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Il ben-essere come motore di una nuova economia

Il ben-essere come motore di una nuova economia

10 Febbraio 2021 Alberto Peretti
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Alberto Peretti
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Parlarne in tempi di precarietà e di managerialità micropsichica può sembrare anacronistico. E invece oggi più che mai urge un pensiero imprenditoriale realmente controcorrente, capace di ridare al lavoro di milioni di donne e di uomini un posto dignitoso all’interno della loro vita. Che permetta al fare di corrispondere con la più ampia esistenza di chi lavora.

L'articolo di Alberto Peretti è stato pubblicato originariamente qui.


La grande separazione

Un problema si agita da secoli nelle viscere dell’occidente: il lavoro separato dalle ragioni del vivere.

In altre parole l’aver dimenticato che quando lavoriamo non produciamo soltanto beni o servizi, ma produciamo noi stessi.

Da tempo sostengo che un certo modo di intendere, progettare e vivere il lavoro ha depauperato la nostra esistenza. L’ha resa, per molta parte, falsa e ridicola. L’ha trasformata in una farsa in cui recitiamo un copione che sovente sappiamo e sentiamo insensato.

Il lavoro non sembra in grado di penetrare nel cuore dell’uomo e di ‘alimentarne’ l’esistenza. Non si preoccupa di significare la vita umana, e da essa ottiene in risposta disagio e apatia. Per molti è una semplice parentesi vuota, che divide dal fine settimana, dalle ferie o dalla pensione. Ricettacolo di nevrosi e frustrazioni, individuali e collettive, fa sovente emergere il peggio dell’essere umano in fatto di pochezza morale, cinismo e povertà interiore.

La grande separazione, quella tra vita e lavoro, è antica quanto la civiltà occidentale.

Inizia con il pensiero greco. Prosegue nel mondo latino, si pensi alla netta distinzione tra l’otium (il tempo dedicato alla pienezza creativa e alla creazione di sé) e il negotium (il tempo del lavoro gravoso e dell’arricchimento monetario). Giunge al suo epilogo nel mondo moderno con l’affermarsi dell’economia di mercato e poi in quello contemporaneo con il lavoro reso semplice mezzo per guadagnarsi da vivere, ridotto a merce e privato di ogni carattere etico e spirituale.
Il principio di ‘performanza’, o se si vuole di ‘prestazione’, ha ridotto il senso del lavoro a due sole accezioni: da una parte azione produttiva finalizzata all’efficace ed efficiente raggiungimento dello scopo sulla base di un progetto produttivo; dall’altra merce retta dal mero calcolo di un tornaconto, assorbita nella contabilità monetaria. Nessuno spazio ulteriore. Preda dei gorghi dell’utile, dell’utilizzabile e del monetizzabile, il lavoro si è ‘de-esistenziato’.

Il principio di prestazione ha oscurato un altro essenziale significato presente nel termine ‘lavoro’. Basti pensare a espressioni come “quando sono al lavoro sto male”, “nel lavoro riesco a realizzarmi”, “sul lavoro c’è un clima pesante”, che non evocano azioni o prodotti; non mettono in gioco le dimensioni proprie della prestazione; ma ricordano che il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, piuttosto una ‘modalità di esistenza’, uno spazio di vita, un luogo dell’esistere. Una dimensione in cui diamo forma a quello che siamo e a chi vogliamo essere. Lavorare significa innanzitutto ‘vivere’. Il problema allora è: quale vita produce il nostro lavoro?

Un senso alla vita e all’impresa

In tempi di crisi mondiale, di pressioni sull’esigenza di far quadrare i conti nel breve termine, parlare di benessere lavorativo, di buona vita sul lavoro, può sembrare velleitario. Penso invece che la crisi debba insegnarci almeno una cosa: che per uscirne, per davvero, non basta l’economia o almeno la vecchia economia nata da un certo modo di intendere l’essere umano e il suo lavoro. Che per superarla occorrono soluzioni non di facciata. Che dobbiamo rivedere, e se occorre riformulare, le coordinate che reggono il nostro vivere.

Penso ad esempio alla nostra Costituzione. Come molti, ritengo che andrebbe emendata e aggiornata, ma in senso contrario a quanto vorrebbe propinarci il liberismo più bieco e triviale. Ad esempio, nell’Articolo 4 sostituendo a una ‘o’ una ‘e’: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale spirituale”. Già, perché l’unica economia degna di questo nome, l’unica economia ancora possibile e sostenibile, è quella consapevole di un fatto capitale: separare la produttività materiale e il profitto monetario da un parallelo arricchimento dello spirito non solo è economicamente sterile, ma è esistenzialmente omicida. Sterile per i sistemi produttivi che continuano a insistere nell’errore di pensare di poter raggiungere traguardi di eccellenza qualitativa e quantitativa senza minimamente preoccuparsi di rendere eccellente l’interezza dell’esistenza dell’uomo che lavora. Non accorgendosi che un’economia de-moralizzata e priva di carica etica rappresenta una strada senza sbocco. Omicida perché depaupera l’esistenza di milioni di esseri umani che trascorrono una vita lavorativa misera e immiserente.

