L’episodio mi riporta a tantissimi anni fa, al tempo della mia ragazzità. Viaggiavo su un autobus, tutti i posti occupati, molti uomini seduti e molte donne in piedi. Ad un certo punto, una voce stridula e sgradevole, quella di un signore – non ricordo più se giovane o anziano – che apostrofa una signora ondeggiante per gli strattoni del mezzo accanto a me: “non mi alzo! Volete la parità, e allora tenetevela!”.
Il giornalismo è caduto nella Rete.
Il problema è spinoso: che cosa vuol dire “parità”? Mettiamo il caso che io sia una signora e che lotti per il riconoscimento della parità di genere: in base a quale principio potrei pretendere che un uomo si alzi per cedermi il posto? Giuseppe Verdi direbbe: “questa o quello per me pari sono”. Mettiamo ancora che, nel mio posto di lavoro, io guadagni esattamente quanto un mio collega maschio (succede e non succede, si sa), che abbia fatto una discreta carriera e sia arrivata ad una certa età: mi offenderei ancora se, in un CdA, dovessi andarmi a prendere una sedia perché trovo tutti i posti occupati? Chi lo sa. In effetti sono un maschio e certe cose non le posso capire.
Nel mio piccolo mondo di insegnante, le mie colleghe guadagnavano esattamente quanto me, nei collegi docenti erano tutte sedute mentre qualche uomo se ne stava in piedi, e spesso qualche signora mi accompagnava a casa con la sua auto perché io avevo lasciato la mia a mia moglie. Un “piccolo mondo”, certo, molto diverso dall’inferno aziendale maschilista o dalle catene di montaggio dove “una” non vale “uno”. Parlo quindi da un’angolatura miserabilmente ristretta, di un mondo in cui non c’è nessuna speranza di fare carriera e la competizione – maschio-maschio, maschio-femmina – è azzerata; un mondo in cui le signore sono signore e i signori signori, e basta. Un mondo in cui essere signore non vuol dire essere donne (nel senso di “donnità”), in cui troviamo signore presidi col dente avvelenato verso le loro subordinate e tutte una moina verso gli uomini (io l’ho provato). Un mondo a parte, in cui il potere non conta nulla.
Non è allora che la parità di genere oggi invocata è sineddoche di “parità di potere”?
QualcunA lo ammette con chiarezza; ma allora, lasciatemi dire che la cosa non mi riguarda. Ho scelto un mestiere nel quale il potere non c’azzecca e ho sempre provato ribrezzo per i “bancomat” del potere, individui che, in cambio della tua anima, ti concedono il pass per una poltrona; se una signora ambisce a questo, che si accomodi, ma non mi chieda di cederle il posto sull’autobus.
Rimane l’oltraggio del sultano di cui sopra, ma soprattutto la goffaggine di Charles Michel, che è cosa diversa. Lì a essere misconosciuta non è “la donna” ma la femminilità, cose che non sempre coincidono. La femminilità è l’altro da me, il Diverso, senza il quale (la quale) io non avrei senso: il rispetto per la femminilità non è rispetto per la donna ma per quella diversità che dà senso alla mia vita, per quelle cose che mi mancano ma senza le quali non potrei esistere. Dunque, cedo il mio posto a sedere non per rispetto ma per il bisogno di proteggere qualcosa di prezioso e di unico, qualcosa che riconosco essere importante. Che abbia o no “potere”.