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Pensiero e azienda dopo la filosofia critica

Pensiero e azienda dopo la filosofia critica

01 Marzo 2021 Maurizio Chatel
Maurizio Chatel
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I filosofi hanno esercitato per i papi, per i re, per lo Stato (Hegel e Gentile, ad esempio), ma non si sa di filosofi che abbiano prestato il loro servizio per il Capitale. Da ciò si presume che tra il pensatore e il profitto non corra buon sangue, non si sa a partire da chi: se per la supponenza del capitalista nei confronti di un sapere notoriamente in-utile, o per i pregiudizi dei filosofi verso la tecnica e l’industria (vedi Marx, Adorno, insomma… tanti). Cerchiamo di circoscrivere con chiarezza i termini della questione, ovvero di capire in base a quali categorie il pensiero filosofico ha racchiuso lavoro, capitale e impresa in un campo antagonistico.

 Marx

 

Le aree del pensiero maggiormente coinvolte, per tradizione e affinità, con il tema del lavoro (e della proprietà), sono quelle della filosofia politica (più o meno dalla nascita del pensiero giusnaturalista, coi Trattati sul governo di Locke e il Contratto sociale di Rousseau, sfociato poi nella critica dell’economia politica di Marx, a sua volta formatosi alla scuola inglese di Smith e Ricardo), e dell’etica (con una ben maggiore trasversalità temporale, che  dal pensiero greco classico giunge fino alla Scuola di Francoforte, ma che ancora una volta trova il suo protagonista principale nel pensiero liberale anglosassone). La filosofia ha dunque definito il significato e il valore umano del lavoro e della proprietà privata, e ha giudicato il capitalismo come un processo aberrante sotto entrambi i riguardi: perché il lavoro salariato non è lavoro “umano”, e perché il profitto è una forma di accumulazione senza fondamento etico. Max Weber è stato l’unico (ma era un sociologo) a individuare un nesso tra lo spirito del capitalismo e l’etica protestante, inquadrando certamente le origini di questo modo di produzione, e sottovalutandone le conseguenze sociali, ben inquadrate nel saggio di Friedrich Engels La situazione della classe operaia in Inghilterra.

 

Engels

 

Capitale, lavoro e proprietà sono dunque diventati temi spinosi per il filosofo, temi da cui trapela un chiaro odore di zolfo. Oggi ogni discorso sull’etica del lavoro è demandato ai sociologi, magari affrontato in convegni e dibattiti assai specialistici, ma non si trova più chi affronti con ampio respiro teoretico questo argomento. Eppure esso è un argomento umano, troppo umano. Perché, piaccia o non piaccia, il lavoro aziendale rappresenta la forma più diffusa di occupazione nel mondo occidentale e non solo; esso quindi è il modo di vivere quotidiano di un numero considerevole di persone, e come tale origine di situazioni esistenziali assai diverse e complesse, a cui il pensiero dovrebbe cercare di dare un senso, un ordine, se non una prospettiva che vada oltre l’economicismo. Per venire al punto, perché un filosofo non dovrebbe occuparsi di vita aziendale, intesa come una delle condizioni umane più rappresentative della nostra epoca?

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Alcuni lo fanno, o meglio: alcuni filosofi lavorano per le aziende, il che non è sempre la stessa cosa. Fenomenologicamente, è necessario distinguere con precisione tra Noesis, o atto mentale, Noema o fenomeno in sé, e Intenzionalità, che è il trait d’union tra ciò che si pensa e ciò che effettivamente è. In altre parole, tra soggetto e oggetto si manifesta sempre un’intenzione, un modo di vedere la cosa che è quanto possiamo chiamare “vita vissuta”. La stessa persona può essere per me oggetto d’amore e poi di odio, eppure soggetto e oggetto sono sempre gli stessi. E quindi, il filosofo è filosofo, l’azienda è azienda, ma l’intenzione può essere di volta in volta diversa.

Naturalmente tutto ciò è scontato, ma prima della sintesi è sempre bene compiere un’analisi, cioè esplicitare in modo chiaro e distinto i termini del problema. Che riguardano dunque ciò che pensiamo essere “il filosofo” e ciò che il filosofo effettivamente è, e ciò che pensiamo essere “l’azienda” e ciò che essa effettivamente è. In termini economicisti, il filosofo è un lavoratore intellettuale e l’azienda un posto di lavoro; entrambi si situano nell’orizzonte socioeconomico del mercato del lavoro in termini di domanda e offerta, e i loro rapporti sono regolati dalle leggi di questo mercato. Ma, come detto all’inizio, in questo discorso sono coinvolte molte altre categorie: quella politica, per esempio, e quella etica. In termini quindi meno economicisti e più “filosofici” (qualunque cosa ciò significhi), il filosofo è un esperto di questioni etico-politiche, il capo d’azienda un dirigente sotto la cui gestione e responsabilità si raccolgono le vite di alcune persone. L’attenzione può dunque ora spostarsi dal “chi sono” a “cosa fanno”.

Tralasciamo il fatto che, oggi, molti filosofi lavorano come salariati a basso costo per mancanza di occupazioni specifiche adeguate al loro titolo di studio. Questo non è (per il momento) il nostro problema. Consideriamo invece quei filosofi che esercitano una consulenza aziendale proprio in quanto filosofi, cioè specialisti, ovvero esercitano nell’ambito delle problematiche del lavoro sulla base di una competenza squisitamente teoretica. A che titolo lo fanno (alcuni direbbero: lo possono fare)? Un filosofo non è un sociologo, non è uno psicologo, non è un economista; non ha cioè gli strumenti specifici adatti a risolvere problemi aziendali.  

La filosofia pratica ha invece competenza nell’uso del linguaggio, che non è una questione riducibile alle tecniche comunicative ma concerne le relazioni di senso tra le persone. Essa si rivolge alle persone e ai gruppi per gestire il loro essere-nel-mondo e il loro essere-insieme sempre nell’ottica della cura, ovvero del prenderci cura di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Non stiamo parlando di un filosofo-medico, ma di una guida che conduce i suoi interlocutori alla consapevolezza delle responsabilità intersoggettive che danno forma e significato all’ambiente nel quale agiscono; stiamo parlando di un terzo che si affianca al timoniere non per condurre la nave in porto ma per suggerire delle rotte nel momento in cui maggiore è lo spaesamento. Stiamo parlando di uno specialista di crisi esistenziali e non di crisi produttive.

cooperazione

 

Questa prestazione d’opera non è quindi finalizzata alla razionalizzazione del profitto, ma alla razionalizzazione delle relazioni; guarda al mondo aziendale come ad un ambiente umano da cui si diramano i fili di un vasto tessuto sociale, fili che, una volta spezzati, incrinano tutta la tela di cui sono parte. Si può obbiettare che la razionalizzazione del mondo produttivo è funzionale alla conservazione dei rapporti di subordinazione tra capitale e lavoro, e che il pensiero ha il dovere di esercitare la critica nei confronti del sistema, di liberare l’uomo e la sua coscienza da ogni forma di assoggettamento; si può, ed è stato fatto, ma l’esito di questa critica non ha colto nel segno. La stagione della filosofia critica si è chiusa nel silenzio di un pensiero che si sente sconfitto dal peso della realtà, e che non percepisce più il proprio posto nel mondo. Il filosofo pratico oggi potrebbe suggerire questa modesta considerazione: dopo l’etica del dover-essere proviamo a ripensare un’etica della possibilità, che definisca cos’è umano e non oltre-umano, che cosa ci renda degni di essere felici e non moralmente superiori.

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