Condivido peraltro il parere di chi ritiene l’Articolo 41 un freno per l’iniziativa economica, non perché troppo invadente, piuttosto perché contiene parole troppo timide. Andrebbe così riformulato: “L’iniziativa economica non può svolgersi se priva di utilità sociale o qualora non porti un contributo alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. Basta guardarsi attorno, è sotto gli occhi di tutti: concepire l’agire economico come dimensione indifferente alle ricadute sociali e all’elevazione dell’essere umano –in altre parole disancorata da un progetto di autentico ben-essere individuale e collettivo– destina l’occidente al suo ineluttabile tramonto. Alla base del paradigma del ben-essere lavorativo c’è un’idea semplice, ma ambiziosa: rendere il lavoro un rinnovato motore di civiltà. Perché tale idea possa mettere radici occorre che vi sia chi dissodi il terreno e lo fertilizzi. In altre parole occorrono uomini coraggiosi e lungimiranti che sappiano vedere il mondo non soltanto per come attualmente è, ma anche per come potrebbe e dovrebbe essere.

Parlare di ben-essere lavorativo significa ribadire che il profitto non ha senso, per un autentico imprenditore, se scisso dal bene comune. Il vero imprenditore è un ‘avvaloratore’ del mondo, vive e opera per portare, anche attraverso gli utili della sua impresa, un contributo al compimento e al miglioramento del mondo. Se all’agire economico mancano gli aspetti di utilità sociale e di contributo alla dignità umana, non di impresa si tratta, tutt’al più di esercizio commerciale.

Una nuova politica del lavoro

Mai come oggi occorre essere consapevoli del fatto che il vero fattore competitivo per l’economia occidentale è –e sempre più sarà– la qualità esistenziale del processo produttivo.

Si deve fare intendere anche ai più sordi che per non essere trangugiata da altre potenze emergenti, l’economia occidentale deve puntare su un’idea di vita, filosoficamente e antropologicamente fondata, sottostante l’agire economico.

Insisto: parlare di ben-essere implica un’interpretazione schiettamente politica del lavoro, un particolare modo di interpretare le imprese e il sistema produttivo, all’interno di un mutato scenario di impegni etici e di responsabilità imprenditoriali da cui emerge il ruolo e la funzione dell’impresa civile. Con ciò intendo che l’agire economico d’impresa deve sempre essere finalizzato a tradurre in progresso sociale e in crescita civile i risultati del processo produttivo.

L’impresa deve cessare di essere autoreferenziale: deve contribuire, insieme agli altri attori sociali, alla generazione del bene comune. La misurazione dell’agire in termini di ‘quanto vale’ va costantemente affiancata da considerazioni circa il ‘che cosa esso vale’ alla luce di un progetto partecipato di ben-essere individuale e collettivo. Va quindi sostenuta con forza l’equivalenza dei mezzi e dei fini: nessun fine può essere per davvero buono se raggiunto attraverso mezzi eticamente scorretti ed esistenzialmente immiserenti.

Un patto di civiltà a partire dal lavoro

È indubitabile che il nostro Paese debba ripartire, tornare a ‘fiorire’. Serve a tal fine che le varie parti sociali stendano un rinnovato patto di civiltà, in grado di ricompattare le forze del Paese attorno a un traguardo comune. Intercettare e orientare la crescente, anche se sovente sotterranea, domanda esistenziale è strategico per la nostra crescita economica e sociale. È quindi necessario riunire il Paese attorno a un’idea forte di civile convivenza, a partire da cui avviare un serio processo collettivo di riprogettazione esistenziale.

Attorno a che cosa tentare una convergenza di interessi e di impegni?

Perché un patto di civiltà sia credibile occorre riunire forze e attori sociali attorno al progetto di una concreta e praticabile civile felicità, attorno a un’idea di vita –individuale e collettiva– piena e appagante.

Da dove partire per realizzare il ben-essere individuale e collettivo?

La mia proposta è: dalla sfera economico produttiva, in particolare dal lavoro! Il valore di una qualsiasi proposta di civiltà si misurerà non da quanto marginalizzerà il lavoro, ma da quanto saprà e riuscirà a metterlo al proprio centro; non cercando il ben-essere attraverso il lavoro, considerato come semplice momento e strumento produttivo e di arricchimento materiale, ma ‘nel’ lavoro, inteso e valorizzato in quanto luogo di ‘buona esistenza’.

