L’era digitale ha cambiato il mondo, non poteva non cambiare l’antropologia. Interrogarsi antropologicamente significa oggi interrogarsi sulle relazioni tra esseri umani e macchine, sulle realtà online di Internet, delle sue piattaforme, sul ruolo crescente delle intelligenze artificiali e dei Big Data nella vita di ogni individuo e in ogni ambito esperienziale. Lo stanno facendo filosofi, sociologi ed etnologhi. Lo fanno anche antropologi, con varie metodologie e approcci di tecno-antropologia, etnografia digitale, cyber-antropologia e antropologia virtuale. Lo stanno facendo adottando strumenti digitali per condurre le loro ricerche, focalizzandosi sulla cybercultura dominante, sui memi, sulle pratiche, sugli stili di vita e sui comportamenti che sembrano determinare l’insorgere di una nuova tipologia di umano, cosmopolita, ibridato tecnologicamente e un po’ cyborg, un simbionte che richiede di essere descritto e le cui esperienze suggeriscono nuove tipologie di analisi etnografiche.
Viviamo tempi interessanti, molto tecnologici e per qualcuno alla fine dei tempi, ma pur sempre stimolanti e avvincenti. Le esperienze multiple che la tecnologia ci regala ci impedisce di riflettere in profondità su quanto essa stia trasformando la realtà, le persone che la abitano, i loro linguaggi, i contesti, i costumi e i loro aspetti simbolici, le storie, le tradizioni e i mutamenti bio-tecnologici. Tanti ambiti di riflessione che la pratica antropologica corrente ha fatto propri, proponendo interessanti punti di osservazione, analisi e interpretazioni. Di tutto questo abbiamo deciso di parlarne con alcuni antropologi, con l’obiettivo di condividere una riflessione ampia e aperta e contribuire alla più ampia discussione in corso.
In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Manfredi Maria Vaccari, archeoantropologo, operatore museale e pilota UAS applicato all’archeologia.
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica che viviamo? Qual è il suo rapporto con le tecnologie e quale l’uso che ne fa nelle sue attività lavorative (antropologia digitale)?
Buongiorno a Lei e a tutti i lettori. Sono un archeologo specializzato in antropologia fisica e forense che attualmente ricopre il ruolo di pilota UAS e responsabile di ricerca antropologica presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo.
Posso di certo confermare che senza determinate tecnologie utili, nel mio caso droni e programmi per la ricerca antropologica, non sarei mai arrivato ad ottenere specifici risultati caratterizzati da una certa accuratezza. Ecco perché il mio caso può essere esemplificativo. Oggi tutto ha una componente digitale, dal lavoro all’intrattenimento, fino ad arrivare al proprio network sociale; per questo mi reputo un forte sostenitore del progresso tecnologico. Nonostante ciò, reputo fondamentale il tenere gli occhi aperti su alcuni aspetti insiti nell’uso del digitale, perché ogni cosa necessità di etica per essere usata, soprattutto quando si parla del mondo tecnologico.
Come è cambiato l’ambito della sua attività nell’era digitale? La tecnologia ha cambiato mente e corpo, quest’ultimo trasformato da protesi e tecnologie indossabili, ma anche in termini simbolici fino alla sua negazione. La realtà si è fatta multipla, fatta di realtà virtuali e parallele, tanti nonluoghi (M. Augè) nei quali si vive un continuo presente (hic et nunc), spesso superficialmente, attraverso superfici di uno schermo, e in velocità. Ne deriva un affanno esistenziale fatto di solitudine, individuale e relazione, e di perdita di senso. Lei cosa ne pensa? Cosa serve oggi per alimentare una presa di coscienza sulla contemporaneità e una lettura critica delle nuove realtà digitali? Che funzione ha in tutto questo l’antropologia? Ha senso una antropologia digitale?
Ho provato in prima persona cosa significa vivere il “progresso digitale”: quando iniziai archeologia all’Università, cominciai ad acquisire tutta una serie di competenze, anche digitali, nell’uso di determinati programmi e strumentazioni tecniche. Fin qui tutto ok. Il problema sorse quando terminai il mio percorso universitario, dato che avevo acquisito competenze in cose che, a distanza di cinque anni, erano oramai diventate obsolete. A quel punto mi resi conto che la mia formazione doveva essere impostata soprattutto su ciò che decidevo di imparare sulla base delle ultime tendenze tecnologiche. Oggi l’Università tende ad insegnarti metodi base, in alcuni casi già superati. Sta quindi a noi comprendere le nuove tendenze digitali e acquisirne le competenze di utilizzo.
