apprendono a emulare comportamenti, stili di vita, pensieri astratti, modi di comunicare e nuove terminologie e pratiche operative.

Le immagini hanno sostituito la parola come mezzo di percezione,  interpretazione, comunicazione,  e rappresentazione della realtà, determinando surplus cognitivi che finiscono per ostacolare la nostra memoria e la nostra conoscenza. Gli effetti collaterali più immediati sono l’assuefazione, l’indifferenza, l’incapacità a cogliere il vero senso che l’immagine vuole comunicare e una cecità anestetica che rischia di far sparire la realtà complessa nella quale viviamo. Il fatto che le immagini non ci facciano più paura non è sintomatico della loro diminuita capacità di comunicare, ma della nostra crescente incapacità a gestire il sovraccarico visuale  cui i nuovi schermi tecnologici ci sottopongono quotidianamente.

Il ruolo attivo e significante delle immagini è stato nel 2015 ben rappresentato dagli scatti fotografici, rubati sulle spiagge, che rimarranno come testimonianza futura, del fenomeno dei migranti e delle loro tragedie, individuali e familiari. Immagini di bambini e bambine, morti sulla spiaggia, che offrono biscotti alla guardia nazionale schierata per bloccare viaggi e speranze o che avanzano gattonando verso un muro di poliziotti schierati a difesa di discendenti di altri migranti del passato.  Sono immagini che vengono incontro allo sguardo, come se uscissero dai display attraverso i quali sono guardate, che parlano una loro lingua, visuale e sensoriale, che incutono paura, suscitano emozioni forti, hanno il potere di colpire e di fare male così come di determinare il destino futuro di chi le guarda.

Il carattere simbolico di queste immagini evidenzia la loro forza e la loro capacità iconica di agire come soggetto attivo e di raccontare la realtà, senza addomesticarla ma neutralizzando o amplificando i significati, le narrazioni e gli ambiti in cui operano. Lo sguardo catturato dall’immagine che scorre su un display è uno sguardo teleguidato da entità che diventano attive e capaci di farci vivere nuove esperienze percettive, così forti da esiliarci o allontanarci dalla realtà in cui siamo inseriti e dettando i nostri comportamenti mentali e pratici.

Uguale forza attiva, con effetti collaterali associati, hanno assunto le tragiche immagini degli attentati terroristici di Parigi del novembre 2015. Lo spazio ampio dedicato dai media all’attacco di Daesh e l’uso diffuso e ripetuto delle immagini ha permesso a tutti di seguire in tempo reale l’evento ma ha anche svelato quanto l’immagine possa essere manipolata e asservita a puri scopi giornalistici e di comunicazione. Semplici attività di controinformazione (debunking [2], messa in dubbio, riflessione critica) avrebbero potuto permettere di smascherare l’uso manipolatorio o superficiale di numerose immagini che hanno riempito con la loro forza iconica gli schermi ma che erano completamente false. Falsa era l’immagine della Tour Eiffel spenta in segno di lutto perché spenta la torre lo è ogni notte dopo la mezzanotte, false erano le immagini del concerto della banda rock che si esibiva al Bataclan perché riprese in un concerto precedente di Dublino, false erano le immagini delle piazze piene di francesi raccolti a manifestare perché riferite all’attentato di inizio anno al giornale satirico Charlie Ebdo ([3]), ma soprattutto false sono state moltissime immagini fatte circolare sui social network e cinguettate (retwittate), whatsappate, instagrammate superficialmente e senza alcun tipo di verifica da migliaia di persone in tutto il mondo. Come se a guidare l’azione fosse la potenza dell’immagine e non il suo significato, il simbolismo e in particolare l’attinenza alla realtà dei fatti.