Lavoro capace di essere occasione di crescita materiale e, contemporaneamente, spirituale, etica, estetica, relazionale. Occorre avere il coraggio di compiere il ribaltamento prospettico considerato eretico da tanta parte del pensiero occidentale: lo sviluppo integrale delle capacità dell’uomo non va cercato dopo o senza il lavoro, una volta assolte e risolte le sue necessità. L’essere umano è chiamato a incontrare la sua umanità mentre rende davvero umane le sue necessità materiali. Diventa tanto più uomo quanto più aspira a ‘esistenziare’ tutte le sue espressioni, a cominciare dal lavoro produttivo, al fine di farne occasione di buon esistere.

In questo inizio di millennio il lavoro soffre della stessa ‘precarietà’ che colpisce l’esistenza di milioni di persone. La loro precarietà lavorativa non è che l’altra faccia della loro precarietà esistenziale. È una condizione che non deriva soltanto dalle clausole del contratto di lavoro: precario è colui che non riesce a dare spessore esistenziale al vivere e continuità di significato alle attività. È chi non è in grado di riunificare il fare all’interno di un disegno unitario, chi non sa o non può raccordarlo a una compiuta idea di sé, degli altri, del mondo. Precario è colui che non vive il lavoro, ma si limita a ‘consumarlo’senza uno scopo, una meta, un senso. Ciò che vale per le persone, vale a maggior ragione per le imprese e per tutti i sistemi organizzativi.

Come si conciliano salute dell’impresa e benessere eudaimonico? L’eudaimonia nel lavoro

 

Parlare di felicità e di ben-essere nel lavoro può essere fonte di fraintendimenti. Meglio forse ricorrere a un termine meno usurato, che, seppur risalente alla tradizione classica greca, è più fresco e maneggevole: eudaimonia (ευδαιμονία [-ας, ἡ] felicità, benessere. Eu-daimon: "essere in compagnia di un buon demone" : https://lnkd.in/eyj-mzP

Con il termine eudaimonia i Greci antichi intendevano una vita realizzata, compiuta, completa. Eudaimonica è una vita degna di essere vissuta in quanto capace di essere in sintonia con le più profonde caratteristiche dell’essere umano.

L’eudaimonia lavorativa consiste nel riconoscimento e nella valorizzazione di una serie di specifiche capacità/funzioni caratterizzanti una vita lavorativa degna di essere vissuta. Basandomi su quanto elaborato a più riprese da Martha Nussbaum e da Amartya Sen, ho identificato alcuni elementi tipici e caratteristici del vivere lavorativo. A essi ho abbinato una serie di capacità fondamentali per condurre una vita lavorativa appagante ed esistenzialmente arricchente. Il modello è già stato applicato con successo in diverse realtà organizzative. Il lavoro reso eudaimonico (riprogettato cioè nelle sue dinamiche, nei suoi tempi, nelle sue logiche in vista di traguardi di pienezza e di fioritura esistenziale) può senza dubbio essere la dimensione ‘in cui’ e ‘da cui’ riformulare nei diversi ambiti sociali le regole del nostro vivere civile. La prospettiva eudaimonica rifugge da un certo strisciante buonismo. Non ha niente a che fare con un generico appello ai buoni sentimenti. Neppure cade nell’equivoco di interpretare il benessere come dimensione manipolatoria, strumentalmente utilizzabile per ‘possedere’ mente e cuore di chi lavora per poi migliorare produttività e competitività. Il ben-essere eudaimonico, è bene sottolinearlo, trova il suo fine in se stesso: è una scelta etica. Un modo per onorare e rispettare l’essere umano.
Non è quindi lecito attendersi un miglioramento delle performance aziendali a seguito di progetti di ben-essere lavorativo?

Tutto il contrario. Ma tali conseguenze vanno intese come ‘emergenze’, come qualità che scaturiscono da progetti di eudaimonia lavorativa che trovano la loro ragione in se stessi e che sono intrinsecamente non strumentali.

L’eudaimonia lavorativa si sviluppa a partire dalle seguenti, concretissime domande: la persona è lavorativamente nelle condizioni di agire e di vivere in modo pienamente umano? Può cioè godere delle opportunità per disporre sul lavoro delle sue capacità fondamentali? Riesce quindi, attraverso il suo lavoro, a essere una ‘persona migliore’, per sé e per gli altri? Sembrano domande che poco hanno a che fare con la dimensione lavorativa, ma è proprio da questo pregiudizio che dobbiamo il prima possibile liberarci!

