L’hikikomori (‘stare in disparte’) rappresenta una sorta di ‘personaggio concettuale’ che, prendendo le mosse da Deleuze e dalle implicazioni politiche dell’atto di creazione, permette di ‘riattivare’ nel contesto attuale la monade di Leibniz: l’unità di coscienza che esprime se stessa e la totalità del mondo, i quali non esistono l’una senza l’altra pur senza confondersi mai tra loro.
Che cos’è hikikomori? O meglio, chi è Hikikomori? È un fenomeno sociale, carico di implicazioni cliniche, che ha preso forma in Giappone sin dalla fine degli anni Ottanta. Vengono infatti chiamati hikikomori quei ragazzi giapponesi che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale e abbandonarsi ad un isolamento sempre più radicale all’interno dei loro piccoli appartamenti o, se vivono in famiglia come il più delle volte accade, all’interno delle loro camerette (hikikomori, significa infatti ‘isolato’, ‘ritirato in disparte’).
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Quella dell’hikikomori è un’esistenza che inverte i ritmi del mondo fuori, quasi ad accentuare la scelta dell’isolamento: s’inverte ad esempio l’alternarsi del sonno e della veglia, così come anche il tempo dei pasti, e si fa addirittura del disordine una regola. Ciò che immediatamente suggestiona e impressiona dell’hikikomori è infatti la sua stanza, trasformata in un mondo di oggetti da cui non si stacca assolutamente: fra questi soprattutto i manga, la televisione, i videogiochi e appunto il pc, a supporto di un ininterrotto collegamento a internet, che sostituisce del tutto i rapporti sociali.
È alla letteratura e al cinema che, d’altra parte, possiamo attingere per avere subito un’istantanea dell’hikikomori, del suo mondo, della sua stanza: da film come Shaking Tokyo di Bong Joon-ho (episodio del film collettivo Tokyo! del 2008), Castaway on the moon di Lee Hae- jun (2009) e Confessions di Tetsuya Nakashima (2010) fino al romanzo Welcome to NHK di Tatsuhiko Takimoto (2002), successivamente trasposto in manga e in film d’animazione a episodi.
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