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Restiamo umani.

Restiamo umani.

31 Maggio 2021 Maurizio Chatel
Maurizio Chatel
Maurizio Chatel
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Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro dell’algoritmo (in America, landa popolata di spettri, la cosa preoccupa meno).

Ma che cos’è un algoritmo?

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Il nome deriva dal matematico persiano al-Khwarizmi, vissuto nel IX secolo d.C., ma le prime nozioni di algoritmo si trovano in documenti risalenti al XVII secolo a.C., conosciuti come i papiri di Ahmes, che contengono una collezione di problemi con relativa soluzione[i]. In pratica, il concetto indica una qualsiasi strategia volta alla soluzione di problemi, attraverso una sequenza finita di operazioni (dette anche “istruzioni”). Secondo il matematico Paolo Zellini, il criterio algoritmico sorse in Occidente poco dopo le prime speculazioni sul numero, e costituisce uno degli essenziali fondamenti logico-deduttivi su cui si basa la matematica. Organizzare il calcolo sulla base di una sequenza di operazioni è dunque il minimo comun denominatore di ogni elementare metodo di ricerca scientifica.

Nel XX secolo, l’algoritmo divenne il nucleo generativo di qualsiasi procedimento informatico, poiché esso permette di automatizzare un processo di calcolo sulla base di quattro principi: 1) stabilire un numero finito di operazioni, 2) ottenere gli stessi risultati inserendo gli stessi dati, 3) rendere le istruzioni interpretabili nello stesso modo da chiunque (e quindi anche da una macchina), 4) la soluzione di un problema dev’essere uguale per tutti i problemi della stessa classe.

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Come ogni altra parola, anche “algoritmo” presenta due aspetti, uno denotativo e uno connotativo. La denotazione indica la definizione vera e propria del termine, ossia la sua appartenenza all’area semantica della matematica (o del calcolo); la connotazione invece spazia negli usi, più o meno impropri, che della parola vengono fatti, includendo modi di dire, metafore, e vari altri tipi di figure retoriche. Ed è in questo senso, per farla breve, che il concetto di algoritmo ha assunto, nell’odierno linguaggio comune, l’aspetto negativo di una procedura disumanizzante che tende a porre l’agire umano sotto il controllo di processi automatici per lo più ignorati e incontrollabili, se non dai loro stessi ideatori (rivestiti dall’aspetto assai sinistro di moderni “grandi fratelli” orwelliani).

 È noto come la nascita dell’informatica e il suo diffondersi anche commerciale dagli anni Settanta in poi abbia suscitato, a livello planetario, un’ondata di entusiasmo e una crescente partecipazione creativa, facendone uno dei campi di ricerca e di lavoro tra i più importanti dei nostri tempi; è meno risaputo che la metafora del “Grande fratello”, desunta dal romanzo di Orwell 1984, nel quale ricopriva il significato di «personificazione dello stato in quanto entità onnipotente, totalitaria e tirannica»[ii], si è diffusa in modo pervasivo e universale solo dai primi anni del 2000, grazie all’omonimo programma televisivo creato da un olandese e immediatamente copiato in tutto il mondo. La fusione allegorica tra i due fenomeni – l’informatica come strumento di manipolazione delle coscienze – è ancora più recente, e coincide con il diffondersi sempre più massiccio di alcune applicazioni digitali note come social network (inutile farne l’elenco) e soprattutto con la posizione monopolistica di Google nell’utilizzo dei miliardi di dati disponibili in Internet. E allora veniamo al punto.

È facilmente intuibile l’impossibilità di “mettere in discussione” – nel senso di criticare – l’importanza dell’algoritmo nel mondo della ricerca scientifica e di ogni metodologia volta alla soluzione di problemi. Semplicemente, non possiamo rinunciare all’uso dell’algoritmo, così come non possiamo rinunciare alla conoscenza delle leggi della termodinamica, pena regredire intellettualmente all’età della pietra (ma attenzione: anche l’incisione di una selce per la fabbricazione di una punta di lancia segue un principio d’ordine di tipo algoritmico… e allora: cos’è un algoritmo?). Organizzare la soluzione di un problema o una procedura di lavoro sulla base di una serie di operazioni de-finite e ripetibili non ha altro scopo che quello di rendere un determinato lavoro facilmente apprendibile da chiunque; equivale cioè alla possibilità di trasmettere ciò che si sa e di fissare dei risultati che non debbano ogni volta essere ricercati da capo. In questo senso, anche il linguaggio è costituito da serie di algoritmi che ci permettono di dare un significato sufficientemente certo ai nostri enunciati (perlomeno, alla classe degli enunciati cosiddetti dichiarativi).