Vecchi criteri di valore non funzionano più. Il valore autentico di un’organizzazione risiede nel suo capitale eudaimonico, cioè nell’insieme delle procedure e dei processi di qualità del vivere da essa attivati.

Il capitale eudaimonico costituisce il vero e profondo ‘patrimonio intangibile’ di un’organizzazione. Un buon tasso di eudaimonia lavorativa rappresenta il fattore in grado di rendere non effimere, non volatili e non superficiali le sue risorse intellettuali, procedurali e relazionali. L’autentico ben-essere lavorativo costituisce un bene intangibile in grado di dotare di valore e di qualità profonda qualsiasi sistema produttivo, pubblico o privato, e da cui non si può più prescindere per rendere le imprese italiane davvero innovative e ‘civilmente’ competitive. Il capitale eudaimonico costituisce l’elemento strategico per rendere durevole, stabile e radicato il processo organizzativo di ricerca dell’autentica qualità. Esistono ormai una messe di dati da cui emerge chiaramente quanto investire in autentico ben essere convenga, anche in termini di produttività e profitto. Basti pensare a quanto l’eudaimonia lavorativa è decisiva per la riduzione dell’assenteismo, la riduzione del numero di errori, l’aumento della produttività, l’innalzamento della percezione del valore del prodotto presso la clientela, il contenimento della conflittualità sindacale, tanto per citare alcuni indicatori traducibili in valore monetario.

Il nostro è da troppo tempo un Paese fondato sullo spreco. Occorre un chiaro segnale di inversione di marcia: ‘non distruggere, non offendere, non sprecare risorse’In primo luogo risorse umane! Enormi giacimenti intellettuali, morali e sociali giacciono inutilizzati, spesso in paurose condizioni di abbandono, in ogni settore e ambito, generando un clima di apatia che talvolta sfocia nell’indifferenza, nel cinismo, e quindi nell’inefficienza e nell’improduttività. Dall’idea di eudaimonia nel lavoro il sistema produttivo italiano può ricavare nuovo impulso, dando speranza e vigore all’intero Paese.

Il ben-essere lavorativo eudaimonico costituisce un fertile terreno di dialogo in cui far incontrare mondo imprenditoriale e forze sindacali, in cui far germogliare virtuosamente, e contemporaneamente, logiche di efficaciaefficienza e di valorizzazione-tutela delle persone. Credo inoltre che in un periodo di forte competizione internazionale, in contesti dove il prodotto italiano deve fronteggiare una massiccia concorrenza, le aziende debbano rispondere rivedendo il prima possibile il loro concetto di ‘qualità’. L’eudaimonia lavorativa, considerata come strategico bene intangibile, rappresenta il punto di svolta.

Il ben vivere per cui l’Italia va ancora famosa nel mondo, può diventare l’elemento caratterizzante i prodotti realizzati nel nostro Paese, capace di dar loro un particolare valore aggiunto e una nuova e diversa competitività. Un oggetto o un servizio non sono solo delle merci: chi acquista un prodotto italiano deve percepire l’eco di un modo di lavorare che costituisce anche uno stile di vita. I consumatori di beni e di servizi prodotti in maniera eudaimonica godono di un’autentica proposta di esistenza, di un invito a partecipare a un’esperienza fondata sul benessere e sulla qualità del vivere. È su questo terreno, quello della finalità e del valore eudaimonico non solo del prodotto, ma dell’intero processo produttivo, che l’Italia e l’Europa potranno ritrovare lo slancio per riposizionarsi sul mercato mondiale in una posizione culturale non di retroguardia.

Fuori dalla secca

La riflessione filosofica sul ben-essere eudaimonico è oggi indispensabile al pensiero economico manageriale per tentare un’opera collettiva di rivitalizzazione e rigenerazione esistenziale.

Con ciò intendo il tentativo di recuperare l’impresa a un’idea di impegno civile, di responsabilità esistenziale e sociale.

Intendo il tentativo di portare ciascun lavoratore a cercare durante il lavoro, nel corso dell’attività lavorativa, la pienezza della sua esistenza.

Intendo lo sforzo di mettere le forze materiali al servizio di forze spirituali (l’asservimento alla tecnica e al profitto è un paradigma concettuale che da decenni ha pericolosamente immobilizzato le energie etiche dell’Occidente!)

Penso che oggi ci sia tremendamente bisogno di aiutare le persone a pensare a ciò che fanno e a che cosa fanno di loro stesse nel corso della loro attività lavorativa.

Quali ‘se stesse’ producono? Quale umanità generano? Quale mondo determinano? Sono domande schiettamente filosofiche. Riuscire ad articolarle è la via per condurre l’economia e il lavoro fuori da una secca che rischia di condannare le nostre esistenze a una vita mal vissuta e i sistemi produttivi a uno stallo mortale.

 

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