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Gentilezza nella rivoluzione digitale

Gentilezza nella rivoluzione digitale

26 Agosto 2015 Redazione SoloTablet
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Da pochi giorni è in distribuzione il libro di Sara Malaguti, IL DIGITALE GENTILE, Un lavoro contestualizzato nell'era della pandemia ma focalizzato su quella digitale. Il coronavirus ha obbligato molti a rivoluzionare in poco tempo il proprio modo di lavorare, di comunicare, di consumare e di relazionarsi socialmente. Il percorso sul quale molti si sono trovati costretti non era però nuovo, neppure a loro. Viviamo da anni dentro la rivoluzione digitale e le sue trasformazioni. Forse lo facciamo anche senza riflettere su quanto sia cambiata la nostra vita a causa delle nuove tecnologie e sui loro effetti. Nel suo libro Sara Malaguti, esperta di marketing e comunicazione digitale, fornisce ai lettori alcuni concetti chiave del mondo digitale con un'attenzione particolare agli aspetti fondamentali, nella comunicazione e nella relazione, della gentilezza e dell'empatia. SoloTablet ha intervistato Sara Malaguti.

 Proponiamo un'intervista che Carlo Mazzucchelli, fondatore di SOLOTABLET, h fatto a Sara Malaguti, autrice del libro IL DIGITALE GENTILE.


 

Buongiorno Sara inizierei con il chiederle quali siano state le motivazioni o gli obiettivi per la scrittura del suo libro. Non bastava avere un blog e frequentare le piattaforme social?

Buongiorno a lei.

Ammetto che fino a marzo 2020 l’idea di scrivere un libro non mi aveva mai sfiorato; come lei stesso ha notato, i miei contenuti, anche quelli più riflessivi, trovavano ampio sfogo tra blog e social. È stato il fortunato incontro con la casa editrice L’Età dell’Acquario a creare i presupposti per la nascita del Digitale Gentile, un libro che mi ha permesso di mettere ordine ai tanti pensieri “sparsi nel web” e a riflettere su un metodo di lavoro che avevo sviluppato nel tempo, ma mai codificato. Ho voluto dare più profondità alle risposte che solitamente fornisco a corsisti e clienti, tutti più o meno assillati – giustamente - dalle stesse domande: come posso adattare la mia attività al digitale, come posso trovare gli esperti più adatti se non conosco nemmeno le professioni del digitale, come faccio a riconoscere ciò che è attendibile e ciò che non lo è, solo per fare qualche esempio.    

Ho pensato che valesse la pena creare uno strumento di divulgazione del digitale che fornisse anche ai neofiti una formazione base da cui partire, per poi eventualmente approfondire in maniera verticale i singoli temi. Perché, di fatto, siamo tutti coinvolti dalla rivoluzione digitale, anche come semplici navigatori del web. 

Se ho capito bene per lei la gentilezza è una chiave polisemica di lettura delle tante vite parallele che viviamo e in particolare di quella digitale. Io anche ho scritto un libro sulla gentilezza insieme a Anna Maria Palma. Per noi la gentilezza è legata alla comunicazione, è linfa vitale che arriva al cuore e ha il potere di cambiare le relazioni. Come si declina tutto ciò in ambito tecnologico e digitale?

La gentilezza, per come la intendo io, non è solo nei modi di fare, non può essere solo buone maniere, magari anche un po’ affettate. Essere gentili deve significare qualcosa in più: è essere aperti al dialogo, al dibattito costruttivo, a fare qualcosa per gli altri senza aspettarsi nulla in cambio, ma consapevoli che esiste un meccanismo che si chiama reciprocità. Accettare il confronto, con il presupposto imprescindibile dei toni pacati, ovviamente. 
Purtroppo, noto sempre più spesso che sui Social o ci si dà sempre ragione, all’interno della propria bolla digitale, o ci si attacca in una maniera che ha dell’incivile. Credo che in tutta la mia esperienza mi sia capitato 2-3 volte di ricevere messaggi di persone che dissentivano da quello che avevo detto. Eppure non è possibile! Non credo sia veritiero. 
Il fatto è che non ci hanno mai abituati, sin dalla scuola, al pensiero critico costruttivo, per cui facciamo una grandissima fatica a svilupparlo da adulti. Ammiro molto alcuni esperimenti di didattica che usano ad esempio la tecnica dei Six Thinking Hats per far emergere all’interno di un gruppo diverse opinioni e spronare i membri a portarle avanti, anche se queste non li rappresentano al 100%. Gli antichi la chiamavano l’arte della Retorica, ma col tempo ha acquisito un connotato non del tutto positivo. Meglio chiamarla gentilezza allora. 