L’immagine ha da sempre la capacità di prendere il sopravvento sulla parola e sul pensiero razionale ma oggi può sfruttare gli strumenti tecnologici e i media digitali per amplificare il suo potere relegando lo sguardo di chi li usa al rango di spettatore passivo, complice del messaggio che è stato loro associato. Media solitamente usati per semplice divertimento, fatto di selfie, cambiamenti di stato e conversazioni banali, in eventi come quello di Parigi, si trasformano in piattaforme, determinanti nel diffondere notizie e testimonianze e al tempo stesso in veicolo potente di disinformazione e falsità, a loro volta generatrici di nuovi pregiudizi, di paure ingiustificate e di tanta ignoranza (non conoscenza).

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E guardo il mondo da un display

La forza delle immagini moderne fa tutt’uno con quella dei display su cui scorrono e si manifestano. Schermo e immagine attirano l’attenzione e lo sguardo, si espandono come membrane, flessibili e capaci di ingurgitare in un solo boccone il corpo dell’utente trasformandolo e sostituendolo con semplici copie virtuali, esse stesse rappresentate sullo schermo specchio e quindi mai semplicemente trasparenti. L’immagine, prodotto della capacità creativa dello sguardo e dell’elaborazione umana (Alberti), ha sempre avuto questo tipo di capacità (“Il quadro, certo, è nel mio occhio. Ma io sono nel quadro”. – Lacan). Ogni immagine, anche quando molto realistica, è costruita così come è costruito culturalmente, socialmente, politicamente lo sguardo del vedente. Oggi a fare la differenza è la presenza di una miriade di immagini e la diffusione di schermi che le rendono presenti in modo pervasivo nell’esperienza umana di tutti i giorni, anche grazie ad una fruizione di tipo tattile, sensoriale e visuale che ne aumentano ed esaltano l’efficacia in termini di percezione, elaborazione cognitiva e pratiche comportamentali.

La forza dell’immagine è una conseguenza diretta della diffusione e capacità magnetica dello schermo dei dispositivi tecnologici che usiamo. L’attaccamento al display cambia la percezione del tempo legandolo a una dimensione visiva (le immagini che scorrono sul display) e sonora (i suoni a essi associati e le interfacce parlanti) popolando la mente del consumatore con continue immagini e stimoli visivi e contribuendo alla sua perdita di capacità di agire sul reale per cambiarlo. L’illusione visiva creata dall’immagine riflessa sul display e l’eccitazione da essa provocata è tale da essere preferita all’esperienza soggettiva e psicologica con realtà più complesse e problematiche di quanto non lo siano quelle virtuali rappresentate e riprodotte sul display dello schermo. È un’illusione che nasce da un’immagine ottica che si presenta nella sua realtà materiale (icona sullo schermo, atto iconico) e mentale, che determina contesti fatti di cose percepite, di ricordi e pensieri, capaci di escludere ogni elemento di contorno, fondendo insieme realtà fattuale e realtà virtuale e dando origine a nuove forme di soggettività e di espressione.

In questa nuova realtà il tempo finisce per assumere un’unica dimensione, quella del presente che non fa in tempo a essere vissuto ed è già passato. In questo fluire continuo del tempo nella virtualità dell’immagine sullo schermo la nostra esistenza diventa anch’essa virtuale, un gioco di riflessi nei quali il virtuale diventa limpido e il reale sempre più opaco, semplice immagine che si riflette nello schermo diventato specchio riflettente.

