Immagine tratta da la Repubblica del 12/4/2021
Uno dei difetti, forse il principale, dell’istituzione scolastica nazionale di secondo grado è la mancanza di un piano formativo dei docenti adeguato alla loro funzione relazionale. Si valutano le nozioni e non la capacità di trasmetterle, e questo da sempre.
Collateralmente, ogni progetto di riforma punta esclusivamente agli aspetti formali del percorso educativo, e da qualche lustro soprattutto alla tappa finale, l’esame di maturità, tralasciando colpevolmente il percorso più adeguato a giungervi; il classico esempio di una casa di cui si posa prima il tetto delle fondamenta.
Anche a chi non ha mai insegnato non può sfuggire la grossolana idiozia di un simile modo di procedere: sedersi di fronte a 25 o più ragazzi preoccupandosi solo di spiegare qualcosa è un fallimento totale, non solo dal punto di vista educativo ma anche esistenziale, sia per il docente che per gli allievi. Eppure è così che da sempre la scuola funziona, con un domatore di leoni da una parte e un branco di belve dall’altra, pronte a farlo a pezzettini alla prima occasione. Una gestione puramente burocratica, quando non politico-clientelare, dell’istruzione pubblica è il lascito di uno stato ottocentesco, una mostruosità inconcepibile già nel Novecento, figuriamoci oggi.
Nella mia trentennale carriera di docente ho assistito a situazioni anche drammatiche, a conflitti insanabili tra gruppo classe e docente e tra docente e genitori, tutti legati all’inadeguatezza psicologica e comunicativa del docente, alla sua totale estraneità nei confronti del mondo adolescenziale. Quando si decide di insegnare come seconda o terza scelta in mancanza di altre prospettive, l’esito immancabile è quello di una tribolazione quotidiana tra piccole e grandi incomprensioni, tra sottili aggressioni e ripicche, frustrazioni intellettuali delle cui cause si è totalmente inconsapevoli. E la colpa, naturalmente, è sempre “dei ragazzi”: indolenti, indisciplinati, disinteressati, maleducati, e chi più ne ha più ne metta. Di interrogarsi su se stessi naturalmente non se ne parla: al massimo si arriva a riconoscere di non “potercela fare”, di non essere “nel posto giusto”, senza avere nessun rimedio a portata di mano se non una rassegnazione sterile e patologica, che avvelena ancor più il rapporto educativo.
Immancabilmente, nel corso degli ultimi dieci-quindici anni, l’istituzione scolastica non ha saputo proporre altro che astrattezze efficientistiche, scappatoie teoriche fondate su un immaginario tecnocratico senza alcuna aderenza con la realtà umana dell’insegnamento; rimodernare gli strumenti formando gli insegnanti all’uso della tecnologia è l’ultimo dei fallimenti in ordine di tempo, se non il più grave. Se non sono capace di comunicare non risolvo il problema sedendomi davanti a una LIM invece che in cattedra. Ma ogni considerazione di questo tipo lascia assolutamente imperturbati i funzionari ministeriali dediti alla propria carriera più che al funzionamento della scuola. La mancanza di empatia nei confronti del mio uditorio adolescenziale non si supera affidandosi a un dispositivo elettronico piuttosto che cartaceo; pare banale, ma paradossalmente è proprio questo ciò che il mainstream sostiene. Ci viene ripetuto ostinatamente che per “adeguarsi” ai giovani sia necessario diventare come loro, vale a dire dei “nativi digitali”, astuti manipolatori di tastiere e video-conferenze, così da colmare il famoso gap generazionale. Roba da manicomio, se non fosse che è verbo ministeriale. A parte il fatto che anche se io mi trasformassi in un robot, troverei sempre metà della classe che ne sa più di me, in quel caso rimarrei solo un robot, trattato come tale, senza nessuna considerazione circa il valore di quello che faccio.
Il valore, appunto. In cosa consiste il valore dell’insegnamento? Questa domanda se la poneva già Platone, che probabilmente non era un “don Milani”, anche perché i suoi discepoli non provenivano dalle banlieues metropolitane, ma è significativo del fatto che, prima dei contenuti, ci si è interrogati sui modi giusti per trasmetterli. Lui propendeva per l’oralità (la scrittura, diceva, non incide nell’anima), mentre successivamente si è sempre più privilegiato il Testo, ciò che permane di un sapere, perdendo con ciò stesso di vista il rapporto tra docente e discente. A prima vista nessuno nega che “saper insegnare” non vuol dire solo conoscere la materia, ma in cosa consista questa “sapienza” è poi difficile dirlo. Questa capacità appare qualcosa di inafferrabile, di impalpabile, che “o c’è o non c’è”, e buona notte al secchio. Che sia possibile formare all’insegnamento, al di là dell’uso degli strumenti o di certe strampalate pratiche comportamentistiche, non appare chiaro, e questo malgrado si stiano moltiplicando le pratiche filosofiche volte alla “comunicazione”, per lo più aziendale.