Come declinare tutto questo in chiave digitale? Non accontentandosi del primo risultato di ricerca. Mi spiego meglio: è solo usando l’arma della curiosità che si può venire a contatto con qualcuno o qualcosa ancora capace di sorprenderci, che poi sarebbe il vero potenziale della connessione digitale. A quel punto, grazie all’empatia e alla gentilezza, possiamo metterci nelle condizioni di creare una relazione costruttiva per entrambi.

Il tempo passato dentro le piattaforme digitali è in costante aumento e interessa generazioni le più diverse tra loro. I social sono piazze virtuali ma anche mondi chiusi, acquari e voliere nelle quali le persone sono spesso ingabbiate, in modo volontario e complice. In uno dei capitoli del suo libro lei parla di ecosistemi social come luoghi pericolosi e al tempo stesso ricchi di possibilità e opportunità. Tra le opportunità metterei la possibilità di raccontare(si) esperienze e dialogare. Tra i rischi la perdita di contatto con la realtà fattuale, il conformismo adattativo ai trend e agli algoritmi del momento, la brutalità del linguaggio e la scomparsa dell’empatia. Lei cosa ne pensa?

Sono totalmente d’accordo.

Ritorno al discorso di prima, la curiosità e la contaminazione sono le nostre uniche ancore di salvezza. Certo, è molto più facile lasciare che siano gli algoritmi ad operare la selezione dei contenuti, ci sentiremmo così meno sopraffatti dalla mole di informazioni presenti nel web e più rassicurati da ciò che già conosciamo. Ma potremmo rischiare di prendere “schiaffi” in faccia dalla realtà qualora questa dovesse brutalmente emergere dagli angoli in cui l’avevamo riposta. O ancora, potremmo correre il rischio di pensare che la nostra opinione, la nostra attività, il nostro contributo alla società sia del tutto irrilevante, dal momento che intorno a noi tutti dicono la stessa cosa, fanno le stesse cose, magari pure meglio ai nostri occhi. Questo è uno dei motivi di autosabotaggio che sento più spesso tra le persone che hanno o che vorrebbero aprire un’attività in proprio, ad esempio: sono talmente preoccupati di quello che fanno gli altri, ovviamente molto più visibile di un tempo, da non chiedersi minimamente chi sono loro o cosa vorrebbero fare di unico. Con modalità ed esiti diversi, la stessa dinamica di fondo può essere ravvisata tra gli adolescenti che si chiudono in casa bloccati dal confronto con coetanei o addirittura con influencer.

Rendersi conto di questi meccanismi è già un primo passo verso l’affrancamento.

 

Ho trovato molto interessante il capitolo dedicato alle community online. Per età ho frequentato le prime comunità online alla fine degli anni 80, negli anni 90 ne ho costruita una con tecnologie al tempo all’avanguardia (Broadvision) che raccolse 10000 manager d’azienda e serviva per fare eventi online, marketing one-to-one e molto altro. Quando oggi sento parlare di comunità sulle piattaforme digitali mi rendo conto quanto il significato delle parole sia più importante dei loro significanti. Non è un caso che oggi si faccia fatica a comprendere le differenze tra concetti come gruppo, rete sociale, comunità, pagina, tribù, ecc. ecc. Credo di avere capito cosa significhi per lei fare comunità online. Potrebbe spiegare il senso che lei da alla parola comunità e come vede le pratiche comunitarie online attuali? Sia riferite a scopi individuali sia a quelli aziendali (la mia comunità ad esempio era mondiale e aziendale, nata per fare, ‘generate’, business).

Nel libro parto dal presupposto che il desiderio di avere relazioni interpersonali è insito nel nostro DNA dalla notte dei tempi e per soddisfarlo cerchiamo in tutti i modi di appartenere a gruppi sociali. Personalmente credo che oggi la parola Comunità si possa applicare ad un gruppo di persone che condivide almeno un interesse/una passione/una causa. Sottolineo “almeno uno” perché ritengo che, rispetto al passato, oggi siamo molto più propensi a vivere ed abitare più Comunità contemporaneamente, talvolta anche in leggero conflitto tra loro o che si sovrappongono. Mi spiego meglio: faccio parte degli Alumni dell’azienda per cui ho lavorato 10 anni, azienda attiva nella finanza; frequento assiduamente la comunità delle artigiane che usano i social per vendere i loro manufatti, trovo che sia incredibilmente arricchente e rilassante vedere così tanta bellezza; per lavoro condivido riflessioni su gruppi Facebook che trattano case history di Digital Marketing. Apparentemente possono sembrare attività in conflitto tra loro, ma ciascuna di queste mi arricchisce sotto punti di vista diversi.

