
IL FUTURO ARRIVA IN CAMICE BIANCO e si fa largo fra nerd in maglietta extra large. Deve chiedere il permesso mentre oltrepassa le fila serrate, pazienti, nate per assistere all'anteprima di qualche gioco. Sotto i riflessi viola e rossi mandati dagli schermi giganti che campeggiano sopra gli stand, si presenta tendendo la mano e ostentando il suo esser fuori posto nel clamore post adolescenziale dell'E3, la grande fiera dei videogame di Los Angeles.
È costretto ad alzare un po' la voce per farsi sentire. Si qualifica come oculista, chiede il permesso di controllare le nostre pupille e con un visore che ha attaccato al collo ne misura la distanza. Annota un numero su un cartellino, saluta, va via. Qualche minuto dopo finiamo in una stanza che sembra esser parte della Nostromo del tenente Ripley, solo in cartongesso dipinto alla bell'e meglio, indossando un paio di occhiali calibrati dal medico. Al centro, un tavolo sul quale danzano degli ologrammi in alta definizione: figure, edifici, velivoli tridimensionali quasi di materia e a portata di mano. Il campo visivo è limitato, basta inclinare un po' la testa perché svaniscano. Eppure, malgrado i limiti, sono i primi esemplari di una nuova specie che potrebbe invadere il nostro mondo.
Permettendo così ai pixel, fino a oggi confinati oltre uno schermo, di mischiarsi alla realtà. Il miracolo si deve agli occhiali, gli HoloLens, nati in seno alla Microsoft a ventidue anni di distanza dall'incubo vissuto da Chevette Washington. Noi però non facciamo i fattorini, come il protagonista di Luce Virtuale di William Gibson, e gli HoloLens non permettono per ora di visualizzare in quali aree ci saranno le speculazioni più redditizie semplicemente dando un'occhiata dall'alto al profilo di una metropoli. Ma la visione è la stessa descritta nel 1993. A Los Angeles la chiamano "mixed reality", sintesi fra i Google Glass e la loro realtà aumentata e i visori per la realtà virtuale alla Oculus di Facebook.