Senza saperlo ci mettiamo alla ricerca della nostra identità e la cerchiamo nell’immagine rappresentata sullo schermo in un gioco di simulazione che mescola e non separa lo spazio fisico da quello virtuale liberando lo spettatore dal vincolo della cornice e dei suoi confini perimetrali e lasciandolo libero di muoversi all’interno dello spazio. Un gioco che lascia sempre insoddisfatti e incapaci di elaborare nuovo pensiero che possa permettere di liberarsi dallo schermo e dalle immagini in esso riflesse. Come se il potere dell’immagine scavasse il nostro cervello e costruisse nuove sinapsi capaci di condizionare il nostro agire successivo e la nostra comprensione della realtà e delle sue interferenze continue e reali (in molte situazioni nulla riesce a staccare una persona dallo schermo del suo smartphone o a impedirgli di rispondere mentre è impegnato in una conversazione o on cucina o con i propri figli). Il pensiero va all’immagine sullo schermo (le icone di Twitter o WhatsApp) e vi rimane incatenato e pietrificato, a volte in forme patologiche e irrazionali. Ne derivano due diverse identità. Una espansiva, soddisfatta e interessata all’interazione, la seconda paragonabile a un simulacro e a una mummia, incapace di fare qualcosa di diverso della propria immagine riflessa e di muoversi. E’ proprio per fuggire al potere dell’immagine che i monaci tibetani dopo un lavoro, che si protrae per ore o giorni interi, finalizzato a dare forma ai loro Mandala ([4]) (cerchi ricchi si simmetrie e spiritualità) di sabbie colorate, al termine della loro attività, passano la mano sulla superficie della sabbia distruggendo la loro creazione artistica. La distruzione del Mandala, ad opera terminata, serve a rafforzare la fede del buddhista nell’importanza del non- attaccamento. La difficoltà che prova il monaco nel distruggere il suo Mandala è più complicata da superare di quelle nate durante la sua realizzazione. Una difficoltà paragonabile a quella di numerosi utilizzatori di dispositivi tecnologici che non riescono a passare la mano sul display per cancellare o coprire le immagini che vi scorrono, con l’effetto di coltivare un attaccamento crescente molto lontano da quello ascetico e distaccato del monaco buddhista.

Le immagini moderne che popolano i network sociali di Instagram, Pinterest, Flickr, YouTube e Vine sono così potenti da poter essere paragonate alle Gorgoni del mito della Medusa, creature terrificanti ma soprattutto capaci di pietrificare chiunque le guardasse. Il paragone, ben descritto nel libro Immagini che ci guardano di Horst Bredekamp, è tanto potente quanto lo era il potere delle mitologiche Gorgoni, capaci di pietrificare anche dopo che Perseo aveva loro mozzato le teste. La testa tagliata “separata dal tronco, è diventata immagine” e continua a esercitare il suo potere fino a quando l’eroe non la chiuderà in un sacco.

Per sfuggire allo sguardo pietrificante dell’immagine e in mancanza di sacchi e contenitori adeguati per impedirne lo sguardo, oggi l’alternativa è lo spegnimento dei display e la sparizione delle loro immagini. Alternativa difficile e praticabile ma dai risultati incerti, vista la quantità di immagini che ci insegue in ogni tempo e luogo da megaschermi pubblicitari in luoghi pubblici, da display promozionali nelle vetrine dei negozi, da dispositivi di digital signage destinati a suggerire le esperienze dei consumatori nei centri commerciali e  da display delle numerose sale Bingo e di scommesse digitali che stanno invadendo le strade di molte città e piccoli comuni italiani.

Grazie ai molteplici display moderni e seducenti, la realtà rischia di scomparire, il mondo di trasformarsi in pura illusione (il mondo come appare e il velo di Maya del filosofo Schopenhauer simile a uno schermo che nasconde all’uomo la vera realtà), parvenza e sogno. La visione del filosofo è forse un po’ unilaterale e pessimistica ma si sposa bene con quella postmoderna dei nostri tempi che vede i fatti e la realtà come semplici interpretazioni. A dare forza e consistenza al velo di Maya della filosofia indiana ([5]) e ripreso dal filosofo tedesco, ci ha pensato il display con le sue immagini, digitali, virtuali, perfette nella loro risoluzione ma anche distorte e capaci di numerose illusioni ottiche che eliminano la differenza tra realtà e sua raffigurazione.