Sotto questo aspetto, possiamo tranquillamente affermare che l’essere umano in quanto essere razionale è necessariamente sottoposto al rispetto di innumerevoli algoritmi, senza i quali non potrebbe interloquire con i suoi simili nella costruzione del mondo. Così come non possiamo parlarci senza rispettare le regole della sintassi, nessuno di noi può agire al di fuori di criteri che mettano ordine nelle nostre operazioni (se faccio il chirurgo, prima devo anestetizzare il paziente, e se uso un martello è bene che non me lo dia sulle dita).

 L’importanza del procedere algoritmico acquista dunque un valore antropologico: esso ci consente di non commettere errori, o almeno di ridurli in una misura accettabile; il singolo individuo lasciato a se stesso ha molte più probabilità di sbagliare di colui che, invece, si affida a chiare e precise istruzioni. Imparare un mestiere non ha altro significato che questo. L’evoluzione dell’informatica ha introdotto la logica algoritmica in una serie impressionante di attività, anche le più sofisticate e umanamente rilevanti, come la chirurgia o la gestione delle centrali nucleari, e occorre essere intellettualmente onesti per riconoscere che tale scelta è sorta con lo scopo primario di ridurre le possibilità di un cosiddetto errore umano (il concetto stesso di “errore umano” è altrettanto recente, proprio a partire dagli effetti indesiderabili che un individuo potrebbe creare alterando un procedimento automatico o per incompetenza o per distrazione). È indubitabile che alla base di questo moderno fenomeno di automazione generalizzata vi sia (anche ma non solo) la credenza filosofica circa la fallibilità dell’essere umano, una sfiducia motivata sui nostri limiti nutrita anche da profondi significati di tipo etico e religioso. Tutto ciò, tuttavia, dice ancora poco.

 Il punto debole dell’argomento consiste proprio nel venir a coincidere delle procedure algoritmiche con lo sviluppo tecnologico dell’automazione, ovvero con la sostituzione quasi integrale del lavoro umano per mezzo delle macchine robotizzate. Questo fenomeno ha ovviamente destabilizzato il tessuto sociale, con la perdita di innumerevoli posti di lavoro, ma è bene ricordare che non è affatto una novità nella nostra storia. Dalla meccanizzazione dei lavori agricoli nell’Inghilterra di fine Settecento alla diffusione dei telai meccanici pochi decenni più tardi, il processo di industrializzazione capitalistico ha proprio nella meccanizzazione del lavoro uno dei suoi punti di forza. La vera novità, se vogliamo, consiste nell’allargamento di tale processo dai lavori manuali a quelli intellettuali. È proprio su questo inatteso sviluppo che le contraddizioni sono deflagrate a un livello mai visto. Infatti, mentre le lotte operaie per la difesa del lavoro si iscrivevano in un orizzonte politico ideologicamente ben definito, con schieramenti contrapposti riconducibili a precise e ben delimitate visioni del mondo, la sensazione di alienazione che il cosiddetto “dominio dell’algoritmo” sui nostri processi creativi ha prodotto si è allargata a una platea molto più indistinta ideologicamente, e sempre più vasta con l’allargarsi dell’istruzione nel mondo. La “classe operaia” in Occidente è quasi scomparsa, ma parallelamente è molto aumentata la componente medio-borghese della società, e se i robot nelle fabbriche garantiscono almeno la produzione dei beni di consumo (supplendo al numero sempre minore di poco istruiti disponibili ai lavori manuali), la “scoperta” dei “robot” digitali che gestiscono le informazioni a un livello per noi inaccessibile sta creando un’ondata di indignazione (quando non di panico) sempre crescente. Essere istruiti comporta l’idea di “essere consapevoli”, cioè padroni della propria coscienza; ma cosa succede se questa consapevolezza è scavalcata da procedure di controllo che incanalano ogni nostra scelta di pensiero verso finalità che non sono le nostre? Questo è il problema.

Ma è davvero un problema?
Mi permetto di formulare alcune riflessioni molto personali[iii].
I richiami più comuni che si alzano ormai da più parti sono quelli che ci sollecitano a “restare umani”, offrendo una resistenza consapevole all’invadenza, nella nostra vita, di procedure informatiche in qualche modo “subliminali”, capaci di distorcere la corretta visione del mondo manipolando le nostre scelte. In tal caso, conservare la propria umanità assume un significato equivalente a quello di conservare la propria libertà, ovvero la padronanza di sé. Restare umani per restare liberi è l’invito-avvertimento che ci viene rivolto nel mondo informatizzato dei Big data. Ho già scritto che, sulla scia del pensiero critico novecentesco, l’idea di libertà ha totalmente perso il suo valore collettivo (essere liberi in quanto membri di una comunità, o in quanto sciolti da vincoli economici di classe) per farsi anelito soggettivo sganciato da ogni principio di riferimento[iv]. Una libertà “nuda”, diciamo così, o ab-soluta, sciolta-da, che non è mai esistita nella condizione umana. Mentre la lotta di liberazione contro la tirannia è un movimento di popolo fatto di esercizio politico e bellico, e la lotta di classe richiede l’adesione a un’idea di appartenenza che in qualche modo sacrifica la nostra individualità, la libertà di coscienza è un valore totalmente individuale che certamente può essere sollecitato dall’esterno ma il cui raggiungimento rimane soggettivo e imprescrivibile.