“Nonostante le illusioni diffuse dalle tecnologie della comunicazione (dalla televisione a internet) noi viviamo là dove viviamo.” – Marc Augè
Per quanto riguarda il ruolo dell’antropologia digitale, penso che essa abbia una grandissima responsabilità. V
orrei che non si limitasse ad esporre e somministrare concetti al grande pubblico, ma che aiuti tutti a prendere coscienza di ciò che rappresenta il mondo del digital, essendo lei la disciplina atta a carpirne le varie sfaccettature. In questo senso, l’uso dei social network ne è un esempio lampante a mio parere: la maggior parte di noi, soprattutto all’inizio, ha spinto ad utilizzare tali strumenti, senza però ragionare e comprenderne le controindicazioni che ne potevano derivare. A posteriori reputo tale comportamento dettato dall’entusiasmo di un progresso sempre più rapido, che ha alzato (e alza) l’asticella di ciò che si desidera ottenere nell’immediato. Difatti è stato proprio questo uno dei motivi che ha innalzato a dismisura l’insoddisfazione generale della società, vale a dire l’idea del “tutto e subito”, a cui sedicenti paladini dell’apparire danno manforte.
Credo che una bella chiacchierata con chi non è nato nell’era digitale possa aiutare a capire cos’è vivere una vita reale rispetto al mostrare una vita non vita, dove è sufficiente mostrarsi secondo specifici canoni per sentirsi “illuso di essere”.
In pochi anni tutto è cambiato, anche nel nostro modo di vivere la socialità. Tutti si vantano di avere reti di contatti ma pochi si interrogano sulla qualità delle relazioni che le caratterizzano. Forse perché lasca è la percezione della differenza tra ambiti diversi quali comunità, società, rete sociale, social network e così via. Un antropologo conosce le differenze esistenti tra comunità, vischiosa e avvolgente, e società, con i suoi individui slegati e in contrapposizione ma uniti da istituzioni, credenze, progetti, spazi condivisi e possibilità di collaborare. Tra comunità e società oggi ci sono le reti sociali dei social network (piattaforme) abitate da persone che giocano in (ego)solitudine pensando di essere connessi. In questi luoghi la comunità non esiste, è persino difficile fare società. Lei cosa ne pensa?
Penso che i classici concetti di comunità e società come li abbiamo definiti fino ad oggi, possano essere ulteriormente sviluppati in adattamento ai cambiamenti introdotti proprio dalla tecnologia.
Faccio un esempio chiarifico: tempo fa ero un assiduo videogiocatore online di FPS (giochi sparatutto in prima persona). Ad un certo punto creai un gruppo composto da altri videogiocatori, non solo italiani ma anche residenti in paesi stranieri; quindi, le chat room fornite dalle console erano diventate la nostra nuova piattaforma social. Qui si parlava principalmente di tecniche videoludiche, ma anche di tante altre cose come politica, pensieri e vicende personali ecc. Anche se non ci eravamo mai visti, c’era familiarità tra di noi, ognuno sapeva il compleanno dell’altro, ci scambiavamo gli auguri per le festività e quando un nostro membro venne a mancare, anche se non lo conoscevamo di persona, tutti noi ci sentivamo come se un nostro caro amico se ne fosse andato. Vivevamo il lutto.
A questo punto lancio uno spunto di riflessione chiedendomi se questa esperienza di comunità (?) permessa da una piattaforma social, oggi analoga a milioni di situazioni, possa effettivamente collocarsi nel concetto di comunità o di società. Però mi sorge anche un’altra domanda, cioè, non è che le piattaforme social abbiano creato una nuova dimensione di comunità/socialità proprio per via dell’impostazione comunicativa che ci “costringono” a seguire? Ecco perché, come detto poc’anzi, si potrebbe pensare di arricchire gli odierni concetti di comunità e società. L’online è estremamente presente oggi e questo in qualche modo influisce, sia nel bene che nel male.
Con queste mie osservazioni vorrei far capire quanto sia difficile dare una risposta alla domanda che mi è stata fatta. Sappiamo che sono le esperienze personali vissute in un ambito a definire per noi l’ambito stesso, e forse le mie generali esperienze digital mi hanno portato a definire il mondo delle piattaforme social come un mondo in continua evoluzione dove ogni percezione e comportamento può essere messo in discussione.
