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Babele e dintorni

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25 Febbraio 2021 Maurizio Chatel
Maurizio Chatel
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Pregliasco, Ricciardi, Galli, Locatelli, Burioni, Viola, Crisanti, Capua, Palù… abbiamo perso il conto non solo del numero di esperti - immunologi, virologi, microbiologi, infettivologi – ma soprattutto della quantità smisurata di dichiarazioni che hanno rilasciato su ogni possibile canale multimediale dal febbraio dell’anno scorso ad oggi.

Le star della seconda ondata - Dagli esperti troppe informazioni

Invece di abbandonarci all’isterismo collettivo, cerchiamo, da filosofi, di ragionare con calma sulla questione.

Che prende corpo proprio da quanto si sta dibattendo su questo spazio virtuale [vedi qui]. Intanto cominciamo a fare chiarezza sui termini: in tutti gli interventi sulla pandemia pubblicati in questo annus horribilis tramite interviste o interventi diretti, si parla di “opinioni scientifiche” con una leggerezza che farebbe ridere se non facesse piangere. La scienza, com’è noto, non esprime opinioni ma dati; le opinioni appartengono allo scienziato in quanto comune cittadino e non come operatore in un determinato settore di ricerca: le riviste scientifiche notoriamente non pubblicano le opinioni degli scienziati, ma le loro osservazioni su un certo “stato del mondo”. Dove sta allora il problema?

Si potrebbe rispondere che esso cova nel cuore stesso dei social network e nella proliferazione incontenibile dei canali d’informazione, ma sarebbe come accusare un Pitbull per l’aggressione ad un passante mentre il suo padrone non lo teneva al guinzaglio. E ancora: nel caso di una falsa notizia, il colpevole è il canale televisivo che la trasmette o colui che la enuncia? Siamo dunque al punto: che a mio parere sta nella scarsa educazione, generalizzata, nell’arte della comunicazione e del dialogo. Che poi anche i cosiddetti esperti ne manchino rende la cosa ancor più inquietante. Che cosa indica, infatti, il termine “esperto”? Da un lato esso denota colui che ha esperienza, o cognizione di qualcosa, ma anche colui che è consapevole; in ogni caso si riferisce a chi utilizza le proprie facoltà cognitive ad un livello particolarmente intenso, non comune.

Parlare di “facoltà” al plurale è però in sé già un sintomo del malessere che cova nella visione meccanicistica dell’essere umano, visione non universalmente condivisa ma che preme per imporsi con sempre maggior forza, per esempio là dove si parla di intelligenza artificiale. L’alternativa olistica dell’esistente umano come “essere” non duale (anima e corpo) o “plurale” (organismo, vale a dire composto), ma complesso e integrato nel suo essere-in-relazione col mondo, pone invece al centro il tema dell’intelligenza come totalità, che, semplificando, alcuni oggi identificano col concetto di intelligenza emotiva. A mio parere, questa locuzione si riferisce alla capacità di essere sempre presenti di fronte alla vita con l’insieme di noi stessi, e non “un pezzo per volta”.

Torniamo allora al panorama comunicativo di questi giorni, che altro non è che il manifestarsi dell’umano sulla scena del mondo. Se c’è un difetto che maggiormente dovrebbe preoccuparci, esso consiste proprio nella frantumazione (oggi si dice disseminazione) delle “facoltà” impegnate a interagire con il reale, in seguito alla quale in ogni occasione – e per ogni canale comunicativo – ciascuno di noi è solo una parte di se stesso (o, il che è lo stesso, si identifica con una parte, o quella dei pro, o quella dei contro). E così l’esperto, perdendo di vista la natura complessiva e complessa del comprendere, la frantuma in piccoli spazi di senso senza più spessore e continuità. In altre parole, colui che più di altri dovrebbe avere consapevolezza del pensiero e della sua capacità di unire il molteplice in un orizzonte coerente, si lascia andare ad un uso pavloviano della comunicazione fatto di stimolo e risposta. Si risponde senza pensare, attingendo gli argomenti da una banca dati precostituita, che è quella del settore in cui abbiamo confinato la nostra intelligenza. È così che l’esperto, trascinando la sua conoscenza (complessità) nel recinto delle opinioni (semplificazione), dequalifica il valore di ciò che sa, togliendo autorevolezza al sapere e mettendolo allo stesso livello del chiacchierare. 

La gravità di questa deresponsabilizzazione la misuriamo ormai col metro delle catastrofi: negazionisti e no-vax sono solo la punta di un iceberg fatto di solitudini comunicative, in cui la parola non è più Logos – un Leghein che tiene insieme – ma distinzione, separazione, conflitto, autoreferenzialità identitaria. Una sorta di ritorno alla condizione dell’Homo homini lupus in cui parlare significa prima di tutto togliere la parola agli altri. Di questa solitudine è chiamato a rispondere anche chi declassa l’esperienza da Consapevolezza a “saper fare”, mera pratica specialistica che si disinteressa dell’insieme di cui facciamo parte.

Il filosofo rivolge dunque un appello all’esperto: non perdiamoci di vista, ritroviamo insieme il senso del comunicare nel suo essere legame e non dispersione, partecipazione a qualcosa che ci comprende in sé e non vagabondaggio in un universo senza più centri.

 

 

 

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