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Incontrarsi attraverso la tecnologia

Incontrarsi attraverso la tecnologia

26 Agosto 2015 Biancamaria Cavallini
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Biancamaria Cavallini
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“Lo smartphone è un oggetto di apprendimento, un abilitatore di esperienze e uno strumento di lavoro e studio. Non è il male, non distrugge le giovani generazioni e non manda il cervello in pappa. Chi lo pensa davvero probabilmente vive con gli zoccoli, professa l’apocalisse e maledice le macchine. E’ un oggetto molto personale, privato, dove volenti o nolendi ci comprimiamo dentro le nostre vite.”

La mia sorpresa nel leggere un articolo che si conclude con queste parole mi ha fatto nuovamente riflettere su quanto sia permeante un atteggiamento fobico nei confronti delle nuove tecnologie da parte di chi, di queste tecnologie, ben poco ne capisce. “Lo smartphone è un abilitatore di esperienze”. Vero. Anzi, verissimo. Iniziamo a crescere le prime generazioni senza la ginocchia sbucciate, certo, ma se lo smartphone ha sostituito i giardinetti sotto casa, forse più che inveire contro i suoi aspetti negativi, sarebbe necessario comprendere le dinamiche legate al suo uso. Nonché la sua portata. Non tanto perché “ci comprimiamo dentro le nostre vite”, quanto perché, per i post-millennials, gli smartphone sono la vita.

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“Ci nasciamo dentro” mi ha detto un quattordicenne qualche mese fa. Ci nascono dentro e finiscono per avere due vite: quella fisica e quella digitale. E la definisco “fisica” e non “reale” perché anche la vita digitale è reale. Eccome se è reale. Ormai si esiste solo se si è sui social media. Ma non è sorprendente? È come se si nascesse con due vite a disposizione. Siamo già nella realtà virtuale. E questo spaventa se si è vissuti tra i telefoni a gettoni e i pomeriggi trascorsi a giocare a biglie. Non si sa bene come interpretare le novità, come rapportarsi con tutta questa complessità tecnologica che sembra annientare le relazioni e rendere i giovani dipendenti da uno schermo. Ma se il problema non fossero queste differenze? Se il problema fosse ciò a cui queste differenze sono dovute? Qualcuno risponderebbe: appunto, queste differenze sono dovute alla tecnologia quindi il problema è la tecnologia. Logico. Coerente. Tuttavia la tecnologia (inteso come tecnologia digitale e informatica) ieri non c’era e oggi c’è. Per cui non si potrebbe parlare più semplicemente di cambiamento? Se la questione si riducesse proprio a questo?

Per definizione, il cambiamento è un passaggio di stato da una posizione data (A) a una diversa posizione (B), ma se questo cambiamento lo si subisce e non lo si comprende, se si vede la posizione B ma si resta in A, se in B ci sono i propri figli o i propri nipoti ma da A proprio non ci si riesce a schiodare, cosa succede? Si creano le distanze. Perchè ciò che esiste tra A e B è uno spazio, una distanza. E allora perché non riempire quello spazio e percorrere quella distanza? Perché spesso mancano i mezzi, manca la comprensione, manca la possibilità di fare esperienza. “Vorrei comprendere meglio mio figlio, ma proprio non ci riesco. Non so nemmeno cosa fa tutto il giorno con quel telefono. Come faccio?” Attraverso la relazione. Creando relazione a partire da una mancanza, dalla distanza. E come si crea una relazione? Con lo scambio. E lo scambio come si ottiene? Con la comunicazione e il dialogo. Parlare, dunque. Confrontarsi, domandare. Entrare con i propri figli in quello spazio tra A e B, incontrarsi a metà strada e percorrere il resto insieme. Dare ai figli quella dimensione relazionale che troppo spesso ci si lamenta che non abbiano proprio per colpa di quella tecnologia che non si comprende. 

 

 

 

 

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