Riflettere e porsi domande va bene, ma non facciamoci inghiottire da una visione del digitale come vita reale, dimenticandosi che la vita “onestamente reale” è un’altra.
Viviamo tempi alla fine dei tempi, siamo testimoni di un salto paradigmatico verso scenari futuri imprevedibili, che per alcuni potrebbero essere distopici. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sui loro effetti. Qual è la sua visione dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe, secondo lei, essere fatta, da parte di antropologi, filosofi e scienziati, ma anche di singole persone?
Oggi la tecnologia ha praticamente ampliato sia il bello che il brutto dei comportamenti umani. Da un lato internet ci ha permesso di acquisire informazioni, anche piuttosto tecniche e attendibili su gran parte degli argomenti esistenti, tant’è che oggi una persona ha la possibilità di acquisire svariate competenze utili semplicemente stando di fronte ad un monitor. Dall’altro lato però, si sta assistendo ad una specie di superficializzazione del sapere e dei comportamenti, e c’è da dire che gli stessi canali comunicativi lo incentivano.
Marco Montemagno, famoso imprenditore digitale di innegabile talento comunicativo, mi ha colpito quando ha detto che “tutto il meccanismo dei media è azionato da due leve: il conflitto e l’estremo, con tutto ciò che ne deriva”, ed effettivamente le cose stanno così. Una persona, leggendo tale affermazione, direbbe che è ovvio, quasi confermandone la propria consapevolezza. Ma prima di leggere tale affermazione, ci si era arrivati a rendersene conto autonomamente? Tendenzialmente no, altrimenti alcuni comportamenti discutibili ma oggi molto diffusi verrebbero immediatamente riconosciuti fuorvianti, in alcuni casi lesivi e quindi sarebbero stati limitati. Esempio: è normale vedere nei propri feed social notizie estreme (“video di incidente stradale impressionante”, “mangio una pizza da 5 kg in 20 minuti” ecc.) a prescindere da come l’algoritmo ci categorizza. Veniamo inondati di spazzatura e oramai è diventato tutto normale.
È qui che tutti, specialisti e non, dovrebbero sensibilizzare (e sensibilizzarsi) nel mostrare maggiore interesse nei confronti di contenuti che devono essere conosciuti, contenuti utili, al fine di ripulire i canali da contenuti sporcizia.
In sintesi, non dico di eliminare ogni contenuto superficiale e poco valido, perché alla fine questi divertono pure (considerando sempre un limite al contenuto), ma non è possibile che bisogna cercare “l’utile”, spesso con difficoltà, quando invece il “non valido” viene offerto e propinato con estrema semplicità e leggerezza.
Dobbiamo coltivare, proteggere ed esercitare la nostra umanità ( Enrico Nivolo)
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Quali strumenti interpretativi e mappe sono necessari per comprendere il nostro essere sempre più online (in Rete)? In che modo l’antropologia può oggi aiutare nel cogliere le nuove composizioni sociali (reti, comunità, tribù, gruppi, ecc.), nel cogliere le somiglianze e le differenze da esse emergenti, nell’interpretare le relazioni fattuali e quelle virtuali e come esse siano condizionate dal mezzo tecnologico? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
“La missione dell’antropologia è contribuire insieme ad altre scienze, e secondo metodi propri, a rendere intelligibile il mondo in cui degli organismi di un tipo particolare s’inseriscono nel mondo, ne acquisiscono un’interpretazione stabile e contribuiscono a modificarlo, tessendo con esso e fra loro, legami costanti e occasionali di una notevole ma non infinita diversità.” – Philippe Descola
La tecnologia ha effettivamente modificato la percezione della nostra realtà, divenendo parte integrante di quest’ultima. Alla luce di questo, un cambiamento nell’approccio alla definizione della tecnologia stessa c’è stato e continua ad esserci. Credo che sia stata la stessa tecnologia a darci nuovi spunti di riflessione e di analisi applicati alla sua stessa valutazione, poiché oggi abbiamo un certo livello di esperienza, un certo numero di casi già avvenuti per poter fare valutazioni atte al raggiungimento di una maggior consapevolezza nell’uso del digitale. Una prima valutazione di come la tecnologia abbia cambiato le nostre vite può partire dall’osservazione e dal confronto; viviamo in un’epoca dove coesistono le generazioni nate nel periodo digitale e generazioni nate prima di quest’era. Osservare magari come questi due gruppi si approcciano (o si sono approcciati) a situazioni analoghe potrebbe dare importanti informazioni non solo su come la tecnologia abbia influenzato il pensiero nel corso delle diverse decadi, ma anche come abbia contribuito a cambiare l’etica che reputo essere il fondamento di una società. Mi rendo conto che ci sono diversi elementi che potrebbero influire sulla valutazione, ma naturalmente una tale osservazione verrebbe impostata in maniera idonea, tenendo conto di varie sfaccettature. L’antropologia potrebbe dare il suo contributo proprio in questo.