🌑🌒 La DAD atrofizza la mente e spegne i cuori
Ma veniamo al dunque. Non intendo naufragare nel mare magno delle problematiche comunicative, ma soffermarmi sull’aspetto più urgente della questione sollevata all’inizio di questo intervento: la difficoltà di confrontarsi con il gruppo classe adolescenziale, senza cadere in una frustrazione impotente e nociva. E pongo l’accento sul concetto di “frustrazione”, perché è una caratteristica che coinvolge tutte e due le componenti della relazione. Sia l’adulto che l’adolescente possono reagire alla frustrazione diventando aggressivi e deprimendosi, e i problemi sorgono da questo nucleo rovente della relazione. È frustrante soprattutto non essere compresi, e questo non capita solo all’insegnante: ci sono mille piccole cose che non capiamo dei ragazzi, e messe una sull’altra finiscono per rovinarci addosso come una valanga.
Non è neppure il caso di compilare un manuale di psicologia dell’età evolutiva: il problema è complessivo e riguarda la sfera delle relazioni più che dei comportamenti. Qual è allora il problema?
Non riconoscere se stesso nell’altro. Vasto programma, direbbe De Gaulle, soprattutto alla luce del fatto che l’età media dei docenti in Italia è un tantino elevata. Come posso, a quaranta o cinquant’anni, “riconoscermi” in un ragazzo dell’ultimo millennio? La strada è sicuramente impervia, ma non è che la via sia nascosta. Perché si comincia da una considerazione molto semplice: che abbiamo a che fare, come insegnanti, con persone e non con brocche (ottuse?) da riempire. Si comincia allora da un piccolo-grande gesto: portare rispetto prima ancora che pretenderlo. Ma non voglio scivolare nel moralismo, o in una nouvelle vague filosofica dal sapore vagamente buddista, anche se la cosa più bella che una mia allieva mi ha scritto recentemente è il riconoscimento del rispetto con cui l’ho sempre trattata, a prescindere dalla sua “insignificante” età.
Non sono uno psicologo ma non mi è difficile capire che molte delle difficoltà relazionali in una classe nascono dal fatto che ogni insegnante viene letteralmente gettato in cattedra, appunto senza una formazione adeguata. E questo genera insicurezza. “Sono l’insegnante, non posso mostrare debolezze, insicurezza, aprire brecce alla loro irresponsabile aggressività”. Tutto qui. Si alzano barriere protettive fatte di autoritarismo, indifferenza, a volte disprezzo, sempre di sordità e superficialità. Eppure basterebbe ammettere che siamo come “loro”: sospesi in una relazione delicata, non facile, importante, che va costruita nel tempo, con pazienza e comprensione, con autorevolezza e senso delle proprie responsabilità.
Quello di insegnante è un mestiere prioritario nel complesso tessuto di una società, perché garantisce la qualità del futuro. Impegnarsi in esso non vuol dire solo “studiare la materia” ma anche “studiare se stessi”. “Non essere all’altezza” non è mai una colpa, purché lo si sappia; infatti capita tutte le volte che iniziamo una nuova attività (sfatiamo quella percezione di sé che sta dilagando, secondo la quale per entrare in un lavoro lo devo saper già fare bene. Questo è un delirio di onnipotenza che non ci fa crescere). Per entrare bene in un lavoro bisogna amarlo; per riuscire ad insegnare, è d’uopo amare sia ciò che si insegna che i giovani, combattendo, all’inizio, contro le inevitabili insicurezze. Le insicurezze ci accompagnano e ci formano; piuttosto che patirle, sarebbe utile indossarle con eleganza. Nascondere la propria presunta inadeguatezza dietro una maschera di indifferenza autoritaria è un crimine che per primi paghiamo con l’insoddisfazione per quello che facciamo.
Affidarsi ai dispositivi di e-Learning aiuta ad aumentare il numero di maschere che indossiamo, ma naturalmente non risolve i problemi, anzi li moltiplica. In che senso?