Poi da lì – cioè dalla condivisione di un interesse/una passione/una causa - possono nascere anche opportunità di business.

Questo è un ragionamento che, con le dovute variazioni, si estende anche all’ambito Corporate, dove oggi va di moda dire “Purpose driven”. Il fatto è che in mancanza di un collante vero, che non può essere solo lo stipendio, anche la comunità per antonomasia, che è l’azienda, non ha vita lunga.

 

Cresciuto alla scuola anglosassone (Life Time Value di Arthur Hughes con cui ho lavorato), sui libri di Butera, Morace e Fabris, oggi trovo fastidiosa la retorica online legata alla focalizzazione al cliente e alla personalizzazione. Lei al tema ha dedicato un intero capitolo. Potrebbe riassumerci quali sono secondo lei le ragioni concrete per cui vale la pena investire sul cliente (client, customer), sulla sua esperienze da consumatore, sulla sua emotional journey ecc.? Da sempre credo che nel business ci si debba porre due domande: quali sono le “compelling reasons to buy” del potenziale cliente e “what is in it for me”. Cosa ne pensa?

Penso che possa anche essere fastidiosa come retorica, tuttavia come metodo è ben lontano dall’essere impiegato in maniera efficace.

Avendo molto a che fare con gli imprenditori del settore manifatturiero, posso assicurarle che tutta la loro preoccupazione sta nel prodotto e, al massimo, nel capire cosa fanno i competitor, non su quello che pensa il cliente o su ciò di cui avrebbe bisogno. Quindi ecco, c’è ancora un bel divario tra la teoria dei grandi pensatori e la messa in pratica anche nella più remota delle PMI italiane, purtroppo. Il mio sforzo, quello di questo libro, è proprio cercare di portare in azienda dei framework basati sull’empatia per spostare l’attenzione da se stessi verso l’esterno. E in questo esterno metto anche i dipendenti, non solo i clienti.

Ai contenuti ha dedicato un capitolo intero. Chi frequenta le piattaforme digitali è impegnato costantemente nella produzione di narrazioni, attraverso l’uso di parole, video, immagini, ecc. Ognuno di questi strumenti ha un suo potere intrinseco. Il più forte sembra oggi essere quello dell’immagine, non a caso molti preferiscono Instagram, Tik Tok, Pinterest. Eppure per un digitale gentile oggi bisognerebbe recuperare l’uso della parola, riconsegnare a esse il potere generativo che hanno. Il ritorno alla parola segnerebbe il ritorno a pratiche gentili, dialogiche, a riscoprirne i veri significati, a cambiare le forme della comunicazione e a rendere migliori i mondi digitali abitati. Cosa ne pensa?

Credo che qualunque tipo di contenuto che produciamo, che sia immagine, video o testo, porti con sé una minaccia e un’opportunità, al di là del medium in sé.

Non penso che la parola abbia più o meno valore di un video, possa ferire più o meno di un’immagine, o al contrario possa incentivare il dialogo. Troppo spesso leggo parole vuote o messe lì solo per riempire gli spazi e rispettare la legge della frequenza, piuttosto che quella della qualità. Mi rendo conto di essere un po' pessimista in questo, ma credo che le nuove generazioni daranno sempre meno peso alla parola e molto di più ad altre forme di espressione; tanto vale allora fare un discorso più profondo sul senso di relazione con l’altro. E torniamo ancora una volta al concetto di empatia.

 

Il suo libro è ricco di spunti, non tutti possono essere trattati in una semplice intervista. Ci potrebbe però riassumere i messaggi contenuti nei capitoli nei quali parla di Big Data e commercio elettronico, di smartworking e pubblicità. Pochi cenni per incuriosire i potenziali lettori del suo libro.

In ognuno di questi capitoli ho cercato di portare alla luce alcuni aspetti positivi, senza però dimenticare le relative minacce: la medicina, ad esempio, potrebbe beneficiare non poco dall’impiego dei Big Data. Da tutta la mole di dati provenienti dalle cartelle cliniche dei singoli pazienti, si potrebbero estrapolare indicazioni utili per passare finalmente alla tanto attesa sanità pro-attiva, preventiva e predittiva. Ma d’altro canto dobbiamo considerare il rischio che questi dati vengano usati per sollecitare e rendere sempre più diffuso l’impiego di farmaci, anche quando non sono effettivamente necessari.