Con la sua versatilità, la tecnologia si sta indirizzando verso mete definibili “di parte” proprio per l’uso che se ne sta facendo negli ultimi anni; basti pensare al recentissimo caso Twitter, dove la passata gestione ha effettivamente insabbiato alcune situazioni di scomoda verità nel mondo a stelle e strisce. Questo è solo uno dei tanti esempi ma credo questo: la tecnologia segue la direzione tracciata dall’uomo (per ora). Se la comunità è di parte, la tecnologia fungerà come voce di parte. In caso contrario no. Per ora nemmeno le IA sono senzienti, non vedo autonomia nell’entità tecnologica. Essa segue le azioni dell’uomo e sono questi atteggiamenti a preoccuparmi sul come verranno usate le moderne tecnologie.
Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene (il movimento è la verità delle società umane), anche in senso antropologico. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione accelerata attuale, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando? In che modo e quanto di questi scenari possono oggi essere svelati dall’antropologia? Quale ruolo può avere l’antropologia nel comprendere i fenomeni emergenti e quale contributo può dare per far emergere quelli non distopici? E’ ancora valido l’approccio antropologico classico di osservazione (esterno, interno e viceversa) in contesti cosmologici nei quali tutto è cambiato, dominato più da ciò che scorre sullo schermo che nella vita reale, da relazioni virtuali piuttosto che da relazioni empatiche e fattuali?
Sono abbastanza convinto che presto o tardi il cambiamento di abitudini che stiamo silenziosamente vivendo grazie alla tecnologia culminerà in una rivoluzione senza precedenti; l’automazione, sempre più incentivata perché più conveniente sotto vari punti di vista, stravolgerà il modo di lavorare e le professioni stesse, creando parecchi disagi se tale cambiamento sarà troppo repentino. Spero che le istituzioni e gli specialisti, tra cui gli antropologi, spingano con maggior incisività alla sensibilizzazione, preparando tutti a questi inevitabili cambiamenti. La società deve prendere coscienza di questa situazione in tempo e con serenità. Dopotutto il progresso conduce inevitabilmente al cambiamento, quindi accettiamolo.
Vedo un futuro dove il digitale farà totalmente parte del nostro reale presente, seguendo la scia di fenomeni già avviatasi qualche anno fa; basti pensare alla possibilità di fare spesa online, acquistare qualsiasi cosa in qualsiasi momento direttamente da casa o addirittura trasferirsi in un mondo parallelo come sta avvenendo, seppur in maniera attualmente limitata, con il metaverso. Ecco, suppongo che quest’ultimo sarà il futuro nonostante i detrattori che si aggrappano al discorso dei risultati oggi ottenuti non particolarmente floridi. Il dibattito odierno sul metaverso mi sembra quello che avvenne tempo fa con la nascita di Internet, dove molte personalità autorevoli lo vedevano come un qualcosa di passeggero che non avrebbe mai sfondato. Eppure, eccoci qui, oggi, in un mondo digitale permeante.
La rivoluzione tecnologica è sotterranea, continua, invisibile, intelligente. È fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?
Il più grande rischio legato a questo fatto è che a noi piace tale meccanismo e non ci rendiamo conto a cosa si potrebbe andare incontro. Anzi, in che situazione viviamo tutt’oggi. La società odierna baratta giornalmente i propri dati, anche a propria insaputa, per migliorare tutti quegli algoritmi che ci permettono di visionare, tendenzialmente, contenuti in linea con i nostri superficiali interessi. Siamo assuefatti da questo meccanismo di baratto digitale, al punto che non ci rendiamo conto che i dati utenti sono il nuovo oro e che, nelle mani di altri, possono plasmare la nostra percezione della realtà stessa in maniera indiretta, in maniera silenziosa. Che significa? Che la gente non ha più privacy senza nemmeno rendersene conto. Ecco che mi ricollego al discorso di etica accennato all’inizio. La tecnologia è un bene, ma attualmente dobbiamo aggiustare il tiro perché essa viene usata per puntare al profitto a scapito dei valori e dell’integrità sociale.
Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo o guadagnando da una interazione umana con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?
Da una parte si sta perdendo molto. Basta andare al ristorante per rendersene conto. Gruppi di amici che, prima di ordinare “scrollano” sui social. Coppie che al posto di raccontarsi, si fanno selfie e monitorano l’esterno perdendo d’occhio ciò che stanno vivendo, il momento presente. Siamo di nuovo allo stesso punto; il problema non è il social network di turno, ma come lo si usa, lo si percepisce e quindi il livello di importanza che gli si dà.
C’è però da dire che i social hanno permesso cose che in passato sarebbero state impensabili. Nel mio caso, non avrei mai potuto confrontarmi con colleghi antropologi e archeologi esteri senza l’esistenza dei social. Non avrei mai raggiunto determinati contatti e quindi determinate opportunità senza questi strumenti. Quindi sì, mi reputo totalmente a favore dei social perché vedo in loro una notevole utilità, ma essi vanno usati con le giuste precauzioni e con la giusta coscienza. Non perdiamo d’occhio il momento presente.
L’era digitale suggerisce metodologie etnografiche appropriate. L’etnografia è un approccio multidisciplinare che interessa filosofi, sociologi, etologi, ecobiologi, ecc. In cosa differisce oggi una etnografia antropologica? Che tipo di contributo critico può fornire, in termini di riflessioni, narrazioni e pratiche?
Oggi, le osservazioni fatte nei confronti di una società, credo che debbano partire dai pilastri classici di analisi (osservazione comportamentale, interviste, analisi dati ecc.), ma rivalutati attraverso una messa a confronto dei dati ottenuti mediante supporti tecnologici, decisamente accurati poiché permettono di farci ottenere risultati particolarmente attendibili. E l’accuratezza in postproduzione determinerà l’accuratezza del risultato finale. Con un risultato che fotografa la situazione attuale di un contesto, si potranno avanzare osservazioni e riflessioni affinché i rischi vengano ridotti al minimo. Sapremo a cosa stiamo andando incontro. Questo è anche un esempio di come la tecnologia permetta di autovalutarsi in maniera indiretta.
Ora, i risultati auspicabili servirebbero a fare delle previsioni, quindi le discipline etnoantropologiche e similari non saranno più tendenzialmente limitate all’analisi delle situazioni attuali, bensì permetteranno di capire meglio i contesti, analizzarle e prevenire eventuali danni sociali futuri. Penso che queste discipline debbano fare del bene concreto alla società, vedendo ciò che gli altri non vedono e indirizzare verso un giusto uso e una reale visione delle cose.
Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?
Ai lettori vorrei suggerire tre libri: il primo si intitola Tutto Montemagno, (2021), scritto da Marco Montemagno. E’ una lettura che scorre bene, quasi come se fosse una chiacchierata con l’autore, dove si illustrano le nuove e alternative frontiere lavorative nate proprio dal progresso tecnologico.
Poi vorrei suggerire due libri scritti da Yuval Noah Harari. Il primo si intitola Sapiens. Da animali a Déi: Breve storia dell’umanità, (2017). È un testo che fornisce molti spunti di riflessione sul perché abbiamo determinati comportamenti oggi. Il secondo libro si intitola invece Homo Deus: Breve storia del futuro, (2018). Un testo che spiega a cosa potrebbe andare incontro l’uomo per via di un’esistenza basata sulle tecnologie.
Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!
Finalmente un progetto utile.
Come dico nell’intervista, abbiamo bisogno che queste discipline non si limitino a riportare gli eventi e le situazioni, bensì aiutino le persone a prendere coscienza di come sfruttano il digitale, mostrando loro a cosa si potrebbe andare incontro.
Suggerisco di fare delle dirette social in cui si intervistano persone che hanno vissuto determinate situazioni (piacevoli o meno), al fine di creare un legame umano con la community. Invitare anche chi, grazie al digitale, ha cambiato la propria vita.