In un interessante articolo di Andrea Sani possiamo abbracciare gli ultimi ottant’anni di riflessione sulla questione del Significato, o Riferimento, come si dice nella filosofia del linguaggio. Alcune considerazioni a latere.
A chi ha bazzicato studi o letture di tipo linguistico il problema è ben noto, meno ai chi ha studiato filosofia senza staccarsi dal suo filone tradizionale, quello classico ed eurocentrico. La filosofia del linguaggio non è infatti pane facile da masticare per chi è cresciuto a Platone ed Heidegger, e neppure tanto facile da digerire, per via dell’aura formalista e antimetafisica che ne ha segnato le origini. Nota anche come filosofia analitica, essa è sorta per occuparsi di un problema specifico: distinguere ciò che è decidibile – vero o falso – (Wittgenstein direbbe: ciò di cui si può parlare) da ciò che non lo è, ovvero esula dagli Stati del mondo di cui si occupa la scienza. Ciò di cui non si può stabilire la verità formale non interessa la filosofia, ma è letteratura o altro: è così che nei corsi di filosofia anglosassoni Hegel non rientra nel programma, se non come pensiero politico.
È giusto che per onestà, prima di proseguire, io confessi la mia personale diffidenza verso questo filone di pensiero, diffidenza che mi spinge a porre una domanda cruciale: di cosa parliamo quando parliamo di significato? Molto spesso ci troviamo di fronte al problema del significato, per esempio se ci capita di dover tradurre da una lingua straniera nella nostra, o quando studiamo e affrontiamo un linguaggio specialistico ignoto. Vero e sacrosanto… ma qui sta il difetto dell’approccio analitico e, in generale, di ogni approccio scientista, a ciò che concerne la nostra esistenza. Perché ciascuno di noi, in quanto essere umano, non vive per tradurre o studiare, ma vive per comprendere, o deve comprendere per vivere. Il significato delle cose non può ridursi all’approccio linguistico, ma consiste nel poter stare in mezzo ad esse sentendoci a casa, comprendendole.
🍒🍒 IL MONDO DIVISO…DAL LINGUAGGIO
Pensare che il Significato sia il Riferimento riduce il senso stesso della vita, il suo essere costantemente impegnata a “dare significato” alle cose, agli eventi, agli stati d’animo; a inglobare in un orizzonte di senso la massa caotica di tutto ciò che ci circonda, come un insieme che chiamiamo “la mia vita” o “il mio mondo”. Noi non “indichiamo” con le parole una cosa per volta – questo è un cane, quella mia sorella – ma raccogliamo in frasi e discorsi alcuni aspetti della vita, leghiamo le parole in una rappresentazione e non le enunciamo una-dopo-l’altra come se infilassimo delle monetine in un distributore di gazzosa.
Separare il linguaggio dall’esistenza è come separare il corpo umano dalla vita, come avviene in molta ricerca scientifica rivolta al “funzionamento del cervello” piuttosto che a quello del fegato; se il linguaggio è il modo d’essere dell’essere umano nel mondo – e chi lo può negare? – allora esso non può essere separato dall’ente di cui è l’essere, fatto mero oggetto di ricerca, come se possedesse un “proprio” modo di funzionare che non riguarda le circostanze reali in cui si manifesta, che sono sempre circostanze di qualcuno. Sostenere che quando diciamo “acqua” ci riferiamo a “un liquido incolore, inodore, insapore, dissetante” è pura teoria, non è una descrizione di ciò che accade a ciascuno di noi quando siamo a tavola o sulla riva del mare, o in procinto di entrare nel bagno per una doccia; dicendo “acqua” non parliamo dell’acqua, ma di ciò che ci sta accadendo.
In sintesi: per studiare il significato occorre “uscire dalla vita”, dal nostro modo di essere-nel-mondo, oggettivare la parola come se non ci appartenesse, come se fosse una “cosa” tra le altre “cose” a nostra disposizione, distaccata e indifferente a ciò che innanzi tutto e per lo più noi siamo.
Martin Heidegger