 Non c’è bisogno di leggere Foucault per sapere che in ogni fase della nostra storia sono state messe in atto forme anche dure e perverse di condizionamento, soprattutto culturale e psicologico; si può essere credenti anche ammettendo che la religione ne è stato uno degli esempi più clamorosi e di più lunga durata. Con la “morte di Dio” la merce si è costituita come nuovo Ente Supremo, e il consumismo è la sua adeguata liturgia. Non c’era neanche bisogno di arrivare a Internet per stabilire che il valore determinante del neocapitalismo è la riduzione della persona a mero consumatore: questo è lo scopo perseguito negli ultimi quarant’anni di televisione e di industria culturale. Risulta così che la nostra “libertà” è in pericolo ormai da quasi mezzo secolo, e che non è Internet la causa principale dell’attuale stato di alienazione in cui siamo caduti. Ciò non significa, naturalmente, che si debba rinunciare ad esercitare ogni possibile forma di critica e svelamento nei confronti del sistema politico-economico che pretende di regolare le nostre esistenze; significa, al contrario, che nel perseguire questo nobile intento dobbiamo stare attenti a non sbagliare bersaglio.

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 Demonizzare l’algoritmo è un chiaro esempio di riduzione apocalittica del problema, equivalente all’idea che per non dire più bugie occorra tagliarsi la lingua. Probabilmente, sarebbe più efficace far capire che Internet non è sinonimo di “libertà” e che il suo “spazio aperto” è un’illusione senza fondamento. Soprattutto, l’invito a “restare umani” deve presupporre una onesta e chiara definizione di cosa significhi “essere umani”.  Certamente, l’idea di umanità non implica quelle di perfezione e di libertà: questi sono valori a cui possiamo tendere con fatica e sofferenza, ed è onesto ammettere che non è da tutti desiderarli. “Restare umani” potrebbe quindi significare “restare imperfetti e soggetti ad ogni forma di fallibilità”.

 Il desiderio di non commettere errori in tutto quello che facciamo è certamente molto umano; tutto ciò che la nostra intelligenza ha escogitato di rilevante nella sua storia va nella direzione di un alleggerimento del peso che gli errori comportano nella nostra esistenza, dalla creazione del tribunale nella Polis greca all’applicazione dell’Intelligenza artificiale nei test di valutazione aziendale. Ma è un po’ un girare a vuoto: l’errore è sempre dietro l’angolo, che a commetterlo sia un individuo in carne ed ossa o una “macchina”. È totalmente fuorviante sostenere che la digitalizzazione algoritmica delle attività anche più delicate ci disumanizzi: non c’è nessun guadagno se a giudicarci colpevoli perché “neri” è un giudice razzista piuttosto che un algoritmo, o se a togliere un freno a una funivia è un operatore sconsiderato piuttosto che un errore di calcolo. L’errore, piuttosto, è nel credere che l’automazione sia la soluzione ideale, che essa ci “liberi dal male”, eludendo la nostra fallibilità. Quest’ultima è una tipica forma di illusione escatologica che getta le radici in archetipi irrazionali di carattere mistico, qualcosa di così profondo da rendere impensabile l’idea di liberarsene con la semplice forza di volontà.  Liberare le coscienze non è un compito politico – come ritenevano i millenaristi, da fra’ Dolcino a Karl Marx – ma una fatica di Sisifo che si ripete al cambiare di paradigmi e di condizioni di esistenza, una fatica solitaria che non ripaga in termini di potere e di visibilità.

 


[i] Vedi la voce in Wikipedia.

[ii] Dizionario De Mauro

[iii] Non amo moltiplicare nei miei scritti i riferimenti bibliografici e le dotte citazioni di ricerche scientifiche note solo agli addetti ai lavori. Mi piace portare l’argomentazione su un piano riflessivo condivisibile senza dover ricorrere ad un principio d’autorità esterno, che non siano alcuni pochi ed evidenti fatti di carattere storico verificabili da chiunque. Se i miei argomenti non convincono di per sé, allora neppure infarcirli di giustificazioni porterebbe alcuna utilità.

[iv] Mi permetto di citarmi, per maggiore chiarezza: «Ciò che va perseguito è la libertà della propria coscienza da qualsivoglia forma di condizionamento, sia nel pensiero (il pensiero libero si identifica oggi in prima istanza col pensiero critico e alternativo) che nel comportamento (soprattutto sessuale, a partire dall’opera di Foucault); il concetto di Libertà ha perso molto del suo valore universale, comune, per farsi principio di identità, auto-riconoscimento senza vincoli di appartenenza.»

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