Mario Vargas Llosa, uno dei più grandi e meritatamente celebrati scrittori contemporanei, un paio di secoli fa sarebbe stato considerato uno scribacchino intento ad attentare alla purezza della Grande Cultura. Nel suo ultimo libro La civiltà dello spettacolo (Einaudi) Vargas Llosa tuona contro le nefandezze della cultura di massa, irride quell’insieme di abitudini degradate che connotano apocalitticamente la democrazia culturale fatta «esclusivamente di film, programmi televisivi, videogiochi, concerti rock, pop e rap, video e tablet». Praticamente i suoi colleghi romanzieri nell’Europa all’inizio dell’Ottocento erano considerati allo stesso modo: dei poco di buono, sabotatori della nostra civiltà. Cambiano i bersagli dell’invettiva, ma il lamento sulle brutture della democrazia culturale, quello non cambia mai.
Vargas Llosa sostiene che la cultura contemporanea, a differenza del passato, ha assunto le forme di un gigantesco e abietto videogioco. C’è un bellissimo passaggio de La cultura degli europei di Donald Sassoon che però dovrebbe farlo riflettere. Anche il romanzo «è stato infatti considerato un genere inferiore: la preoccupazione per le conseguenze dell’allargamento del mercato culturale è sempre presente nella storia della cultura. Ogni passo avanti nella divulgazione, ogni rivoluzione tecnologica, ogni innovazione sono accompagnati da crisi di panico per l’imminente crollo della civiltà». E Sassoon continua, con esempi che sono esattamente quelli evocati da Vargas Llosa: «Al giorno d’oggi genitori e insegnanti piangono lacrime di gioia se un bambino preferisce i romanzi alla televisione o ai videogiochi; all’inizio dell’Ottocento invece molti letterati guardavano con preoccupazione alla crescente passione per i romanzi nelle famiglie borghesi, temendone i possibili effetti sui soggetti più impressionabili, cioè donne e bambini». E infatti lo stesso Flaubert, che con Madame Bovary ha descritto le conseguenze rovinose della lettura di storie sentimentali nella mente «impressionabile» dei nuovi lettori, ha voluto scolpire nel Dizionario dei luoghi comuni la massima simbolo di tutti i detrattori della democrazia culturale: «I romanzi corrompono le masse».