Le immagini che ci guardano dai display non sono però le sole responsabili della distorsione e manipolazione costante della realtà che operiamo. Sono semplici unità di senso, sono rappresentazioni e riproduzioni di ciò che già esiste, sono strumenti di visibilità di ciò che spesso è invisibile alle parole. Tocca a noi decodificarle e interpretarle e decidere cosa farne ma soprattutto dobbiamo chiederci cosa esse vogliano.

E potrebbero anche non volere nulla ([6]).

 

 



[1] Il riferimento è al libro So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio di Giacomo Rizzolati e Corrado Sinigaglia che hanno raccontato un tipo particolare di cellule dette neuroni a specchio che sono dotate della particolarità di attivarsi sia quando osserviamo un'azione sia quando la compiamo noi stessi. Giacomo Rizzolati è un neurofisiologo protagonista come ricercatore della scoperta dei neuroni a specchio cha ha permesso di spiegare molti comportamenti individuali e sociali, obbligando a una trasformazione nel modo di intendere percezione, azione e cognizione. Le indagini sui neuroni a specchio volte a esibire la base biologica della capacità umana di comprendere gli altri nei loro gesti e nelle loro attenzioni possono oggi servire anche per nuove teorie dell’immagine legate al rispecchiamento.

 

[2] Un debunker (in italiano: demistificatore o disingannatore) è un individuo che mette in dubbio e smaschera ciarlatanerie, bufale, affermazioni false, esagerate, anti-scientifiche, dubbie o pretenziose. I debunker spesso focalizzano la loro attenzione su disinformazione, fenomeni ufologici, teorie del complotto, affermazioni sul paranormale, religione, medicina alternativa, eventi miracolistici o presunti tali, ricerche compiute al di fuori del metodo scientifico o solamente pseudoscientifiche.  Il termine debunker è attribuito a chi esplica la propria attività di "smascheratore" attraverso ricerche, scritti (articoli o libri), conferenze e seminari, o si cimenta comunque in attività con lo specifico intento di appurare la validità o falsità di affermazioni dubbie, strane o anomale.  Debunking è l'atto del confutare, basandosi generalmente su metodi scientifici o storici, un'affermazione o ipotesi. (Wikipedia)

 

[3] Charlie Hebdo è un periodico settimanale satirico francese dallo spirito caustico e irriverente. Hebdo è l'abbreviazione dell'aggettivo francese hebdomadaire, cioè "ebdomadàrio", "settimanale", dal latino hebdŏmas, -ădis, cioè "settimana" o "il settimo giorno"

 

[4] Nella cerimonia buddhista il Mandala, che in sanscrito significa cerchio,  è un figura sacra formata da sabbia o segatura colorate usate per dare forma a cerchi fra loro intrecciati e simmetrie che prendono corpo come universi distribuiti su strati diversi. La complessità del disegno tende a illustrare il disordine della condizione umana sulla via del raggiungimento del Nirvana, solitamente simboleggiato al centro del Mandala. Ogni sombolo usato ha un suo significato ed è possibile leggere la rete di forme e simboli come una storia che guida il fedele in una lezione di meditazione. Quando è completato il Mandala viene solitamente distrutto.

 

[5] Per provare a osservare meglio la vera natura delle cose bisogna riuscire a scostare il velo di Maya, creato dalla divinità Vedica Maya, che ci impedisce di conoscerlo. Per come lo percepiamo, il mondo è la manifestazione delle nostre percezioni e l’illusione delle apparenze. Il Velo di Maya è l’ombra della realtà scambiata per la realtà stessa. È uno strumento utile per la vita pratica ma sempre un’ombra della verità perché regala l’illusione della dualità, la separazione della realtà in bene e male, spirituale e secolare, sacro e profano. Per scostare il velo e avvicinarsi alla realtà non esiste che la meditazione.

 

[6] Il concetto è stato tratto da un testo di W.J. T Mitchell, professore di letteratura inglese e storia dell’arte presso l’Università di Chicago, pubblicato all’interno del libro Teorie dell’immagine a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini

 

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