Il fatto che la pubblicità stia annullando i propri confini e si mascheri sempre più da “contenuto organico ed editoriale” fa sì che l’esperienza dell’utente sia da un lato più piacevole, ma dall’altro anche più esposta a rischi, perché induce all’acquisto in maniera ancora più subliminale.

Lo smartworking, che ha rivoluzionato le nostre vite nel 2020, ha avuto la grande capacità di limitare inquinamento, traffico e stress da pendolarismo, ma allo stesso tempo ha creato il cosiddetto “tecnostress” ovvero isolamento e sovraccarico lavorativo. Anche in questo caso, è la perdita di confini netti - tra vita privata e vita lavorativa - a generare rischi e smarrimenti. 

Per concludere, ho voluto chiarire l’effettivo potenziale dell’e-commerce, visto talvolta come formula magica per risolvere crisi che in certi settori sono ben più radicate e profonde, talvolta come arma di distruzione del commercio tradizionale, talvolta come gallina dalle uova d’oro.  

Lei conclude il libro con un manifesto, ottimista e fondato sulla gentilezza. Vorrebbe riassumerlo per punti?

  1. Il digitale ci ha dimostrato che la distanza non è più un ostacolo, ma anzi, un valore aggiunto. Quando collaboriamo in team, con qualcuno dall’altra parte del mondo o semplicemente dietro casa, non cerchiamo a tutti i costi il controllo visivo, impariamo a lavorare per obiettivi e per micro-compiti misurabili, valorizzando ogni singolo successo ottenuto.
  2. Il digitale ha messo in luce quanto la nostra esperienza sia in realtà limitata e parziale. Cerchiamo di essere flessibili e aperti mentalmente, facciamo tesoro delle esperienze altrui e apprezziamone le sfumature.  Ascoltiamo gli altri e mettiamoci nei loro panni, sono potenzialmente infinite le cose che potremmo scoprire
  3. Il digitale può spaventare, perché implica dover imparare a usare strumenti nuovi spesso complessi. Accettiamo di non saper fare tutto subito, la formula del Learning by doing è quella che ci permetterà di restare sempre al passo o anche andare più veloci. E non dobbiamo aver paura di chiedere.
  4. Il digitale ha reso liquidi i confini, anche quelli del tempo. Non c’è notte o giorno per un algoritmo, non c’è stanchezza, non ci sono impegni personali. Impariamo a dire basta a un certo punto, perché non siamo macchine ed è questo il bello. Smettiamo di sentirci in colpa se non siamo sempre presenti online, se ci prendiamo una pausa dai social, se non rispondiamo tempestivamente.
  5. Il digitale ha reso tutto facilmente replicabile, ma non ha saturato la nostra sete di conoscenza.  Condividiamo ciò che è stato prodotto da altri attribuendo loro il merito, concentriamoci invece su quanto possiamo fare noi di unico e di inedito.
  6. Il digitale ha ampliato esponenzialmente l’accesso ai contenuti, ha disintermediato l’informazione e reso tutto accessibile, ma allo stesso tempo inutilizzabile. Impariamo a capire cosa è rilevante e cosa no, quali fonti sono autorevoli e quali no, in quale bolla digitale viviamo.
  7. Il digitale ha creato l’apparenza della gratuità. Chiediamoci sempre perché quel prodotto/servizio/contenuto è gratis, dopodiché possiamo anche accettarlo e ringraziare. 
  8. Il digitale ci ha mostrato il dietro le quinte delle vite degli altri, spacciandole per reali. Prima di deprimerci per la nostra che non è altrettanto degna di essere mostrata, chiediamoci quale attenta selezione è stata fatta per impostare la narrazione.
  9. Il digitale ha reso più facile il dialogo, ma non lo ha incentivato. Facciamo noi il primo passo verso una conversazione, non aspettiamo che siano gli altri a farlo.
  10. Il digitale sembra che ci rubi il lavoro. Lasciamo agli strumenti digitali i compiti più noiosi, teniamoci quelli che ci piacciono. I contenuti saranno sempre prodotti dagli umani. 

Infine ringraziandola un’ultima domanda. Quali dovrebbero essere secondo lei le motivazioni che potrebbero spingere un abitante dei mondi digitali online ad acquistare il suo libro?

La consapevolezza che siamo tutti coinvolti da questo cambiamento epocale e che è inutile opporvisi.

So che il timore di non essere all’altezza o di essere tagliati fuori è comune a tanti, ma spero anche che il desiderio di comprendere, la curiosità di cui parlavamo prima, sia più forte e che spinga le persone ad affrontare questa o altre letture per informarsi ed essere più consapevoli di quello che accade intorno a loro, nella quotidianità.

 

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