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Sull’utilità e il danno di Linkedin

Sull’utilità e il danno di Linkedin

22 Marzo 2021 Maurizio Chatel
Maurizio Chatel
Maurizio Chatel
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Considerazioni inattuali e irrilevanti su Linkedin, un social per me nuovo che sto sperimentando come luogo di confronto e condivisione delle mie idee, delle cose che scrivo e delle mie conoscenze.

 

“Sono” su Linkedin, come si suol dire. Ma “chi sono”? E “dove sono”? Fisicamente parlando, “sono” una serie di dati (stringhe logiche) manipolati da un algoritmo e depositati in una (?) unità di memoria collocata non so dove. Però “ci sono”, e lo constato dal fatto che altre decine e decine (pochine, lo so) di dati mi appaiono sullo schermo in forma di fotografie e informazioni, e si rivolgono a me come persona. Dunque “esisto” per un numero pur sempre considerevole di persone che di me sanno ben poco, se non che possono contattarmi quando vogliono per aumentare e perfezionare le loro informazioni, ovvero per accrescere la quantità di dati a loro disposizione.

 

 

In questo breve lasso di tempo ho imparato che Linkedin non è Facebook; più sofisticato ed esigente, non tollera sbracature di nessun tipo, e la cosa è molto interessante. Non ne sono sicuro, ma credo che non esistano filtri precostituiti sulla qualità dei messaggi che vengono rilasciati: se volessi rivolgere un insulto a qualcuno, forse lo potrei fare, lanciandolo con un click appena scritto. E poi, cosa succederebbe? Non lo so e non intendo farne la prova, ma posso presumere che verrei “bandito” dalla comunità, diventando inviso a tutti i miei “contatti” per la semplice ragione che mi sono comportato da mascalzone. E, in effetti, mentre i mass media sono pieni di notizie sulla degenerazione dei social più “popolari”, mai una volta ho letto di simili aggressioni “da tastiera” su Linkedin. Mi sono perso qualcosa?

Riflettendoci, ne desumo che “galeotto (non) fu il mezzo e chi lo scrisse”, nel senso che quanto succede su un social può non succedere su tutti, e questo perché, semplicemente, gli utenti non lo vogliono. Come succede nel mondo, se su una piazza trovo spacciatori e prostitute, con il loro codazzo di malintenzionati, semplicemente giro i tacchi e cambio piazza, dove forse troverò una panchina su cui isolarmi pacificamente.

Nessuno è innocente e non è mai solo colpa del mondo.

Ma non è tutt’oro quel che luccica. Detto volgarmente: che cosa me ne faccio di tutte queste amicizie virtuali? Come dicevo, è presumibile che a ciascuno di questi “pacchetti” di dati corrisponda una persona; dico “è presumibile” nel senso scettico di Hume: fino a questa mattina il sole è sorto ininterrottamente tutti i giorni, ma su che cosa baso la certezza che domani sarà lo stesso? Io “penso dunque sono”, ma su cosa posso basare la certezza che dietro quelle faccine ci sia realmente “qualcuno”? Lasciamo per ora da parte ogni scetticismo e prendiamo per buono ciò che il buon senso ci suggerisce: è improbabile che Linkedin sia Matrix e che chissà chi voglia ingannarmi facendomi credere di essere in un mondo che non c’è.

Sono dunque in contatto con un numero di persone superiore a quante ne potrei raggiungere fisicamente (malgrado abbia insegnato per tutta la vita e fossi fisicamente a portata di voce di sessanta o settanta ragazzi tutti i giorni). Con tutte queste persone posso interloquire facilmente (chat) e scambiare informazioni, se lo desiderano anche via posta elettronica. E la domanda era appunto questa: a quale scopo?

Linkedin ha una fisionomia ben precisa: è, a livelli incredibilmente più sofisticati, quello che un tempo erano i bigliettini da visita; “io sono questo e faccio cose”… facile capire quanto incredibilmente più efficace possa apparire la versione digitale e sociale di quei vecchi pezzetti di carta. Ma, appunto: possa apparire.

Voglio fare un esempio non banale sull’apparenza di questa pratica comunicativa. Tutti sappiamo come funziona, a grandi linee, il Consiglio d’Europa, o il G7, o il G20: abbiamo 27 capi di Stato che si incontrano regolarmente, ovviamente si conoscono (ciao Mario, ciao Angela, ciao Emmanuel), e lavorano in rete, nel senso che fanno parte di una comunità d’intenti. Ciascuno di loro, ovviamente, fa capo a un governo, e gestisce la politica di una nazione. Gli scopi sovranazionali del Consiglio d’Europa consistono nel proporre e, possibilmente, attuare trattati di natura politica ed economica, che si sovrappongono agli atti amministrativi e politici dei diversi Stati. Succede così che ogni leader si trovi ad affrontare problemi di natura immediata, i problemi del suo Paese, e altri di natura apparentemente meno immediata, i problemi comuni. Quanti di questi trattati vanno a buon fine? La storia recente ci insegna che non sono molti. La Francia può firmare un accordo e l’anno dopo ritirarsi o criticarlo, così come l’Ungheria o quant’altri. Una volta Merkel a Macron si trovano per decidere d’imperio, ma i loro partner protestano e tutto va a monte. Il Consiglio d’Europa di rivela così uno strumento poco incisivo, farraginoso, lento e difficile da trattare. Il povero Mario Draghi ha problemi tali da risolvere, che i messaggi di Pedro Sanchez sulla sua scrivania lasciano il tempo che trovano.

 Che c’entra tutto questo con Linkedin? Semplice: i miei messaggi ai 90 contatti del mio profilo fanno quasi sempre (quasi) la fine di quelli di Sanchez a Draghi. Vengono “visti”, e lasciati lì, perché la vita di ciascuno (la mia compresa, of course) è “un’altra cosa”, va avanti nel mondo e ha i limiti fisici ristretti all’esistenza “qui ed ora” di ogni persona. Posso illudermi di avere raggiunto 90 persone (lo so, l’ho già detto: 90 è un numero risibile), ma in realtà ho solo lasciato un biglietto da visita che si accumula sul loro profilo con altre centinaia di bigliettini simili. Può capitare che qualcuno mi risponda, per cortesia, ma quello che io volevo, lavorare con lei/lui, non succede. E per quanto mi riguarda, non scaglio la prima pietra.

Come per tutte le cose, ci vuole tenacia, perseveranza e un progetto: io vado avanti, la mia vita va avanti, il mio lavoro si concretizza sulla base del suo valore intrinseco, e non è solo una facciata con la quale mi costruisco un’immagine. È l’immagine, il significato che la parola ha assunto, lo zampino del demonio, la trappola diabolica dalla quale si generano il male di vivere e le frustrazioni che i social distribuiscono come veleno nei pozzi.  

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