Perché non vediamo più gli occhi e il volto di coloro ai quali parliamo, o li vediamo isolati davanti a una telecamera che costringe ad essere seri e compunti (a parte i soliti “scugnizzi” maleducati) senza nessuna reale convinzione. L’uso diffusissimo e costante della cosiddetta lezione frontale ci ha abituati, nei “secoli”, a parlare a… spersonalizzando la comunicazione. “Parlare a…” non distingue, o al massimo ci porta a tarare il registro verbale in funzione del cosiddetto gruppo classe, concetto con molti limiti.
Parlare con… è un’altra cosa: implica la relazione personale con colui al quale mi rivolgo. Naturalmente dalla cattedra questo è impossibile, ma non passeggiando tra i banchi e sostando ora qua e ora là accanto a qualcuno, per farci sentire “vicini”. Con l’e-Learning, poi, diventa essenziale: con l’accesso diretto degli allievi ad un dispositivo personale, si fa indispensabile scendere dal piedestallo e stabilire quella vicinanza con chi lavora davanti a un video, perché il video non solo stacca lo studente dall’insegnante, ma anche dai compagni. Chiudo la parentesi.
Essere consapevoli delle proprie insicurezze rende forti. L’importante è possedere alcuni “strumenti filosofici” o predisporsi a coltivarli. In ordine essi sono:
1) L’ironia e l’autoironia
2) Il distacco
3) La rivalutazione di sé
Difficilmente l’adolescenza aiuta ad essere ironici; sarcastici sì, ma allo scopo di ferire. Mostrarsi ironici verso se stessi, anche come “professori”, è un primo atto di smobilitazione delle difese. Proprie e altrui. È come dire: “mirate al cuore… se ne avete cuore”; è vero, non so chi siete e cosa vi aspettate da me, insegnarvi Hegel è come scalare l’Everest e non mi illudo di saper dimostrare con chiarezza come si sviluppa un’equazione differenziale, ma credo nella vostra intelligenza e grazie a voi fra poco tempo mi sentirò meglio. È un gesto che suscita sempre gratitudine, che rompe il ghiaccio e fa sembrare “umana” quella creatura un po’ attempata che ha qualcosa da dire sul mondo. Non si sbaglia mai a metterla su un piano sorridente, perché ai ragazzi non dispiace mai sorridere, anche se non lo ammettono.
Il “distacco” è quella cosa che i filosofi greci hanno teorizzato già duemila anni fa. Se scopro un “pivello” a copiare durante una prova scritta, è bene che mi ricordi che non è un’offesa personale, ma un danno che fa a se stesso. Eppure, otto docenti su dieci se la prendono a morte, e pensano di risolvere la questione con violenze verbali poco dignitose, abbassandosi al livello di una rissa da bar. Si farebbe bene, in casi simili, a guardare il colpevole con sufficienza e compassione, scotendo il capo senza proferir verbo. Se poi egli non capisce e non si vergogna, peggio per lui; se voglio educare i miei figli a ceffoni, sono fatti miei, ma un allievo non è un figlio, è una persona che ha anche il diritto di sbagliare, se proprio vuole. Può dispiacere, ma è così. (Questo fatto naturalmente mi è capitato alcune volte, e ho visto mezza classe arrossire per il colpevole. Colpirne cento per educarne uno…)
E infine, come che sia, siamo saliti in cattedra. Abbiamo faticosamente studiato e superato esami, siamo adulti e consapevoli, con un quarto o mezza vita alle spalle, e non c’è molto di nuovo che ‘sti ragazzini possano dirmi. Le cose le so e glielo dimostrerò. Rivalutare se stessi è un esercizio che richiede applicazione, un jogging mentale da non sottovalutare. Tonifica la voce e lo sguardo, ci rende un po’ più sfuggenti per il tiro al bersaglio e mostra i muscoli a chi capisce solo questo. Può sembrare strano, ma anche il professore più stentoreo nella sua inscalfibile protervia nozionistica è solo uno che non crede molto in se stesso; che fatica ad abbandonarsi con fiducia alle proprie intuizioni, credendole poco credibili o solide, che non si ricorda della strada che ha fatto per crescere, confondendosi sempre con i ragazzi che ha davanti agli occhi. I miei ex colleghi più “problematici”, quelli che neppure i presidi potevano sopportare, quando parlavano con me sfuggivano sempre al mio sguardo, cercando di andare altrove al più presto.